di Michele Paris

Il Senato statunitense lunedì ha bocciato un provvedimento fiscale presentato dai democratici che conteneva la cosiddetta “Buffett Rule”, promossa da Barack Obama come uno dei punti centrali del suo programma elettorale nella corsa ad un secondo mandato alla Casa Bianca. La legge in questione avrebbe dovuto teoricamente alzare le tasse per i redditi più elevati, anche se lo stesso presidente aveva in sostanza riconosciuto la natura puramente propagandistica della proposta.

Tecnicamente, con il voto dell’altro giorno la legge (“Paying a Fair Share Act”) non è stata respinta, bensì è stato impedito il suo approdo in aula per la discussione. Secondo le norme del Senato, infatti, qualsiasi proposta, per poter essere presa in considerazione, deve preliminarmente superare un ostacolo procedurale (“filibuster”) che richiede almeno 60 voti su 100.

La “Buffett Rule” ne ha invece raccolti appena 51, mente 45 senatori hanno votato per bloccarla. Tutti i senatori democratici presenti, tranne uno (Mark Pryor dell’Arkansas), hanno votato a favore, così come tutti i repubblicani, tranne uno (la moderata Susan Collins del Maine), si sono opposti. Quattro sono stati gli astenuti.

Il nome della legge deriva da quello del finanziere miliardario Warren Buffett, il quale tempo fa aveva rivelato pubblicamente che il suo carico fiscale era inferiore a quello della sua segretaria. Perciò, la proposta avanzata da Obama prevedeva l’innalzamento dell’aliquota minima almeno al 30% per i redditi al di sopra del milione di dollari.

Nel fermare il provvedimento, i repubblicani hanno come di consueto fatto riferimento all’inopportunità di alzare le tasse per chiunque durante una crisi economica e tanto meno per i presunti “creatori di posti di lavoro”. Giovedì, inoltre, la Camera si esprimerà su una proposta relativa al fisco preparata dagli stessi repubblicani e che comprende, per il 2012, un taglio alle tasse del 20% per le aziende con meno di 500 dipendenti.

La misura presentata dal leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor, costerebbe alle casse federali ben 46 miliardi di dollari, mentre la “Buffett Rule” ne avrebbe fatti incassare 47 nei prossimi dieci anni. Anche la misura repubblicana non ha in ogni caso alcuna possibilità di essere approvata dal Senato.

Il voto negativo di lunedì sulla “Buffett Rule” era comunque scontato, a conferma del fatto che essa era unicamente una manovra elettorale per permettere ai democratici di presentarsi come difensori della classe media e di accusare i repubblicani di essere legati indissolubilmente ai grandi interessi economici e finanziari del paese.

La strategia per la rielezione di Obama è d’altra parte caratterizzata da una netta virata in senso populista della sua retorica. Una misura come quella appena bocciata, così, oltre a fare leva sulla popolarità nel paese di qualsiasi proposta che alzi le tasse per i più ricchi, appare come un’arma di propaganda contro il rivale per la Casa Bianca, Mitt Romney, il quale recentemente aveva rivelato di aver pagato nel 2010 poco meno del 14% di tasse sulle sue entrate milionarie.

Che la “Buffett Rule” non abbia nulla a che fare con un progetto di riforma del sistema fiscale americano che tenti di correggere anche in minima parte le enormi disuguaglianze sociali prodotte in questi ultimi tre decenni lo ha confermato lo stesso Obama nel corso di una conferenza stampa tenuta domenica sera a Cartagena, in Colombia, al termine del summit dell’Organizzazione degli Stati Americani.

Quando un reporter ha chiesto al presidente se la “Buffett Rule” fosse assimilabile alle politiche populiste dei governi latinoamericani di sinistra, Obama ha tenuto a precisare che questa legge “non ha nulla a che fare con la redistribuzione” della ricchezza.

La “Buffett Rule” conferma dunque come il Partito Democratico d’oltreoceano non sia interessato a ristabilire una tassazione progressiva negli Stati Uniti, dal momento che essa, anche se adottata, si limiterebbe ad equiparare l’aliquota minima riservata ai più ricchi con quella dei redditi più bassi, anziché far gravare sui primi un carico fiscale ben più alto rispetto ai secondi.

Per dare un’idea del colossale trasferimento di ricchezza promosso dalle classi dirigenti americane negli ultimi decenni, vale la pena ricordare che attualmente l’aliquota fiscale massima prevista negli USA è del 35%, anche se la maggior parte dei più ricchi e le grandi aziende pagano di fatto molto meno, mentre negli anni Cinquanta e Sessanta era al 91% e durante la presidenza Reagan ancora al 50%.

In ogni caso, la “Buffett Rule” rimarrà al centro del dibattito politico di Washington nei prossimi mesi e servirà solo a creare una cortina di fumo per far digerire i nuovi tagli alla spesa sociale che attendono le classi più disagiate dopo le elezioni di novembre, indipendentemente dal partito che se le aggiudicherà.

Gli stessi democratici non hanno infatti nessuna intenzione di far pagare la crisi e il risanamento del bilancio federale alle classi privilegiate, come aveva già confermato lo scorso febbraio un’altra proposta fiscale lanciata dal presidente Obama. Secondo quest’ultimo piano, l’aliquota per le corporation doveva scendere dal 35% al 28% e, per le grandi aziende manifatturiere, addirittura al 25%.

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