di Michele Paris

Mentre la campagna elettorale per la Casa Bianca sta entrando stancamente nel vivo a poche settimane dalle convention dei due partiti, i più recenti sondaggi continuano ad indicare un sostanziale equilibrio su scala nazionale tra Barack Obama e il candidato repubblicano, Mitt Romney. Ad influire sull’esito del voto di novembre saranno in primo luogo le centinaia di milioni di dollari spesi dalle rispettive organizzazioni elettorali, ma anche le prospettive dell’economia americana e del livello di disoccupazione, il cui andamento non sembra promettere nulla di buono per il presidente democratico.

Tra gli ultimi sondaggi apparsi sui media d’oltreoceano, quello pubblicato martedì da Washington Post e ABC News indica come Obama e Romney raccolgano ciascuno circa il 47% dei consensi dei potenziali elettori interpellati lo scorso fine settimana. La situazione di pareggio tra i due contendenti, fa notare il Washington Post, è praticamente simile a quella rilevata alla fine di maggio e, da oltre un anno a questa parte, solo in due rilevamenti su tredici uno dei due candidati ha fatto segnare un vantaggio superiore al margine d’errore.

Le indagini statistiche, oltre a suggerire come i due candidati alla presidenza siano per molti versi virtualmente indistinguibili, indicano un chiaro malcontento nei confronti di Obama e della sua performance non solo nell’ambito economico ma anche sui temi della sanità e dell’immigrazione. Il livello di gradimento del presidente risulta stabile al 47%, mentre il 49% degli americani disapprova il suo operato.

I numeri per l’inquilino della Casa Bianca appaiono dunque tutt’altro che incoraggianti, anche se il suo rivale repubblicano non sembra finora in grado di approfittarne. Anche all’indomani dell’ultimo rapporto sulla disoccupazione nel paese, che ha disegnato un quadro tuttora allarmante, nel sondaggio di Washington Post e ABC News, ad esempio, Romney insegue Obama di ben dodici punti percentuali quando agli intervistati è stato chiesto quale candidato abbia il progetto più efficace per risolvere i problemi economici degli Stati Uniti.

Le perplessità e le risposte apparentemente contraddittorie degli elettori riflettono da un lato la sfiducia nei confronti di tutta la classe politica americana e dall’altro, il rifiuto della ricetta economica ultra-liberista avanzata da Mitt Romney. Quest’ultimo sembra infatti poter denunciare agevolmente l’incapacità di Obama di risollevare il paese ma il suo programma, che prevede tra l’altro un’ulteriore deregolamentazione dell’economia, tagli alle tasse per i più ricchi e riduzione della spesa pubblica, comporterebbe un nuovo aggravamento della situazione per la maggioranza degli americani.

I sondaggi sul gradimento a livello nazionale sono in ogni caso puramente indicativi, dal momento che le elezioni presidenziali saranno decise dai risultati in una manciata di stati perennemente in equilibrio tra democratici e repubblicani (“swing” o “tossup states”). Secondo la maggior parte dei media USA, quest’anno la sfida si giocherà sulla conquista dei “voti elettorali” di Colorado, Florida, Iowa, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Virginia e Wisconsin.

Questi nove stati, tutti vinti da Obama nel 2008 e in buona parte finora ancora favorevoli al presidente uscente, assegnano un totale di 125 voti elettorali e risultano perciò fondamentali per raggiungere la soglia dei 270 necessari per conquistare la Casa Bianca. I rimanenti stati americani sembrano essere invece già assegnati con un certo margine di sicurezza a Obama o a Romney, i quali senza i cosiddetti “tossup states” sono attestati rispettivamente a 217 e a 191 voti elettorali.

Esposto agli attacchi repubblicani sulle questioni dell’economia, il presidente democratico all’inizio della settimana ha cercato di cambiare l’argomento al centro del dibattito della campagna elettorale, rispolverando così la sua proposta del 2010 di prolungare i tagli alle tasse inizialmente decisi da George W. Bush solo per i redditi inferiori ai 250 mila dollari l’anno.

I tagli al carico fiscale per tutti i redditi, una delle cause principale dell’allargamento del deficit USA, erano stati prolungati per altri due anni nel 2010 dopo che i democratici avevano ceduto alle richieste repubblicane, nonostante detenessero la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Il Partito Repubblicano e Mitt Romney continuano ad insistere per rendere permanenti i tagli fiscali per tutti gli americani e, anzi, il candidato alla presidenza propone un’ulteriore futura riduzione del 20% nell’ambito del suo appello a non alzare le tasse per i “creatori di posti di lavoro”.

La proposta di Obama fa parte di una strategia populista ostentata in questa fase della campagna nel tentativo di proporsi come il difensore dei lavoratori e della classe media, un blocco elettorale importante soprattutto in stati del Midwest come Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Ohio, dove il presidente ha appena concluso un tour elettorale.

Il suo atteggiamento è però puramente opportunistico, dal momento che il suo primo mandato è stato caratterizzato pressoché unicamente da politiche pro-business, mentre per quanto riguarda l’argomento tasse, Obama solo pochi mesi fa ha presentato una proposta di riforma fiscale che include un abbassamento dell’aliquota riservata alle corporation dall’attuale 35% al 28%.

Inoltre, come sa bene Obama, la proposta di lasciare scadere i tagli alle tasse solo per i redditi più alti non ha nessuna possibilità di ottenere i 60 voti necessari per superare l’ostacolo del Senato, per non parlare della Camera controllata dai repubblicani. Molti all’interno del suo partito, poi, vedono positivamente una nuova estensione di tutti i tagli fiscali o quanto meno per i redditi fino ad un milione di dollari.

In questo scenario, la soluzione più probabile appare, come nel 2010, un voto sui tagli dopo le elezioni di novembre, quando gli elettori avranno già deciso. Nelle ultime sessioni del Congresso, con ogni probabilità, i democratici daranno il via libera ad un rinnovo dei benefici fiscali per tutti i contribuenti, sostenendo che il compromesso con i repubblicani si sarà reso necessario per mantenere i tagli per i redditi più bassi, privando così le casse federali di centinaia di miliardi di dollari che dovranno inevitabilmente essere recuperati con nuove riduzioni della spesa pubblica.

Sul fronte dei finanziamenti alle campagne elettorali, infine, Mitt Romney continua a far segnare un maggiore successo rispetto a Obama. I dati ufficiali indicano come la campagna del candidato repubblicano abbia raccolto nel mese di giugno un totale di 106 milioni di dollari, contro i 71 milioni del rivale democratico.

Come ha scritto martedì il New York Times, le minori entrate di Obama rispetto al 2008 riflettono il voltafaccia di molti facoltosi finanziatori, soprattutto di Wall Street, che quest’anno sembrano orientati a schierarsi con l’ex governatore del Massachusetts. In effetti, quattro anni fa il Partito Repubblicano appariva screditato a tal punto che i maggiori donatori confluirono spontaneamente sul candidato democratico, certi che quest’ultimo avrebbe scrupolosamente difeso i loro interessi.

Ora, con la sostanziale riabilitazione dei repubblicani, i finanziatori più ambiti dai due partiti sembrano essere in buona parte tornati alla casa repubblicana, così da combattere anche le esili politiche di regolamentazione del settore finanziario messe in atto in questi anni.

Il denaro che affluisce direttamente nelle casse delle organizzazioni elettorali dei due candidati è peraltro solo una parte delle enormi somme in gioco. Dopo la storica sentenza della Corte Suprema del 2010, infatti, gruppi affiliati indirettamente ai candidati (“Super PAC”) possono raccogliere denaro senza limiti da donatori individuali o da corporation. Il risultato, ad esempio, è che questa settimana due delle Super PAC che sostengono Romney hanno dato il via ad altrettante campagne anti-Obama negli stati più in bilico che costeranno complessivamente qualcosa come 65 milioni di dollari.

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