- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le conseguenze del massacro commesso domenica scorsa da un sergente americano nel sud dell’Afghanistan continuano a farsi sentire, mettendo a repentaglio la strategia dell’amministrazione Obama per il ritiro delle truppe di occupazione nel paese e stabilire una qualche presenza militare di lungo termine. Nella giornata di giovedì, infatti, il presidente afgano, Hamid Karzai, ha chiesto ufficialmente agli Stati Uniti di confinare i soldati della NATO all’interno delle proprie basi entro il prossimo anno. Contemporaneamente, i Talebani hanno emesso un comunicato nel quale annunciano la sospensione degli stentati negoziati di pace con Washington che sembravano aver mosso i primi passi proprio in queste settimane.
La richiesta di Karzai è stata espressa nel corso di un incontro con il segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, ed è significativamente giunta il giorno successivo la dichiarazione congiunta di Obama e Cameron a Washington, nella quale i due leader avevano confermato l’intenzione dei rispettivi governi di rispettare la scadenza fissata entro la fine del 2014 per il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Per Karzai, la fine delle operazioni di combattimento con protagoniste le forze di occupazione NATO servirebbe a porre un freno all’escalation di vittime civili seguita al potenziamento del contingente militare statunitense in Afghanistan deciso dal presidente Obama nel dicembre 2009. “Le forze internazionali”, ha affermato Karzai, “devono ritirarsi dai villaggi e spostarsi nelle loro basi”. Il presidente afgano ha poi aggiunto che “entrambe le parti devono lavorare ad un piano per completare il processo di trasferimento dei compiti legati alla sicurezza entro il 2013 invece del 2014”.
La mossa di Karzai, che di fatto bloccherebbe la campagna militare NATO proprio in vista di una nuova offensiva nelle aree di confine con il Pakistan, è legata indubbiamente alla rabbia diffusa tra la popolazione afgana dopo la strage di domenica che è costata la vita a 16 civili, buona parte dei quali bambini. Se le proteste in questa occasione non hanno eguagliato quelle esplose in seguito al rogo del Corano qualche settimana fa, in questi giorni ci sono state comunque varie manifestazioni, in particolare nella provincia di Kandahar, dove si sono svolti i fatti di sangue.
Il militare americano responsabile del massacro, nel frattempo, è già stato trasferito in Kuwait, da dove finirà sotto custodia negli Stati Uniti per affrontare un processo davanti alla corte marziale. Secondo gli accordi tra Washington e Kabul, i militari americani impiegati in Afghanistan godono della stessa immunità garantita ai diplomatici dalla Convenzione di Vienna.
L’allontanamento del sergente dal paese ha però suscitato l’ira della popolazione e, di conseguenza, di molti politici locali. Questi ultimi, giovedì, avrebbero perciò chiesto a Karzai di vincolare la firma del trattato di partnership strategica con gli USA alla possibilità di processare il militare statunitense in Afghanistan.
I negoziati per giungere ad una presenza stabile di militari americani, sotto forma di “consiglieri” o “addestratori”, è resa già complicata anche da altre questioni delicate, a cominciare dai raid notturni delle forze speciali a caccia di terroristi. Questi blitz hanno causato numerose vittime civili e sono estremamente impopolari tra la popolazione afgana. Karzai da tempo ne chiede lo stop, ma per gli USA rimangono un’arma fondamentale per mettere le mani su presunti militanti.
Secondo alcuni ufficiali della NATO, in realtà, la richiesta di Karzai di giovedì non si differenzierebbe di molto dal piano di disimpegno approvato da un vertice dell’alleanza a Lisbona nel 2010. Esso prevederebbe infatti un graduale trasferimento delle responsabilità legate alla sicurezza ai militari afgani dalle forze di occupazione a partire dal 2013, anche se queste ultime manterrebbero compiti di combattimento fino al 2014. Il capo di gabinetto di Karzai, tuttavia, ha sottolineato che la richiesta del presidente, sia pure da sottoporre all’esame degli Stati Uniti, intende anticipare di un anno questo processo di transizione.
Il livello di professionalità raggiunto dalle forze armate indigene, a detta dei vertici NATO, non sembra però essere ancora tale da garantire il controllo del territorio in maniera autonoma. Secondo uno studio condotto dalla stessa NATO nel 2011, ad esempio, solo uno dei 158 battaglioni dell’esercito afgano sarebbe in grado di sostenere combattimenti senza il supporto americano.
La sicurezza generale nel paese centro-asiatico rimane inoltre a dir poco precaria, come conferma l’episodio che giovedì ha funestato la visita di Panetta, giunto in Afghanistan per scusarsi di persona con il presidente Karzai per il massacro di domenica scorsa. Un interprete afgano impiegato dalla NATO ha sottratto un automezzo ad un militare suo connazionale, lanciandosi contro un gruppo di Marines che stava aspettando l’arrivo del numero uno del Pentagono presso l’aeroporto di Helmand. L’attentatore si è alla fine schiantato a poca distanza dall’aereo di Panetta in fase di atterraggio ed è morto in seguito all’esplosione del mezzo rubato.
Nonostante la richiesta fatta giovedì, il presidente Karzai teme che un eventuale ritiro affrettato delle forze NATO, da cui il suo governo dipende totalmente, possa segnare la fine del suo regime. Allo stesso tempo, però, l’odio sempre più diffuso nei confronti di un’occupazione ormai decennale rischia di alimentare ulteriormente le simpatie per la resistenza talebana, trasformandosi in una minaccia ancora più pericolosa per la sua permanenza al potere. Da qui, dunque, l’atteggiamento sempre più ostile tenuto pubblicamente nei confronti degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’amministrazione Obama, la strategia afgana ora sempre più a rischio ha preso le mosse dall’aumento due anni fa delle truppe USA sul campo fino a 100 mila uomini. Essa prevede l’indebolimento della resistenza all’occupazione, così da aprire negoziati con i Talebani da una posizione di superiorità e, parallelamente, stipulare un accordo con Kabul per mantenere un contingente militare nel paese a lungo termine. Raggiunti questi obiettivi, la Casa Bianca potrebbe portare a termine il ritiro della maggior parte dei militari impiegati in Afghanistan.
A scompaginare i piani statunitensi, come già ricordato, è stato l’altro giorno anche l’annuncio pubblicato su un sito web vicino ai Talebani del congelamento dei negoziati di pace con Washington. I colloqui, secondo il comunicato, erano in fase iniziale e stavano ruotando attorno alla possibile liberazione di alcuni prigionieri talebani detenuti a Guantanamo, quando gli americani hanno cercato di imporre nuove condizioni per la prosecuzione delle trattative.
I membri dell’ex regime islamista afgano avevano recentemente ottenuto anche il via libera per l’apertura di un proprio ufficio di rappresentanza a Doha, in Qatar. Un segnale di distensione che sembra essere svanito in seguito agli episodi di sangue delle ultime settimane. La strage di domenica e le sue conseguenze, infine, potrebbero aver convinto i vertici talebani che in Afghanistan continui ad esserci terreno fertile per reclutare forze nuove e proseguire la resistenza armata contro gli occupanti occidentali senza scendere a compromessi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
In una visita di tre giorni a Washington, il primo ministro britannico, David Cameron, è stato accolto dal presidente Obama con tutti gli onori dovuti ad un capo di governo di un paese con cui gli Stati Uniti continuano ad avere un “legame speciale”. L’estrema cordialità del vertice ha contribuito a mettere in evidenza la pressoché totale affinità di vedute dei due leader, in particolare sulle questioni legate alla difesa degli interessi anglo-americani nel mondo.
Il rapporto di stima e simpatia reciproca tra Obama e Cameron è apparso tanto più evidente quanto ha contrastato con il clima gelido che aveva caratterizzato il summit della scorsa settimana con il premier israeliano Netanyahu. Il presidente americano ha anche organizzato per il proprio ospite una cena di stato alla Casa Bianca, solitamente riservata, appunto, ai capi di stato in visita a Washington, mentre a sottolineare l’atmosfera amichevoli tra i due leader, martedì sera hanno assistito entrambi ad un incontro di basket NCAA a Dayton, nell’Ohio.
Barack Obama e David Cameron hanno così confermato il fronte unitario costituito da USA e Gran Bretagna per fronteggiare, secondo le parole dei principali media, “le sfide della sicurezza globale” o, in altre parole, gli ostacoli all’allargamento dell’influenza di Washington e Londra sulle aree strategiche del pianeta. La sintonia tra i due paesi si basa in effetti sulla sostanziale convergenza dei rispettivi interessi imperialistici e va ben al di là del diverso orientamento politico che, in teoria, dovrebbe contraddistinguere le due amministrazioni. A conferma di ciò, il rapporto privilegiato tra Stati Uniti e Gran Bretagna è rimasto inalterato, ad esempio, sia con il repubblicano George W. Bush alla Casa Bianca e il laburista Tony Blair a Downing Street che, ora, con il democratico Obama e il conservatore Cameron.
Alla luce della recente strage compiuta domenica scorsa nei pressi di Kandahar da un sergente americano, la questione più calda del vertice era quella dell’Afghanistan, alla cui occupazione Stati Uniti e Gran Bretagna contribuiscono con il contingente militare di gran lunga più numeroso. Nonostante i recenti fatti di sangue, la crescente ostilità della popolazione afgana nei confronti dell’occupazione e l’impopolarità del conflitto tra gli elettori americani e inglesi, nel corso di una conferenza stampa congiunta, mercoledì Obama e Cameron hanno ribadito l’intenzione di non deviare dal piano ufficiale che prevede il ritiro delle truppe dal paese centro-asiatico entro la fine del 2014.
Citando i presunti progressi fatti dai soldati britannici nel sud dell’Afghanistan, Cameron ha concordato con Obama nel sostenere che, a fronte di un’esplosione dell’odio verso gli occupanti negli ultimi tempi, la situazione nel paese è migliorata e consentirà alle forze NATO di trasferire la responsabilità della sicurezza alla polizia e all’esercito locali secondo i tempi previsti.
Nelle due ore di faccia a faccia nello Studio Ovale, Obama e Cameron hanno anche parlato della questione del nucleare iraniano. Entrambi hanno ripetuto il parere espresso dal presidente americano a Netanyahu settimana scorsa. Le sanzioni contro Teheran devono cioè fare il loro corso, anche se l‘opzione dell’aggressione militare rimane sul tavolo. Cameron, da parte sua, ha anch’egli espresso i propri dubbi circa un possibile attacco unilaterale di Israele contro le installazioni nucleari iraniane, dal momento che esisterebbe ancora spazio per una soluzione diplomatica alla crisi.
Queste parole nascondono in realtà i metodi ricattatori dell’Occidente, da dove vengono imposte condizioni inaccettabili all’Iran solo per aprire un qualche dialogo, come lo stop totale al programma di arricchimento dell’uranio a cui Teheran, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione, ha diritto, se destinato ad uso civile. Simili richieste, peraltro, intendono precisamente provocare il rifiuto del governo iraniano, così da giustificare nuove sanzioni e, in ultima istanza, un attacco militare.
L’atteggiamento di Obama è apparso in ogni caso più minaccioso in occasione del vertice con Cameron, soprattutto quando, in riferimento alla imminente riapertura dei negoziati sul nucleare, l’inquilino della Casa Bianca ha affermato che per l’Iran “la finestra per risolvere la questione diplomaticamente si sta restringendo”.
I toni da ultimatum sono consueti nelle trattative con l’Iran e un vero e proprio ultimatum è quello che, secondo quanto riportato mercoledì dalla stampa russa, Obama avrebbe chiesto a Mosca di trasmettere a Teheran. L’incontro previsto ad aprile a Istanbul per riaprire le trattative sul nucleare sarà cioè l’ultima possibilità per l’Iran per evitare la guerra.
Obama ha poi accusato la Repubblica Islamica di usare i negoziati per prendere tempo, mentre sono proprio i governi occidentali a respingere puntualmente le aperture di Teheran fissando sempre nuovi paletti per risolvere la questione in maniera pacifica. Gli Stati Uniti e i loro alleati, d’altra parte, sfruttano la questione del nucleare puramente come pretesto per giungere ad un cambio di regime a Teheran. Tanto più che finora non è emersa una sola prova dell’esistenza di un programma nucleare iraniano a scopi militari.
Identica posizione USA e Gran Bretagna hanno mostrato anche riguardo alla Siria. Obama ha messo in guardia dalle difficoltà di un’azione militare contro il regime di Assad, ma ha minacciosamente ricordato che il Pentagono ha già preparato un piano di guerra contro Damasco. Le parole dedicate dai due leader alla crisi siriana sono state come al solito avvolte nella fastidiosa e vuota retorica dell’intervento “umanitario”.
Il ruolo di Londra in merito alla Siria appare particolarmente importante in questo frangente, poiché la Gran Bretagna presiede provvisoriamente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al Palazzo di Vetro fervono infatti i tentativi di convincere Russia e Cina ad approvare una nuova risoluzione che, sul modello libico, getti le basi di un intervento esterno con il sigillo di approvazione dell’ONU.
Sul fronte economico, infine, i media occidentali hanno sottolineato presunte divergenze tra un’amministrazione americana che intende stimolare la crescita aumentando la spesa pubblica e un governo britannico che ha messo in atto un durissimo programma di austerity. In realtà, a ben vedere, tra Washington e Londra non esistono sostanziali differenze nemmeno sulla politica economica, dal momento che, come dimostrano i devastanti tagli di bilancio ampiamente adottati anche negli Stati Uniti, la priorità per entrambi i leader continua ad essere la strenua difesa del sistema capitalistico e dei profitti dell’aristocrazia finanziaria.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nella più recente tappa delle primarie repubblicane degli Stati Uniti, martedì il candidato ultra-conservatore Rick Santorum ha incassato vittorie di misura in Alabama e Mississippi, due stati meridionali che avevano assunto un’insolita importanza dopo il risultato tutt’altro che definitivo del supermartedì. Anche se il percorso per l’ex senatore della Pennsylvania resta tutto in salita, quest’ultima affermazione potrebbe quanto meno consentirgli di spegnere definitivamente le velleità di nomination di Newt Gingrich, così da imporsi come unica alternativa al favorito, Mitt Romney.
In entrambi gli stati, dove erano in palio complessivamente 90 delegati, il miliardario mormone è finito al terzo posto, preceduto anche dallo stesso Gingrich, nonostante avesse condotto una campagna elettorale piuttosto aggressiva, a fronte dell’organizzazione ridotta all’osso di Santorum, e dopo aver ricevuto l’appoggio di gran parte dei vertici locali del partito. L’esito di Alabama e Mississippi per Romney ha rappresentato dunque l’ennesima prova dello scetticismo che nutre nei confronti della sua candidatura la destra del Partito Repubblicano.
L’ambiente ostile nel sud degli Stati Uniti verso Romney era comunque in preventivo e il sostanziale equilibrio evidenziato dai risultati finali permetterà all’ex governatore del Massachusetts di ottenere anche in questi due stati un numero considerevole di delegati. Nella giornata di martedì, inoltre, non sono mancate le notizie positive per Romney, il quale è uscito vincitore dagli altri due appuntamenti elettorali in programma, i caucus delle Isole Samoa Americane, dove i votanti sono stati una settantina, e delle Hawaii (20 delegati in palio).
Il risultato più incerto è stato quello delle primarie in Mississippi, dove Santorum ha conquistato il 32,9% dei consensi, Gingrich il 31,3%, Romney il 30,3% e Ron Paul il 4,4%. In Alabama, Santorum ha chiuso al 34,5%, Gingrich al 29,3%, Romney al 29% e Paul al 5%. Solida è stata la prestazione di Santorum e Paul alle Hawaii, dove hanno ottenuto rispettivamente il 25,3% e il 18,3%. A vincere, come già anticipato, è stato però Mitt Romney con il 45,4%, mentre Gingrich è finito quarto con l’11%.
Prima del voto di martedì, c’erano state alcune competizioni minori che avevano ancora una volta premiato sia Romney che Santorum. Il 10 marzo, Santorum aveva fatto suoi in maniera molto netta i caucus del Kansas (40 delegati in palio). Una sconfitta annunciata per Romney, bilanciata però dalle vittorie in tre isole situate nell’Oceano Pacifico: Guam, Isole Marianne e Isole Vergini (27 delegati in totale). Fino ad ora, Romney ha prevalso in 19 stati o territori, 9 sono andati a Santorum e 2 a Gingrich. Secondo il conteggio della Associated Press aggiornato a mercoledì, Romney ha finora accumulato 495 delegati, contro i 252 di Santorum, i 131 di Gingrich e i 48 di Paul. Per assicurarsi la nomination repubblicana ne servono almeno 1.144.
Se pure Santorum continua a raccogliere ampi consensi tra l’elettorato più conservatore del partito in molti stati, il vantaggio di Romney in termini di delegati lo rende ormai pressoché inattaccabile. Tanto più che nelle prossime settimane sono in programma competizioni in stati teoricamente più favorevoli all’uomo d’affari mormone, a cominciare dalle primarie di martedì prossimo in Illinois. Nello stato di Barack Obama, oltretutto, Santorum non sarà sulle schede elettorali in alcuni distretti, come già era accaduto in un altro stato del Midwest in bilico, l’Ohio.
Il calendario repubblicano prevede però già sabato prossimo i caucus del Missouri, dove Santorum appare favorito, e il giorno successivo le primarie a Porto Rico. Il 24 marzo sarà la volta di un altro stato del sud ostile a Romney, la Louisiana, mentre ad aprile quest’ultimo dovrebbe riuscire a capitalizzare una serie di sfide favorevoli, come Washington D.C., dove Santorum non sarà presente, Maryland, Connecticut, Delaware, New York e Rhode Island. Santorum potrebbe rifarsi il 24 aprile nel suo stato, la Pennsylvania, anche se la pesante sconfitta che subì nel 2006 per la rielezione al Senato lascia più di uno spiraglio a Romney per ridurre il margine di distacco.
La sconfitta patita martedì da Gingrich in due stati sui quali aveva puntato tutto ha alimentato parecchi dubbi sull’opportunità di proseguire la corsa per l’ex speaker della Camera. Per il momento, facendo notare come sia in Alabama che in Mississippi il suo distacco da Santorum è stato minimo, Gingrich ha fatto sapere di voler continuare e, anzi, ha promesso ai suoi sostenitori di resistere fino alla convention del partito ad agosto a Tampa, in Florida. L’impazienza nel team di Santorum sta comunque aumentando e lo stesso ex senatore alla vigilia del voto di martedì aveva lanciato un velato invito a Gingrich ad abbandonare la competizione, così da coagulare il voto conservatore attorno ad un unico candidato anti-Romney.
Sia Santorum che Gingrich, in ogni caso, ammettono più o meno apertamente che le chances a loro disposizione per superare Romney nel numero di delegati sono pressoché inesistenti. L’obiettivo, perciò, sembra essere più che altro quello di impedire al “front-runner” il raggiungimento della soglia dei 1.144 delegati, in modo da arrivare ad una convention divisa, durante la quale i delegati dei due candidati conservatori potrebbero formare una maggioranza anti-Romney, presumibilmente assegnando la nomination a Rick Santorum.
Dalla sua parte, oltre a risorse finanziare decisamente superiori a quelle dei rivali, Mitt Romney ha la cosiddetta “eleggibilità”, cioè viene considerato dagli elettori repubblicani come il candidato maggiormente in grado di allargare la base elettorale del partito nel voto di novembre per sconfiggere Obama.
Il principale problema per lui, tuttavia, è che una parte consistente dei votanti in queste primarie lo considera non abbastanza conservatore e questa carenza continua a pesare sull’esito delle urne negli stati del Midwest, dell’Ovest e, soprattutto, del sud degli Stati Uniti. In Alabama e Mississippi, ad esempio, gli exit poll hanno evidenziato come otto su dieci elettori presentatisi ai seggi martedì erano cristiani evangelici, i quali hanno finora mostrato una netta preferenza per Santorum.
Le difficoltà per Romney nel chiudere il discorso nomination sono anche la conseguenza del brusco spostamento a destra del baricentro politico americano negli ultimi anni e, di conseguenza, di quello repubblicano. Durante la sua carriera politica, Romney si è sempre collocato su posizioni relativamente moderate, quanto meno in rapporto alla tendenza generale del suo partito. Nel clima politico attuale, la necessità di abbandonare tali posizioni per svoltare a destra lo ha esposto inevitabilmente alle accuse di ipocrisia e opportunismo.
Fin dall’inizio del suo secondo tentativo di conquistare la Casa Bianca, Romney ha così dovuto cambiare le sue opinioni su svariati temi delicati e rinnegare molte delle scelte fatte in passato, soprattutto in veste di governatore, tra il 2003 e il 2007, di uno stato massicciamente democratico come il Massachusetts. In particolare, Romney è stato praticamente costretto a sconfessare la legge da lui firmata sulla copertura sanitaria universale in questo stato, sia pure basata sul settore privato, e che pare aver fatto da modello alla riforma di Obama del 2010, ma anche il suo appoggio all’aborto e all’introduzione di un salario minimo legato all’inflazione.
Nell’impossibilità di scavalcare a destra il fondamentalismo cristiano di Santorum sulle questioni sociali, Romney ha finito allora per attaccare da destra il suo principale rivale per la nomination sui temi economici, proponendosi come il candidato repubblicano con le maggiori credenziali pro-business nel pieno di una crisi causata precisamente da oltre tre decenni di politiche ultra-liberiste.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nelle prime ore di domenica scorsa, un sergente dell’esercito americano ha fatto irruzione in alcune abitazioni in un villaggio rurale nel distretto di Panjwai, provincia di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, uccidendo a sangue freddo 16 civili, tra cui 9 bambini e 3 donne. La strage è stata definita dalle autorità americane come l’azione isolata di un individuo disturbato, anche se in realtà essa rappresenta solo l’ultima di una lunga serie di atrocità commesse dalle forze NATO che evidenziano a sufficienza la brutalità di un’occupazione ormai decennale nel travagliato paese centro-asiatico.
Il militare americano, dopo aver lasciato la propria base, ha percorso quasi due chilometri a piedi prima di scegliere tre abitazioni come obiettivo del suo delirio. Delle 16 vittime, 11 appartengono alla stessa famiglia, di cui 4 sono risultate essere bambine non oltre i sei anni. Dopo aver giustiziato i membri della famiglia presenti, l’autore della strage ha cercato di dare fuoco ai cadaveri. Il padre e un altro figlio sono sfuggiti al massacro perché si trovavano lontani dal loro villaggio. Al loro ritorno hanno trovato i familiari uccisi e i corpi carbonizzati. Oltre alle vittime, ci sarebbero anche 5 feriti gravemente, con il rischio dunque che il bilancio definitivo dei morti possa salire ulteriormente.
L’attacco è stato duramente condannato dal presidente afgano, Hamid Karzai, che lo ha definito “inumano e intenzionale” e ha chiesto agli americani di fare giustizia. Da Washington, il presidente Obama e il segretario alla Difesa, Leon Panetta, hanno espresso il loro dispiacere per l’accaduto e hanno promesso un’indagine severa. Nonostante la Casa Bianca in una nota ufficiale abbia parlato di “un incidente tragico e scioccante che non rappresenta l’eccezionalità dei nostri militari e il rispetto degli Stati Uniti per il popolo afgano”, la strage sembra invece essere precisamente l’ennesima prova del carattere violento e umiliante che fin dall’inizio ha avuto l’occupazione americana per la popolazione locale.
Secondo la ricostruzione ufficiale, l’autore del massacro sarebbe un militare che, come ha confermato un portavoce della NATO, tenete colonnello Jimmie Cummings, ha agito da solo e che si trova ora agli arresti dopo essersi consegnato spontaneamente ai militari americani. I racconti dei testimoni sono tuttavia discordanti. Mentre alcuni abitanti del villaggio teatro della strage hanno effettivamente confermato di aver visto un solo militare, altri hanno parlato di svariati militari e di un elicottero che sorvolava la scena.
Se quest’ultima circostanza potrebbe essere legata all’invio di un contingente per fermare il sergente americano, essa ha con ogni probabilità spinto i Talebani ad affermare che nel villaggio è andato in scena uno dei raid notturni delle forze speciali NATO che sono tra i principali motivi dell’ostilità nutrita dagli afgani nei confronti degli occupanti. Lo stesso Karzai, in ogni caso, nella sua dichiarazione di condanna aveva inizialmente attribuito la strage alle “forze americane”, anche se successivamente ha anch’egli appoggiato la versione del singolo individuo.
Il nome di quest’ultimo è stato tenuto segreto, anche se si tratterebbe di un soldato 38enne che ha già servito in Iraq e sarebbe arrivato in Afghanistan nel dicembre scorso. Il sergente proverrebbe dalla base Lewis-McChord di Tacoma, nello stato di Washington, ed era assegnato ad una divisione con il compito di sviluppare i rapporti tra la forza di occupazione e i capi villaggio afgani.
La base Lewis-McChord è tra le più grandi e problematiche degli Stati Uniti ed è la stessa da cui venivano i militari membri della cosiddetta Brigata Stryker, condannati nel 2010 per aver ucciso tre civili afgani e aver smembrato i loro corpi facendone dei macabri trofei in un distretto poco lontano da quello di Panjwai.
Dopo il massacro di domenica, alcuni abitanti del villaggio hanno trasportato i corpi bruciati all’ingresso di una base americana a Kandahar, dove ben presto si sono radunate centinaia di persone per manifestare la propria rabbia.
I timori tra i vertici NATO è che il più recente episodio di violenza possa scatenare una nuova ondata di proteste tra la popolazione afgana, proprio mentre si stava placando l’ira seguita al rogo delle copie del Corano presso una base americana e alla diffusione di un video nel quale un gruppo di Marines urinavano sui corpi di afgani uccisi.
Ad alimentare le tensioni nel paese, inoltre, venerdì c’era stata un’altra strage di civili, causata dal fuoco di elicotteri NATO su quelli che erroneamente credevano talebani. Il bilancio è stato di quattro morti e tre feriti. All’incursione, avvenuta nella provincia orientale di Kapisa, sabato scorso è seguita una manifestazione di protesta con più di mille dimostranti.
Per gli Stati Uniti, i fatti di domenica rappresentano anche un altro possibile ostacolo nelle già difficili trattative di pace in corso non solo con i Talebani ma, soprattutto, con il governo di Kabul per trovare un accordo sulla permanenza dei militari americani in Afghanistan ben oltre il ritiro della maggior parte delle truppe previsto entro la fine del 2014.
Nonostante l’annuncio ufficiale di un accordo raggiunto qualche giorno fa per il trasferimento del controllo delle strutture di detenzione alle autorità afgane entro sei mesi, i negoziati sono complicati da alcune questioni delicate, a cominciare proprio dai raid notturni, considerati dalle forze NATO fondamentali per colpire presunti terroristi e che il presidente Karzai vorrebbe invece fermare perché estremamente impopolari.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le elezioni anticipate di sabato scorso in Slovacchia hanno assegnato, come previsto, una nettissima maggioranza all’opposizione social-democratica dell’ex premier, Robert Fico. A uscire sconfitta è stata così la coalizione del primo ministro uscente, Iveta Radicová, il cui governo era di fatto crollato lo scorso ottobre sul voto di fiducia per l’approvazione del Fondo Europeo di Stabilità (EFSF).
In quell’occasione, il Parlamento slovacco riuscì a dare il via libera alla legislazione richiesta da Bruxelles solo grazie all’appoggio dei social-democratici, i quali in cambio chiesero appunto il voto anticipato.
Secondo i dati definitivi, il partito di centro-sinistra SMER-Socialdemocrazia di Fico ha ottenuto il 44,4% dei consensi che si tradurrà in 83 dei 150 seggi in Parlamento. Grazie a questo risultato, Fico - già premier tra il 2006 e il 2010 - sarà in grado di formare un nuovo governo senza ricorrere al sostegno di altri partiti. Una situazione questa del tutto insolita per la Slovacchia, che ha avuto governi di coalizione fin dalla divisione della Cecoslovacchia nel 1993.
La campagna elettorale per il voto di sabato ha visto al centro del dibattito lo scandalo-corruzione esploso alla fine dello scorso anno e che ha coinvolto praticamente tutti i partiti slovacchi, rivelando le modalità con le quali la classe dirigente ha governato il paese da quasi due decenni a questa parte.
Lo scandalo è legato alla cosiddetta operazione “Gorilla”, condotta tra il 2005 e il 2006 dai servizi segreti slovacchi, i quali avevano piazzato delle microspie in un appartamento di Bratislava dove avvenivano incontri segreti tra importanti personalità del mondo politico e imprenditoriale. Il materiale così raccolto ha documentato la corruzione ampiamente diffusa nella gestione degli affari pubblici in Slovacchia. La pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni lo scorso dicembre ha portato a numerose proteste di piazza in molte città alle quali hanno partecipato decine di migliaia di persone.
Lo scandalo “Gorilla” ha messo in luce un sistema corrotto con al centro, soprattutto, le privatizzazioni delle aziende statali e l’assegnazione degli appalti pubblici. A farne le spese nelle urne è stato in particolare il partito del premier Radicová, l’Unione Democratica e Cristiana Slovacca (SDKU-DS), al governo nel 2005-2006 sotto la guida di Mikulás Dzurinda, attuale ministro degli Esteri e presidente del partito. L’SDKU-DS è così andata incontro ad un autentico tracollo, passando dal 15,4% dei consensi raccolti nel 2010 al 5,9% di sabato.
Quest’ultimo partito e gli altri tre della coalizione di governo uscente avranno complessivamente appena 51 seggi nel prossimo Parlamento, contro i 79 vinti nelle precedenti elezioni. Nel giugno 2010 i quattro partiti di centro-destra, nonostante i socialdemocratici di SMER avessero ottenuto la maggioranza relativa, diedero vita ad un’alleanza di governo alquanto instabile. Il premier Radicová è riuscita in due anni a portare comunque a termine alcune delle “riforme” richieste dalle élite economico-finanziarie slovacche e dall’Unione Europea, come quella delle pensioni, del settore pubblico e del fisco.
Tra le altre formazioni politiche in corsa sabato, il nuovo partito conservatore Gente Comune, fondato lo scorso ottobre e protagonista di una campagna anti-corruzione, ha vinto 16 seggi, mentre l’ultra-nazionalista Partito Nazionale Slovacco (SNS) non è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5% per entrare in Parlamento. L’affluenza, infine, è stata superiore alle aspettative e attestata al 59,1%, cioè praticamente simile al 2010.
Tra le promesse elettorali del premier in pectore, Robert Fico, ci sarebbe il mantenimento dell’attuale livello di spesa sociale, l’aumento del carico fiscale per le aziende e le classi più agiate, l’eliminazione della tassa sui redditi ad aliquota unica (19%) introdotta dal precedente governo e lo stop alle privatizzazioni.
Nonostante la retorica, tuttavia, le politiche del prossimo governo slovacco non si scosteranno in maniera sostanziale da quelle degli ultimi due anni. Fico ha infatti già confermato di voler rispettare gli impegni presi dal suo paese riguardo la messa in ordine delle finanze: il deficit di bilancio dovrà così scendere quest’anno al 4,6% del PIL e al 3% nel 2013. Questi obiettivi, ovviamente, dovranno essere raggiunti con ingenti tagli alla spesa pubblica.
Allo stesso modo, come dimostra il voto sul Fondo di Stabilità, il leader social-democratico appoggia in pieno le misure UE per la risoluzione della crisi del debito e il salvataggio della moneta unica, introdotta in Slovacchia nel 2009 sotto la guida dello stesso Fico. Orientamenti di questo genere, inevitabilmente, porteranno nell’immediato futuro all’adozione di nuove pesanti misure di austerity anche in questo paese già segnato da tassi di povertà e disoccupazione ben superiori alla media europea.