di Michele Paris

Il tour in Asia orientale del Segretario di Stato americano, iniziato domenica scorsa a Tokyo, si concluderà in questi giorni con la sua partecipazione al vertice dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico (ASEAN) a Phnom Penh, in Cambogia. La trasferta di Hillary Clinton fa parte della strategia adottata da alcuni anni a questa parte dall’amministrazione Obama per riproporre una presenza aggressiva degli Stati Uniti in questo continente, con l’obiettivo principale di contenere la crescente espansione della Cina nella regione.

L’arrivo della ex first lady in Cambogia è stato preceduto da una storica visita nel Laos, dove un Segretario di Stato USA non metteva piede dal 1955. Devastato dai bombardamenti americani nel corso della Guerra del Vietnam per il sostegno fornito dalla guerriglia del Pathet Lao al Vietnam del Nord, questo paese intrattiene rapporti molto stretti con Pechino. La Cina in questi anni ha assicurato al regime stalinista al potere in Laos centinaia di milioni di dollari in programmi assistenziali, mentre gli investimenti diretti nei settori minerario, energetico e agricolo superano i 4 miliardi di dollari.

Nella capitale, Vientiane, la Clinton ha incontrato il premier e il ministro degli Esteri laotiani, con i quali ha discusso la possibilità di aprire il paese agli investimenti americani, mentre ha lasciato intendere che in cambio Washington potrebbe appoggiare un futuro ingresso del Laos nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

In Laos rimane una certa diffidenza nei confronti degli Stati Uniti, responsabili di una strage silenziosa dovuta alla quantità enorme di bombe inesplose risalenti al conflitto in Vietnam e che dalla fine delle ostilità hanno fatto almeno 20 mila vittime. Come in altri paesi vicini, tuttavia, anche il Laos è disponibile ad instaurare rapporti amichevoli con Washington, così da svincolarsi dai legami di dipendenza con Pechino.

L’esempio più lampante in questo senso è quello del Myanmar, anch’esso meta di una recente visita di Hillary Clinton. Proprio questa settimana, la Casa Bianca  ha annunciato lo smantellamento delle restrizioni agli investimenti nella ex Birmania per le proprie aziende. Una mossa annunciata quella americana che arriva ufficialmente in risposta alle “riforme” democratiche portate avanti dal regime nominalmente civile al potere dopo le elezioni del 2010, ma che in realtà serve per intensificare i rapporti con un paese strategicamente fondamentale per gli interessi cinesi. A suggellare il nuovo corso nelle relazioni dei due paesi, la Clinton incontrerà nuovamente il presidente birmano, Thein Sein, nella giornata di venerdì in Cambogia a margine del vertice ASEAN.

In precedenza, oltre che in Giappone il Segretario di Stato USA ha fatto visita anche in Mongolia e in Vietnam. Nel paese al confine settentrionale cinese, pur senza nominare esplicitamente Pechino, Hillary ha rilasciato dichiarazioni inequivocabili, criticando quei paesi che ancora negano i diritti democratici dei propri cittadini. In Vietnam, invece, la questione dei diritti umani è stata toccata solo marginalmente, mentre l’incontro con le autorità locali è stata l’occasione per sottolineare il crescente volume di scambi commerciali tra i due paesi.

Come gesto di sfida nei confronti della Cina, inoltre, gli Stati Uniti appoggiano più o meno apertamente le rivendicazioni vietnamite su alcune isole nel Mar Cinese Meridionale che Pechino considera parte del proprio territorio. Nella più recente provocazione, con ogni probabilità con il consenso USA, il Vietnam ha ad esempio approvato una nuova legge che afferma la propria sovranità sulle isole di Spratly e Paracel, rivendicate appunto anche dalla Cina.

Le dispute attorno alle acque e alle isole nel Mar Cinese Meridionale rappresentano la causa principale delle tensioni tra la Cina e paesi come Filippine, Vietnam, Brunei, Taiwan e Malaysia, nonché indirettamente con gli Stati Uniti. Le Filippine, in particolare, con il sostegno americano sono coinvolte da aprile in una crisi navale con Pechino attorno ad un gruppo di isole contese al largo delle proprie coste nord-occidentali.

Su tale questione gli Stati Uniti fanno leva per aumentare le pressioni sulla Cina e, almeno a partire dal vertice ASEAN del 2010, promuovono un negoziato multilaterale per risolvere le varie dispute. Una simile soluzione è precisamente quanto aborrisce Pechino, da dove si preferisce piuttosto cercare soluzioni bilaterali senza l’intrusione di paesi terzi.

In un’altra conferenza ASEAN, tenuta nel novembre 2011 a Bali, in Indonesia, anche il presidente Obama aveva insistito su questo punto e, a fronte delle obiezioni cinesi, aveva spinto sui paesi membri per aprire una discussione attorno alle dispute nel Mar Cinese Meridionale. La stessa posizione è stata ribadita giovedì da Hillary Clinton e, infatti, l’ASEAN ha deciso di mettere all’ordine del giorno del summit un codice di condotta per regolare le dispute territoriali nella regione, anche se i paesi membri non sono riusciti a raggiungere un accordo condiviso.

Per Pechino, il Mar Cinese Meridionale riveste un’importanza strategica fondamentale, dal momento che da esso transitano rotte commerciali vitali per la Cina e, oltretutto, al di sotto di queste acque sono conservate ingenti risorse energetiche. All’apertura del vertice ASEAN, in ogni caso, Hillary ha sostenuto che “gli Stati Uniti non intendono prendere le parti di nessun paese nelle contese territoriali”, anche se, come è evidente, paesi come Filippine o Vietnam, alla luce della loro evidente inferiorità militare nei confronti di Pechino, difficilmente rischierebbero azioni provocatorie verso la Cina senza essere certi del sostegno americano.

A questa iniziativa ASEAN, come era prevedibile, la Cina ha risposto molto duramente. Un’editoriale pubblicato mercoledì dall’agenzia di stampa Xinhua ha avvertito i ministri riuniti in Cambogia a non farsi distrarre dalle questioni relative al Mar Cinese Meridionale, dal momento che l’ASEAN non è la sede adatta per discuterne.

Le dispute nelle acque al largo della Cina potrebbero facilmente sfociare in un aperto conflitto. Gli episodi che certificano le tensioni tra i vari paesi sono estremamente frequenti e il più recente è stato registrato mercoledì, quando una nave da ricognizione cinese è entrata nelle acque rivendicate da Tokyo nei pressi delle isole Diaoyu (Senkaku per i giapponesi) nel Mar Cinese Orientale. Il governo nipponico ha fatto intervenire la propria Guardia Costiera e ha successivamente convocato l’ambasciatore cinese a Tokyo, al quale è stata presentata una protesta formale.

Lo scontro è giunto in seguito non solo alla già ricordata visita di Hillary Clinton in Giappone ma anche all’uscita del premier Yoshihiko Noda che qualche giorno fa aveva proposto l’acquisto da parte dello stato delle suddette isole, attualmente proprietà di privati. Anche se smentito ufficialmente, è estremamente probabile che la mossa del primo ministro nipponico, subito criticata da Pechino, abbia trovato quanto meno l’approvazione del Segretario di Stato americano.

La rinnovata intraprendenza degli Stati Uniti in Asia sud-orientale in funzione anti-cinese non si limita al rafforzamento dei rapporti commerciali e diplomatici con gli alleati tradizionali o all’apertura di nuovi canali di comunicazione con paesi finora molto vicini alla Cina. Anche sul fronte militare Washington sta facendo sentire la propria presenza in quest’area cruciale del pianeta.

Lo scorso anno, ad esempio, Obama ha siglato con l’Australia un accordo che consente agli USA di dispiegare a rotazione un contingente militare in una base nel nord del paese, mentre da qualche tempo sono in corso trattative per riaprire una base permanente nelle Filippine. Con quest’ultimo paese, così come con il Vietnam, sono inoltre andate in scena svariate esercitazioni militari in questi mesi, tutte con un occhio alla Cina.

Lo scorso mese di giugno, infine, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, durante una conferenza a Singapore ha dichiarato che, nell’ambito della nuova politica asiatica dell’amministrazione Obama, gli USA entro il prossimo decennio schiereranno nelle regione Asia orientale/Oceano Pacifico almeno il 60 per cento delle proprie forze navali, pronte a intervenire in caso di conflitto con il principale rivale americano sullo scacchiere internazionale.

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