di Fabrizio Casari

La campagna elettorale negli Stati Uniti, come tradizione, cerca una nuova guerra con la quale far salire le quotazioni del Presidente in carica. Dopo Irak e Afghanistan, non si è ancora sopita l’eco delle bombe sulla Libia, che già si profila all’orizzonte una nuova guerra per una nuova presidenza. Stavolta l’obiettivo è l’Iran. Su Teheran, peraltro, oltre alle necessità propagandistiche della Casa Bianca, s’inserisce il bisogno di Israele di uscire dall’isolamento internazionale nel quale si trova: un attacco militare contro l’Iran sembra essere il modo migliore per rinsaldare l’unità d’intenti con l’Occidente e, nel contempo, lanciare un’ipoteca violenta e decisiva sul controllo militare del Medio Oriente e del Golfo Persico.

La pubblicazione del rapporto AIEA, infatti, vorrebbe legittimare gli Stati Uniti e Israele a sostenere come il tema della neutralizzazione degli impianti iraniani non sia solo questione suggerita dalle rispettive intelligence, ma abbia motivi oggettivi di riscontro nell’Ente internazionale deputato, cioè la stessa AIEA. Dunque le diplomazie internazionali (questa la convinzione israelo-americana) dovrebbero superare la precedente lettura diffidente nei confronti dei report della Cia e del Mossad proprio a partire dalla pubblicazione delle stesse informazioni rese però da una fonte “neutra” quanto deputata al controllo internazionale degli impianti.

Ora, sebbene da parte di numerosi esponenti della comunità scientifica vengano evidenziate alcune incongruenze presenti nel rapporto AIEA, e si consolidino ulteriormente i dubbi circa la correttezza e neutralità del suo Direttore Generale, il giapponese Amano, non c’è dubbio però che la sua pubblicazione è servita a chiamare alle armi la diplomazia internazionale.

La giostra è così partita: Obama ha annunciato che nelle prossime settimane si consulterà con Pechino e Mosca circa il da farsi. L’intenzione del Presidente Usa sarebbe quella d’inasprire ulteriormente le sanzioni contro Ahmadinejiad senza tuttavia escludere anche l’opzione militare. Ma da Mosca e Pechino non arrivano disponibilità in questo senso. Mosca, in particolare, crede che vi sia “una campagna orchestrata” contro il programma nucleare iraniano per “alimentare le tensioni e imporre nuove sanzioni”: la via però, a giudizio del Ministro degli Esteri, Lavrov, “è esaurita” e sarebbe invece giusto continuare e percorrere quella delle pressioni diplomatiche.

Quanto agli alleati europei degli Usa, se da Londra arriva la scontata adesione all’ipotesi dell’attacco, a Parigi e a Berlino l’accoglienza ai piani di guerra sembra piuttosto tiepida, per non dire nettamente contraria. Il Ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha respinto ogni discussione su possibili raid militari contro l’Iran: “Sanzioni più rigorose saranno inevitabili se Teheran rifiuterà di collaborare con l’AIEA, ma non partecipiamo alla discussione su un intervento militare che respingiamo in quanto controproducenti”. In sintonia con il collega tedesco c’é Alain Juppè, Ministro degli Esteri francese, che definisce anche solo l’ipotesi di un’azione militare “un rimedio peggiore del male”.

Il Consiglio affari esteri dell'Ue, condanna "la continua espansione del programma di arricchimento" dell'uranio ed esprime "particolare preoccupazione" per i contenuti del rapporto dell'Aiea, che confermano la natura militare del suo programma nucleare. Esprime le sue "crescenti preoccupazioni per il programma nucleare iraniano e per la mancanza di progressi negli sforzi diplomatici" e conferma di essere pronta a nuove sanzioni contro Teheran.

Il documento UE, come si vede, accenna solo ad eventuali, ulteriori sanzioni, ma non si pronuncia sull’eventualità di azioni militari, richieste da Londra ma rifiutate da Berlino e Parigi. Contro l’Iran sono già state adottate quattro serie di sanzioni in sede Onu, tutte di natura politica e finanziaria. Margini per ulteriori sanzioni, però, visto il “No” di Russia e Cina, non sembrano esserci. Bruxelles potrebbe quindi decidere di attivare provvedimenti contro le esportazioni di petrolio e contro la Banca Centrale iraniana, ma tali misure avrebbero comunque un effetto diretto sulla già disastrata economia europea.

Ma le pressioni israeliane su Washington sono fortissime. Tel Aviv appare ancora sotto shock a seguito delle rivolte arabe e, nell’incertezza del quadro geopolitico (cui ha contribuito non poco la rottura con la Turchia) tenta la carta del primo colpo per ristabilire distanze e timori contro le organizzazioni islamiche che, dall’Egitto alla Libia (e anche alla Siria) sembrano aver avuto il sopravvento su regimi che, pur nemici storici di Israele (Irak, Libia e Siria) erano comunque gestibili attraverso un assetto sperimentato e internazionalmente garantito.

Oggi, in un quadro complessivo mutato, con la rottura intervenuta nelle relazioni con Ankara e con una crisi di governance regionale evidente, Israele tenta di affondare il colpo contro l’unico nemico nell’area in grado di metterne in discussione il predominio e capace di esercitare una presa importante su tutto l’Islam dallo stretto dei Dardanelli fino a quello di Gibilterra.

Ritiene di doverlo fare e di doverlo fare in fretta, approfittando della congiuntura politica relativa alla campagna elettorale in Usa. I quali Usa, da parte loro, irritati con l’Europa e preoccupati degli sviluppi in Medio Oriente, nonché ansiosi di vedere il petrolio iraniano (dopo quello libico) alla mercè delle monarchie saudite e dei sultanati amici, approfitta della crisi con Teheran per ribadire alla comunità internazionale ed all’elettorato interno l’irrevocabilità dell’alleanza storica con Israele.

Per questo il Premio Nobel per la Pace Shimon Peres e il Premio Nobel per la Pace Barak Obama invocano sanzioni e guerra all’Iran. Proveranno in tutti i modi a mobilitare la comunità internazionale per sferrare un attacco militare che però, è chiaro, serve soprattutto a riparare Obama e Netanyahu dagli scontri politici interni.

 

 

di Mario Braconi

“A meno che i Palestinesi non abbiano un asso della manica che non hanno mostrato fino ad ora, ci aspettiamo che rinuncino alla corsa al riconoscimento dello stato di paese membro presso il Consiglio di sicurezza; con la certezza di avere nove voti a favore, si affronta la votazione, altrimenti si lascia perdere”. Così si è espresso un diplomatico presso le Nazioni Unite, sentito nella notte (pomeriggio negli Stati Uniti) dal Wall Street Journal. Benché il verdetto finale del Comitato di Ammissione (MAC) sia atteso per domani, un documento “riservato” delle Nazioni Unite fatto filtrare alla stampa sembra confermare che non vi sia alcuna speranza di raggiungere al Consiglio di Sicurezza i voti necessari.

Gli Stati Uniti, che hanno fieramente e apertamente osteggiato l’iniziativa palestinese fin dall’inizio, possono cantare vittoria. Il loro obiettivo immediato era infatti impedire alla ANP di andare al voto al Consiglio di Sicurezza: se infatti Abbas fosse riuscito a coagulare attorno al suo progetto almeno nove voti del Consiglio di Sicurezza, gli USA avrebbero dovuto abbandonare le pressioni diplomatiche sui membri dei suoi stati membri per passare alle maniere forti. Ovvero al veto, cui si sono detti pronti in svariate occasioni ufficiali.

Senza il nono voto al Consiglio di Sicurezza, i palestinesi rinunceranno in partenza ad esporsi ad un fallimento clamoroso, mentre gli americani avranno sventato l’ennesimo tentativo di operazione politica non conforme ai propri diktat: il tutto senza “sporcarsi le mani” con un’iniziativa come il veto, particolarmente onerosa politicamente specie in tempi di (sfiorite) primavere arabe.

Il lavorio americano ai fianchi degli altri Paesi ha prima dissuaso la Colombia e poi, evidentemente, anche la Bosnia: i Palestinesi infatti non sono riusciti ad “convincere” il nono Paese dopo aver portato dalla propria parte, già diverse settimane fa, Russia, Cina, India, Sud Africa, Brasile, Libano, e perfino i tentennanti Nigeria e Gabon. Non stupisce che l’atteggiamento americano nei confronti della questione sia smaccatamente pro-Israele, vale però la pena rilevare l’ignavia delle diplomazie europee.

La Germania condivide pienamente le posizioni degli Stati Uniti ed è quindi apertamente contraria all’iniziativa palestinese: nel suo discorso del 26 settembre alle Nazioni Unite, l’ambasciatore tedesco presso le NU ha detto: “Non voglio che vi sia alcun dubbio: la sicurezza di Israele è interesse nazionale per la Germania. Non vi sarà pace senza sicurezza in Israele. Colloqui di pace tra israeliani e palestinesi sono possibili. E’ possibile la prospettiva di due nazioni che vivano fianco a fianco in pace. Ma ci possiamo arrivare solo attraverso i negoziati”. Sembrano le parole dell’ambasciatore americano…

Nella serata dello scorso giovedì anche Gran Bretagna e Francia, due dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, hanno fatto sapere che si asterranno. I diplomatici francesi, che pure hanno votato a favore dell’ammissione della Palestina all’UNESCO e che comunque stanno lavorando con i palestinesi a una “fase due” del progetto (il passaggio all’Assemblea Generale), hanno dichiarato di essere di fatto costretti a questa mossa dalla promessa americana di esercitare il veto in caso di votazione.

Questa la dichiarazione di Romain Nadal, portavoce del Ministro degli Esteri francese: “E’ indiscutibile la legittimità del desiderio dei palestinesi di avere uno stato. Ma la richiesta palestinese non ha nessuna speranza di arrivare ad alcunché al Consiglio di Sicurezza, soprattutto per l’opposizione ufficiale americana”. Tale giustificazione dimostra che sostegno della causa palestinese da parte dei francesi è tiepido e che non potrà mai spingersi fino ad un “confronto finale” con gli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza.

Più contorto il ragionamento politico dei britannici: il Ministro degli esteri britannico William Hague, nel suo discorso al Parlamento di ieri ha dichiarato: “Non voteremo contro la richiesta palestinese perché riconosciamo i progressi fatti dalla leadership palestinese per ottenere l’idoneità ai requisiti richiesti. D’altra parte, non possiamo votare a favore, dal momento che il nostro obiettivo principale resta quello di ritornare ai negoziati condotti dal Quartetto e di fare in modo che essi abbiano successo. […] Anche se i criteri sono soddisfatti lo Stato palestinese non sarebbe in grado di funzionare come un vero stato.”

Dunque la partita sarebbe chiusa prima ancora di iniziare? Non sembra proprio, visto che il Ministro degli Esteri Palestinese, Riad Malki, nel riconoscere il fallimento della prima iniziativa si dimostra pugnace e per niente rassegnato: “Sapevamo che andare al Consiglio di Sicurezza non sarebbe stato un picnic”, ha dichiarato ad Associated Press. “Ma la cosa più importante è chi vincerà il round finale. Ci saranno altri match e noi non disperiamo”. E infatti, i diplomatici palestinesi stanno scaldando i motori per una seconda iniziativa, la votazione davanti all’Assemblea Generale per ottenere una promozione dello status da “osservatore permanente” ad “osservatore permanente non membro”.

La Palestina, infatti, è attualmente uno "non-state observer", che è cosa diversa dagli Stati "non-membri" dell'ONU e dispone di un ufficio permanente nel Palazzo di Vetro, come la Santa Sede. La mossa tattica è dunque questa: "accontentarsi" di una Risoluzione che gli garantisca il pieno riconoscimento di "osservatori" nella Assemblea. In quel contesto non è previsto il veto e l’ANP ha praticamente una vittoria in mano, considerando che sono ben 120 i paesi che hanno riconosciuto la Palestina in base ad accordi bilaterali.

Cambierebbe dunque lo status da "missione di osservatore permanente" a "Stato osservatore permanente non membro". Israele é furibonda con Sarkozy e si capisce. Se la mediazione francese andasse in porto, per i palestinesi significherebbe passare da “entità” a “Stato non membro”; in questo modo farebbero un passo avanti verso la nascita del loro Stato aggirando il veto americano, e potrebbero - appunto in questa veste - chiedere alla Corte Penale Internazionale di aprire inchieste formali sui crimini di guerra israeliani, in passato sempre negate. Un primo colpo di piccone per abbattere il muro.

di Michele Paris

Nella serata di mercoledì, in Michigan, è andato in onda il nono dibattito dell’anno tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti per il Partito Repubblicano. Ad animare una discussione diversamente fiacca è stata l’ennesima gaffe di uno dei principali contendenti per la nomination - il governatore del Texas, Rick Perry - il quale, nella smania di ridurre all’osso le prerogative del governo centrale, ha dimenticato il nome di un’agenzia federale che intenderebbe abolire in caso di elezione alla Casa Bianca.

Il confronto si è tenuto presso la Oakland University di Rochester, a nord di Detroit, ed è stato trasmesso in diretta TV dalla rete CNBC. A dibattito inoltrato, mentre stava rispondendo ad una domanda, Rick Perry ha iniziato a parlare di tre dipartimenti del governo che sarebbe sua intenzione sopprimere poiché, a suo dire, i rispettivi campi d’azione non dovrebbero rientrare nelle prerogative federali. Dopo aver citato i primi due - Educazione e Commercio - Perry ha però indugiato sul nome del terzo.

Dopo una lunga pausa e una ricerca disperata tra i suoi appunti, un moderatore gli ha chiesto se era in grado di dire il nome della terza agenzia da tagliare. Trascorsi 53 secondi, Perry ha alla fine ammesso di non ricordarne il nome, chiudendo il suo intervento con un imbarazzante “Sorry. Oops”. Alcuni minuti più tardi, nel corso di una nuova tornata di domande, Perry è finalmente riuscito a rintracciare il nome del dipartimento mancante, quello dell’Energia.

Il lapsus apparentemente irrilevante di Rick Perry rischia in realtà di avere conseguenze molto gravi sul proseguimento della sua campagna elettorale. Il governatore del Texas aveva infatti già commesso una serie di gaffes nei precedenti dibattiti e aveva perciò bisogno di una prestazione convincente per fermare l’emorragia di consensi tra gli elettori repubblicani che avevano invece mostrato un grande entusiasmo nei suoi confronti immediatamente dopo l’annuncio ufficiale della sua candidatura lo scorso mese di agosto.

Per la maggior parte della stampa americana, in ogni caso, la figuraccia di mercoledì dovrebbe segnare la fine delle chances di Rick Perry di centrare la nomination repubblicana il prossimo anno. Gli effetti di questo passo falso in diretta nazionale si potranno vedere soprattutto dal comportamento dei suoi finanziatori nelle prossime settimane, in vista dei primi appuntamenti elettorali nei caucuses dell’Iowa e nelle primarie del New Hampshire - previsti per i primi giorni di gennaio - dove Perry ha investito in maniera massiccia.

La discesa in campo di Rick Perry aveva rinvigorito in particolare l’ala conservatrice del suo partito, tanto da consentirgli di presentarsi come il rivale più accreditato del favorito d’obbligo, il miliardario mormone ed ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney. Il successivo crollo nei sondaggi di Perry aveva poi dato un impulso insperato a Herman Cain, imprenditore di colore e autentico outsider nella corsa alla Casa Bianca, a sua volta però in difficoltà dopo il recente coinvolgimento in uno scandalo sessuale.

A meno di due mesi dall’inaugurazione della stagione delle primarie, Mitt Romney sembra avere quindi la strada spianata verso la nomination, anche se molti dubbi e diffidenze circondano tuttora la sua candidatura. Gli stenti di Perry e Cain, inoltre, stanno già dando vita ad una sfida nella sfida, con i rimanenti candidati che faranno di tutto per presentarsi come la principale alternativa a Romney. Gli altri contendenti in casa repubblicana sono l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, il deputato libertario del Texas Ron Paul, l’ex governatore dello Utah John Huntsman e la deputata del Minnesota Michele Bachmann.

Tornando alla serata di mercoledì, a parte la disavventura di Rick Perry, il dibattito è stato contraddistinto da scambi di battute relativamente cordiali tra i candidati presenti, a differenza dei toni accesi degli appuntamenti precedenti. Alla vigilia, la discussione era attesa soprattutto per testare gli effetti del già citato scandalo sessuale sulla campagna di Herman Cain. In seguito alle rivelazioni della testata on-line Politico.com, quest’ultimo è stato infatti accusato pubblicamente di molestie sessuali da almeno due donne che lo avevano conosciuto sul finire degli anni Novanta quando era alla guida dell’Associazione dei Ristoratori.

Nel corso del dibattito la questione che rischia di affondare anche la campagna di Cain è emersa invece in una sola occasione e, quanto meno, sulle prime pagine dei giornali americani il giorno dopo ha lasciato spazio alla gaffe di Rick Perry.

Nel corso della discussione tra i candidati repubblicani, infine, a prevalere sono stati i temi economici. Nessuno dei presenti si è ovviamente scostato dalle consuete ricette ultraliberiste propagandate dal partito. Allo stesso modo, nessuno ha fatto cenno ai manifestanti che stanno scendendo nelle strade in ogni angolo del paese per protestare contro le ineguaglianze create da queste stesse politiche, né si è sentita alcuna seria analisi della sonora bocciatura di molte proposte repubblicane da parte degli elettori nell’election day di martedì scorso.

di Michele Paris

Martedì negli Stati Uniti si è tenuto l’ultimo election day prima del voto per le presidenziali del 2012. I (pochi) elettori americani presentatisi alle urne sono stati chiamati a scegliere sindaci, governatori, membri di assemblee locali e ad esprimersi su una serie di quesiti referendari. A meno di due mesi dall’inizio delle primarie per la Casa Bianca, il voto di martedì era visto da molti come un importante test sullo stato di salute dei due principali partiti e sugli umori dell’opinione pubblica in un periodo di grave crisi economica e sociale.

Tra gli appuntamenti più seguiti c’era un referendum indetto nello stato dell’Ohio, dove si decideva la sorte della legge n. 5 del Senato, firmata dal governatore repubblicano John Kasich lo scorso mese di marzo tra le proteste di migliaia di persone. Il discusso provvedimento prevedeva la drastica restrizione dei diritti sindacali dei lavoratori del settore pubblico. Oltre a limitare seriamente la possibilità di scioperare e di contrattare su alcune questioni contrattuali, la legge n. 5 chiedeva agli stessi dipendenti pubblici, assieme ad altri sacrifici, di pagare una quota maggiore rispetto a quella attuale per il finanziamento dei loro piani sanitari e pensionistici.

La legge - simile ad altre approvate in stati come Wisconsin e Indiana - è stata bocciata dagli elettori dell’Ohio con una maggioranza schiacciante (62 per cento). Il risultato ha inflitto una sonora sconfitta ai repubblicani e alla loro crociata per cancellare i diritti residui dei lavoratori come rimedio alle ristrettezze di bilancio causate dalla crisi del debito.

Questo referendum era stato promosso in particolare dai sindacati e dal Partito Democratico, nonostante a Washington e in altri stati dove questi ultimi governano siano state adottate senza troppi scrupoli iniziative simili che tendono a peggiorare gli standard di vita di lavoratori e pensionati.

L’Ohio rappresenta in ogni caso un barometro importante in vista delle presidenziali del prossimo anno, in quanto è uno stato perennemente in bilico tra i due partiti (“swing state”) e premia quasi sempre il candidato destinato ad entrare alla Casa Bianca. Secondo alcuni, la bocciatura della legge repubblicana sarebbe un segno positivo per i democratici, dal momento che la struttura organizzativa che lavora per la rielezione di Obama ha avuto un ruolo di spicco nella campagna elettorale per il referendum.

In realtà, l’avversione generalizzata nei confronti della legge anti-sindacale non dovrebbe tradursi necessariamente in un sostegno per il partito del presidente, come dimostra il fatto che sempre martedì, in un altro quesito referendario poco più che simbolico, gli elettori hanno approvato l’esenzione per gli abitanti dell’Ohio dall’obbligo di stipulare un’assicurazione sanitaria, come previsto dalla riforma di Obama approvata dal Congresso nel marzo 2010.

Un altro voto dalle vaste implicazioni era quello del Mississippi, dove era sottoposta a referendum una proposta per modificare la costituzione dello stato inserendo una clausola che di fatto avrebbe messo fuori legge l’interruzione di gravidanza. A sorpresa, gli elettori di uno degli stati più conservatori degli Stati Uniti si sono espressi contro un emendamento che intendeva dare lo status legale di “persona” all’embrione fin dal momento del concepimento, rendendo illegale l’aborto - anche in caso di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre - così come la fertilizzazione in vitro, la pillola del giorno dopo e alcune forme di contraccezione.

I sostenitori della modifica alla costituzione del Mississippi in senso anti-abortista - già allo studio anche in altri stati - speravano che una vittoria martedì avrebbe rappresentato un trampolino di lancio per ottenere finalmente dalla Corte Suprema degli Stati Uniti la revisione della sentenza del 1973 (“Roe contro Wade”) che ha fissato il diritto all’aborto a livello federale.

In molte città importanti si è votato poi per la scelta del sindaco. Smentendo la tendenza degli ultimi tempi a punire i politici in carica, numerosi primi cittadini uscenti sono stati riconfermati, come i democratici Michael Nutter e Stephanie Rawlings-Blake - rispettivamente a Philadelphia e a Baltimora - o il repubblicano Greg Ballard a Indianapolis. Successi democratici sono stati registrati anche a Phoenix, in Arizona, e a San Francisco, dove Edwin Lee - già sindaco ad interim, subentrato l’anno scorso a Gavin Newsom, a sua volta eletto vice-governatore della California - è diventato il primo sindaco di origine cinese scelto dagli elettori per guidare una metropoli americana.

Due erano invece le competizioni per scegliere altrettanti governatori, carica particolarmente importante in vista del 2012 poiché in grado di influire sull’efficacia delle campagne elettorali per le presidenziali. In Kentucky, malgrado le difficoltà che sta attraversando lo stato, è stato rieletto il democratico Steve Beshear, mentre in Mississippi il repubblicano Phil Bryant succede al governatore uscente Haley Barbour, anch’egli repubblicano e giunto alla fine del secondo e ultimo mandato consentito dalla legge.

Delicata era anche la tornata elettorale per il parlamento locale della Virginia, stato a tendenza repubblicana dove Obama aveva trionfato nel 2008. Qui l’anno scorso i repubblicani avevano conquistato la poltrona di governatore e speravano quest’anno di estendere al Senato statale la maggioranza che già detengono alla camera bassa. Lo sfondamento repubblicano non è però avvenuto. I risultati parziali indicano una situazione di stallo al Senato (20 seggi per ciascun partito), dove l’esito finale sarà deciso da una manciata di voti in un singolo distretto elettorale tuttora in bilico.

Tra i molti altri appuntamenti elettorali dell’election day 2011 vanno ricordati almeno quelli di Arizona, Iowa e New Jersey. Un’elezione speciale in Arizona ha rimosso dall’incarico il senatore statale repubblicano ed ex vice-sceriffo vicino ai Tea Party, Russell Pearce, principale artefice della durissima legge anti-immigrazione approvata l’anno scorso da questo stato degli Stati Uniti occidentali.

In Iowa, i repubblicani non sono riusciti a conquistare la maggioranza nel Senato locale per il quale era in palio un seggio. Il voto era fondamentale per far avanzare una proposta repubblicana sul bando dei matrimoni gay, resi legali in Iowa da una sentenza della Corte Suprema dello stato nell’aprile 2009. Nel New Jersey, infine, i due rami del parlamento statale sono rimasti in mano democratica, rendendo così vani gli sforzi del governatore Chris Christie, astro nascente del Partito Repubblicano, per ottenere un mandato ancora più forte per implementare tagli alla spesa e misure anti-sindacali.

La diversità geografiche e delle questioni su cui gli elettori si sono espressi rendono pressoché impossibile trarre una valutazione univoca dell’esito del voto di martedì negli USA. Analizzando alcune delle elezioni più importanti è forse possibile ipotizzare che gli americani recatisi alle urne, pur non esprimendo un chiaro sostegno alle ricette democratiche, hanno respinto alcune delle soluzioni più reazionarie alla crisi, come quelle propagandate dai repubblicani e dalle frange estreme rappresentate da organizzazioni come i Tea Party. A un anno dal voto per la Casa Bianca e con la situazione economica in peggioramento, è comunque difficile intravedere una qualche anticipazione di quello che sarà il comportamento degli elettori nel 2012.

Come al solito negli Stati Uniti, a dominare è stata più che altro la scarsissima affluenza, in molti casi ben lontana anche dal 30 per cento degli elettori registrati. Questo dato, accentuato dalla mancanza di un voto di rilevanza nazionale, testimonia così ancora una volta la sfiducia complessiva in un sistema politico che non rappresenta in nessun modo la grande maggioranza dei cittadini americani.

di Mario Braconi 

Il report della AIEA, attraverso le generose e non casuali anticipazioni, sembrerebbe confermare l’ennesimo fallimento delle intelligence USA. A differenza di quanto da esse sostenuto nel 2007, ovvero che dopo l’inizio della guerra in Iraq la Repubblica Islamica avrebbe cessato di lavorare ad un programma nucleare militare, quest’ultimo è proseguito regolarmente, anche se in modo non ufficiale.

Il rapporto riferirebbe che “diverse persone ed entità collegate con l’esercito (iraniano) si stanno procurando attrezzature nucleari destinabili ad uso tanto militare che civile”. Il regime iraniano tenterebbe di sviluppare metodologie non dichiarate per la produzione di materiale nucleare” e di acquisire informazioni e documentazioni per lo sviluppo di armi nuclerari attingendo ad un network clandestino”. L’Iran, infine, starebbe lavorando al progetto di un dispositivo interamente costruito “in casa”, effettuando anche test sui componenti”.

La “mente” dietro al rapporto è il diplomatico giapponese Yukiya Amano, che può contare su un curriculum significativo in tema di non proliferazione nucleare, ma la cui indipendenza è seriamente discutibile dopo la pubblicazione di un cable Wikileaks datato 16 ottobre 2009, ovvero qualche mese dopo la sua elezione al ruolo di Direttore generale della AIEA. Il documento “top secret” riferisce di un incontro che Amano ha avuto con l’ambasciatore americano, nel corso del quale ha ricordato più volte che, al di là delle necessarie concessioni ai paesi del G77, che gli richiedono di comportarsi in modo equo ed indipendente, Amano “si posiziona in modo inequivocabile dalla parte degli americani su tutte le questioni strategiche, a partire dalla nomina di funzionari di alto livello fino alla gestione del presunto programma nucleare militare iraniano”. Del resto, gli Stati Uniti e Israele si sono molto impegnati per ottenere la nomina di Amano a capo dell’Agenzia, facendo in modo che la soffiasse per un pelo al sudafricano Abdul Minty.

Come spiegano alcuni esperti di Medio Oriente, sentiti ieri dal sito israeliano YNews, il rapporto in realtà non contiene nulla di nuovo rispetto a quanto già noto alle intelligence occidentali. Spiega infatti il professor Motti Kendar, della Bar Ilan University: “I dati pubblicati nel report sono noti ai servizi da lungo tempo: la vera novità qui è che, per la prima volta, un ente specializzato indipendente vi appone sopra il suo sigillo”. Dell’indipendenza della AIEA sotto l’attuale leadership di Amano si è già detto sopra. Quanto alle informazioni rese note attraverso i leakage, specialmente quelli fatti trapelare al Washington Post, si tratta principalmente di una presentazione in PowerPoint di un ex ispettore dell’agenzia nucleare ONU, David Albright.

Da questo documento è possibile concludere che la Repubblica Islamica avrebbe superato una serie di importanti problematiche tecniche, che la avvicinerebbero alla conquista di una potenzialità offensiva nucleare (in inglese, “nuclear capability”). Il tutto anche grazie all’aiuto interessato di alcuni amici perfettamente compatibili con lo stereotipo del “cattivo” tipico di un film di James Bond: il fisico freelance russo Vyacheslav Danilenko, lo scienziato pachistano Abdul Qadeer Khan, e perfino qualche non meglio identificato personaggio proveniente da quella super-potenza di cartapesta che si chiama Corea del Nord. La Spectre, insomma.

Secondo Flynt Leverett, professore di Relazioni Internazionali alla Pennsylvania University, nonché capo dell’Iran Project della New America Foundation, la gran parte delle informazioni erano disponibili da anni all’AIEA: solo che il precedente capo, il compianto El Baradei, si sarebbe sempre rifiutato di renderle note, dal momento che non si sentiva in grado di sostenerle, né si sentiva sicuro della loro qualità e provenienza. Leverett, sul suo sito “Race for Iran”, fa notare che il Trattato di Non Proliferazione (TNP) impedisce il trasferimento, diretto o indiretto di qualsiasi arma nucleare o dispositivo bellico nucleare. Gli Stati firmatari s’impegnano a non fabbricare e/o acquisire in qualsiasi altro modo armi nucleari, e a non cercare aiuto esterno per la costruzione di dispositivi nucleari.

Ma il TNP parla chiaramente di “fabbricazione” e di “acquisizione” e, secondo Leverett, esso non vieterebbe lo studio di progetti di armi nucleari, la ricerca sugli inneschi, e nemmeno gli esperimenti su esplosivi ad alto potenziale che potrebbero essere teoricamente usati su una bomba atomica. El Baradei lo avrebbe spiegato a più riprese.

In una intervista del 2010 a Race for Iran, il sito animato da Leverett e dalla moglie, El Baradei inoltre avrebbe spiegato che “realizzare un potenziale offensivo nucleare è kosher secondo il TNP”. Altra cosa, ovviamente, sarebbe ottenere le prove di una effettiva costruzione di armi, cosa che sembrerebbe esclusa anche dalla semplice circostanza che la Repubblica Islamica non disporrebbe al momento di del materiale fissile per realizzare la Bomba.

Come spiega in modo vivace Simon Tindall sul Guardian di ieri, nonostante la scarsezza di informazioni in grado di rivoluzionare gli scenari internazionali, il rapporto della AIEA sta mettendo in fibrillazione i governi di tutto il mondo. A cominciare da quelli di Israele e dell’Arabia Saudita, i quali, per una volta uniti dalla comune avversione all’Iran, gettano benzina sul fuoco.

In modo netto, come accade in Israele, con il governo che cerca di farsi autorizzare un “attacco preventivo” sulle installazioni nucleari iraniane, o in modo più mediato, ma non meno violento, come in Arabia Saudita, dove va forte la tesi che vede l’Iran come causa di ogni male: finanziatore (sciita) di Hamas, di Hezbollah, della famiglia alawita al comando in Siria. Si può porre rimedio solo “mozzando la testa del serpente”: un modo come un altro per acquisire l’egemonia su tutta la regione.

Dalla Germania e dalla Russia giungono caveat preoccupati, mentre Tindall rispolvera un report del US Army War College del 2006, secondo cui occorrerebbero ben 1.000 attacchi preventivi in Iran per avere ragionevole certezza di sradicare “il serpente” virtuale che - forse - si aggira nel suo sottosuolo: cosa che potrebbe risultare nell’uso di… armi nucleari tattiche, certamente benefiche in quanto made in USA. Quando si dice che il veleno si cura con il veleno!

In questo contesto incandescente allarmano non poco le parole di due esperti americani, Jeffrey Goldberg e David Rothkopf, citati da Tindall, i quali non escludono che Obama possa essere risucchiato in questo isterico vortice bellico. Cosa che, oltre a mettere a rischio il futuro del mondo, finirebbe per mandare in fumo quel poco del sogno di cambiamento che il presidente Obama avrebbe voluto incarnare.


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