di Michele Paris

Con il discorso di accettazione della nomination da parte di Barack Obama, nella notte italiana di giovedì si è conclusa a Charlotte, in North Carolina, una convention democratica all’insegna della demagogia e di un populismo che nasconde a malapena il divario enorme tra la classe dirigente americana e i problemi della grandissima maggioranza della popolazione. La retorica del presidente ha ancora una volta distorto il significato delle politiche perseguite dalla sua amministrazione durante il primo mandato, prospettando, se gliene sarà data la possibilità dagli elettori, l’illusione di un’imminente crescita economica a beneficio delle classe più disagiate, proprio mentre al contrario, al di là dell’esito del voto, si profilano altri quattro anni di nuovi assalti alle condizioni di vita di lavoratori e classe media.

Con un livello di entusiasmo già decisamente inferiore rispetto al 2008, a causa del maltempo gli organizzatori dell’evento di questa settimana si sono visti costretti a cancellare all’ultimo minuto anche l’intervento di Obama in uno stadio all’aperto, privando il presidente di un’apparizione di fronte ad una folla di oltre 60 mila sostenitori. Il suo discorso è stato alla fine spostato all’interno della Time Warner Cable Arena, dove nei primi due giorni della convention avevano sfilato i vari esponenti del partito.

A Charlotte, come a Tampa la settimana scorsa durante la convention repubblicana, l’intervento finale del candidato alla Casa Bianca ha suggellato una tre giorni del tutto artificiosa, durante la quale è mancato un vero dibattito sulla situazione drammatica di decine di milioni di americani, aggravata dalle politiche messe in atto in questi anni per salvare il sistema finanziario responsabile della crisi esplosa nell’autunno del 2008.

Salito sul palco dopo l’accettazione della candidatura alla vice-presidenza di Joe Biden, Obama ha elencato una serie di promesse, tra cui spiccano quelle di aggiungere un milione di nuovi posti di lavoro nel settore manifatturiero entro il 2016 e di ridurre il deficit federale di 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio. Due obiettivi che dovrebbero essere raggiunti, rispettivamente, con l’ulteriore drastica riduzione delle retribuzioni e dei diritti dei lavoratori - come è stato fatto con il “salvataggio” dell’industria automobilistica americana - e con tagli devastanti alla spesa pubblica.

Senza timore di essere accusato di ipocrisia da una stampa “mainstream” che continua a sottolineare come tra i programmi dei due partiti vi sia una differenza sostanziale, Obama ha poi accusato Mitt Romney e i repubblicani di voler perseguire le stesse fallimentari politiche ultra-liberiste che beneficiano solo le classi più agiate, mentre i democratici si proporrebbero come gli unici difensori di una “middle-class” sempre più in affanno.

Una simile caratterizzazione, al centro del dibattito democratico a Charlotte, è però del tutto infondata, dal momento che non spiega come in questi quattro anni a beneficiare delle politiche economiche dell’amministrazione Obama siano state solo le grandi corporation, così come top manager e speculatori di Wall Street che hanno visto lievitare i propri bonus.

Inoltre, la presunta volontà di difendere la classe media si è accompagnata all’affermazione della necessità dell’intervento dello stato nell’economia per correggere le distorsioni del mercato. A differenza di quanto sostengono i repubblicani, i democratici hanno ripetuto che lo stato non è la causa di tutti i mali. Tale posizione è però smentita dai fatti. In questi anni, ad esempio, sia a livello federale che locale, gli amministratori democratici non sono stati da meno di quelli repubblicani nel licenziare migliaia di dipendenti pubblici e nell’abolizione di programmi pubblici fondamentali, il tutto quasi sempre con la collaborazione delle organizzazioni sindacali.

La retorica ufficiale di un partito che si batte per il benessere della classe media è smascherata insomma da una realtà nella quale i poteri forti continuano ad esercitare un’influenza smisurata sulla politica di Washington. Proprio mentre un leader democratico dopo l’altro criticava l’eccessiva vicinanza dei repubblicani alle classi privilegiate, il partito ha dato il via ad un’aggressiva campagna per convincere un gruppo di facoltosi finanziatori ad aprire i cordoni della borsa e donare milioni di dollari per la campagna presidenziale. A questo scopo, l’altro giorno all’ex capo di gabinetto di Obama e sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, è stato assegnato l’incarico di dirigere la raccolta fondi di una “Super PAC” democratica.

L’intervento di Obama, come già ricordato, è stato preceduto da quello del suo vice, Biden, il quale ha ribadito i due “successi” attorno ai quali ha sostanzialmente ruotato la convention: la bancarotta controllata e il salvataggio di General Motors e la morte di Osama bin Laden. Quest’ultimo argomento è stato ancora una volta sfruttato per sottolineare le credenziali del presidente sui temi della sicurezza nazionale, tradizionalmente un punto di forza dei repubblicani. L’utilizzo a fini di propaganda elettorale di un assassinio cruento e illegale, attuato in violazione del territorio di un paese sovrano, testimonia a sufficienza dello spostamento a destra di un partito che continua ad affermare nel proprio programma ufficiale la difesa dei diritti civili e della legalità costituzionale.

La politica estera, che era rimasta fuori quasi del tutto dal discorso di Romney, ha invece occupato buona parte di quello di Obama. Il presidente ha accusato il rivale di inesperienza in questo ambito e di essere eccessivamente dipendente da consiglieri neo-conservatori dell’era Bush, nonché di avere un’idea delle vicende internazionali ancora legata ai tempi della guerra fredda. Obama ha difeso la lotta condotta dalla sua amministrazione contro Al-Qaeda, ovviamente senza citare né il drammatico deterioramento dei diritti democratici sul fronte interno e internazionale né il sostegno di fatto fornito proprio agli estremisti islamici anti-Assad in Siria, ma anche la fine della guerra in Iraq e il piano di ritiro delle forze di occupazione in Afghanistan. Anche in quest’ultimo caso, l’inquilino della Casa Bianca ha mancato di sottolineare come nel paese centro-asiatico rimarrà un significativo contingente anche dopo il 2014.

La sfilata a Charlotte di star del cinema e della musica - da Scarlett Johansson e Eva Longoria, dai Foo Fighters a Mary J Blige - testimonia infine il tentativo di dare al Partito Democratico un immagine di modernità e di vicinanza ai giovani americani sempre più sfiduciati. Allo stesso scopo è stata decisa la promozione dei temi identitari, come i matrimoni gay, entrati quest’anno per la prima volta nella piattaforma programmatica del partito di Obama.

Nel complesso, in ogni caso, a Charlotte come a Tampa in queste due settimane si è assistito ad un desolante spettacolo che avrebbe dovuto offrire l’occasione di una qualche riflessione ai media e ai commentatori d’oltreoceano sullo stato della politica americana.

Parallelamente al degrado del clima democratico negli Stati Uniti, infatti, le convention hanno perso da tempo la loro funzione di decidere il candidato alla Casa Bianca, mentre servono soltanto ad offrire un palcoscenico mediatico nazionale ai candidati stessi e ai leader di partito. Questi ultimi trascorrono così tre giorni a fare promesse che non verranno mai mantenute e ad intrattenere lobbisti e rappresentanti dei grandi interessi economici che realmente decidono delle sorti del paese.

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