di Michele Paris

Nelle prime ore di domenica scorsa, un sergente dell’esercito americano ha fatto irruzione in alcune abitazioni in un villaggio rurale nel distretto di Panjwai, provincia di Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, uccidendo a sangue freddo 16 civili, tra cui 9 bambini e 3 donne. La strage è stata definita dalle autorità americane come l’azione isolata di un individuo disturbato, anche se in realtà essa rappresenta solo l’ultima di una lunga serie di atrocità commesse dalle forze NATO che evidenziano a sufficienza la brutalità di un’occupazione ormai decennale nel travagliato paese centro-asiatico.

Il militare americano, dopo aver lasciato la propria base, ha percorso quasi due chilometri a piedi prima di scegliere tre abitazioni come obiettivo del suo delirio. Delle 16 vittime, 11 appartengono alla stessa famiglia, di cui 4 sono risultate essere bambine non oltre i sei anni. Dopo aver giustiziato i membri della famiglia presenti, l’autore della strage ha cercato di dare fuoco ai cadaveri. Il padre e un altro figlio sono sfuggiti al massacro perché si trovavano lontani dal loro villaggio. Al loro ritorno hanno trovato i familiari uccisi e i corpi carbonizzati. Oltre alle vittime, ci sarebbero anche 5 feriti gravemente, con il rischio dunque che il bilancio definitivo dei morti possa salire ulteriormente.

L’attacco è stato duramente condannato dal presidente afgano, Hamid Karzai, che lo ha definito “inumano e intenzionale” e ha chiesto agli americani di fare giustizia. Da Washington, il presidente Obama e il segretario alla Difesa, Leon Panetta, hanno espresso il loro dispiacere per l’accaduto e hanno promesso un’indagine severa. Nonostante la Casa Bianca in una nota ufficiale abbia parlato di “un incidente tragico e scioccante che non rappresenta l’eccezionalità dei nostri militari e il rispetto degli Stati Uniti per il popolo afgano”, la strage sembra invece essere precisamente l’ennesima prova del carattere violento e umiliante che fin dall’inizio ha avuto l’occupazione americana per la popolazione locale.

Secondo la ricostruzione ufficiale, l’autore del massacro sarebbe un militare che, come ha confermato un portavoce della NATO, tenete colonnello Jimmie Cummings, ha agito da solo e che si trova ora agli arresti dopo essersi consegnato spontaneamente ai militari americani. I racconti dei testimoni sono tuttavia discordanti. Mentre alcuni abitanti del villaggio teatro della strage hanno effettivamente confermato di aver visto un solo militare, altri hanno parlato di svariati militari e di un elicottero che sorvolava la scena.

Se quest’ultima circostanza potrebbe essere legata all’invio di un contingente per fermare il sergente americano, essa ha con ogni probabilità spinto i Talebani ad affermare che nel villaggio è andato in scena uno dei raid notturni delle forze speciali NATO che sono tra i principali motivi dell’ostilità nutrita dagli afgani nei confronti degli occupanti. Lo stesso Karzai, in ogni caso, nella sua dichiarazione di condanna aveva inizialmente attribuito la strage alle “forze americane”, anche se successivamente ha anch’egli appoggiato la versione del singolo individuo.

Il nome di quest’ultimo è stato tenuto segreto, anche se si tratterebbe di un soldato 38enne che ha già servito in Iraq e sarebbe arrivato in Afghanistan nel dicembre scorso. Il sergente proverrebbe dalla base Lewis-McChord di Tacoma, nello stato di Washington, ed era assegnato ad una divisione con il compito di sviluppare i rapporti tra la forza di occupazione e i capi villaggio afgani.

La base Lewis-McChord è tra le più grandi e problematiche degli Stati Uniti ed è la stessa da cui venivano i militari membri della cosiddetta Brigata Stryker, condannati nel 2010 per aver ucciso tre civili afgani e aver smembrato i loro corpi facendone dei macabri trofei in un distretto poco lontano da quello di Panjwai.

Dopo il massacro di domenica, alcuni abitanti del villaggio hanno trasportato i corpi bruciati all’ingresso di una base americana a Kandahar, dove ben presto si sono radunate centinaia di persone per manifestare la propria rabbia.

I timori tra i vertici NATO è che il più recente episodio di violenza possa scatenare una nuova ondata di proteste tra la popolazione afgana, proprio mentre si stava placando l’ira seguita al rogo delle copie del Corano presso una base americana e alla diffusione di un video nel quale un gruppo di Marines urinavano sui corpi di afgani uccisi.

Ad alimentare le tensioni nel paese, inoltre, venerdì c’era stata un’altra strage di civili, causata dal fuoco di elicotteri NATO su quelli che erroneamente credevano talebani. Il bilancio è stato di quattro morti e tre feriti. All’incursione, avvenuta nella provincia orientale di Kapisa, sabato scorso è seguita una manifestazione di protesta con più di mille dimostranti.

Per gli Stati Uniti, i fatti di domenica rappresentano anche un altro possibile ostacolo nelle già difficili trattative di pace in corso non solo con i Talebani ma, soprattutto, con il governo di Kabul per trovare un accordo sulla permanenza dei militari americani in Afghanistan ben oltre il ritiro della maggior parte delle truppe previsto entro la fine del 2014.

Nonostante l’annuncio ufficiale di un accordo raggiunto qualche giorno fa per il trasferimento del controllo delle strutture di detenzione alle autorità afgane entro sei mesi, i negoziati sono complicati da alcune questioni delicate, a cominciare proprio dai raid notturni, considerati dalle forze NATO fondamentali per colpire presunti terroristi e che il presidente Karzai vorrebbe invece fermare perché estremamente impopolari.

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