di Mario Braconi 

Tra gli applausi e un grido di giubilo in francese (“lunga vita alla Palestina”) l’autorità Palestinese ha ieri portato a casa il pieno riconoscimento della condizione di stato di fronte all’agenzia delle Nazioni Unite per la cultura: 107 i voti favorevoli, 14 i contrari e 52 le astensioni (tra cui quella della Gran Bretagna e dell'Italia). Un successo importante, che apre il cammino alla discussione della mozione palestinese per l'ingresso nell'Onu, nonostante ilgià annunciato veto Usa al Palazzo di Vetro. Veto sul quale non ci sono dubbi, vista la reazione odierna.

Benché, infatti, l’ambasciatore americano presso l’Unesco abbia ribadito l’impegno degli Stati Uniti per la sopravvivenza dell’agenzia, il successo palestinese rischia di impedirle di continuare a lavorare come oggi." La profonda ed esplicita irritazione americana per l’iniziativa palestinese, infatti, si é trasformata in taglio ai contributi: Washington ha già annunciato il dieci per cento di tagli, pari a 65 milioni di dollari. Attualmente, infatti, gli Stati Uniti -  primi contribuenti all’Unesco - hanno fornito il 22% del suo importante budget di circa 650 milioni di dollari a biennio.

Gli USA hanno così contabilizzato irritazione e contrarietà all’iniziativa, che gli ricorda che il mondo, a volte, ragiona, decide e sceglie indipendentemente dai desideri della Casa Bianca. D’altra parte è la seconda volta nel giro di una settimana che Washington viene sonoramente schiaffeggiata nell’ambito delle Nazioni Unite: prima il voto dell’Assemblea Generale contro il blocco a Cuba, ora la Palestina all’Unesco. L’immediata ritorsione statunitense non ha avuto bisogno di un provvedimento particolare: disposizioni di legge statali, approvate da oltre 15 anni, infatti, prevedono la fine di ogni sostegno a qualsiasi agenzia dell’ONU che accetti la Palestina come Stato. La Clinton da tempo lo ha ribadito per bocca della sua portavoce: “Esistono delle chiare linee di confine nella legge americane; se esse verranno valicate, scatteranno le conseguenze previste”. Tradotto, sin da subito, all’Unesco si dovranno organizzare sin da domani, tagliando programmi e personale per fare i conti con il taglio statunitense dei contributi.

Gli Stati Uniti sostengono che devono essere i negoziati a definire il riconoscimento dello Stato palestinese, ma lo dicono sapendo che è un modo come un altro per rinviare sine die il tutto. E infatti, se i palestinesi non mollano sulla questione del riconoscimento dello stato palestinese all’ONU, i colloqui conoscitivi lanciati dal quartetto come contromossa non sembrano condurre a risultati concreti, come risulta dal contenuto di una recente intervista all’“Inviato Speciale” Tony Blair, il cui dato inequivocabile è l’impotenza a fare alcunché, causata anche dalla profonda divisioni tra i suoi componenti (USA, ONU, UE e Russia).

In queste condizioni di stallo, s’inserisce la furibonda polemica lanciata oggi dal Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman contro Abbas. In una riunione organizzata dal suo partito (Yisrael Beiteinu) per programmare le attività della sessione invernale della Knesset, un fiume di rabbia si è liberato dalla bocca del ministro: “Dobbiamo considerare la possibilità di troncare ogni rapporto con l’Autorità Palestinese”. Lieberman dice di temere che Israele divenga lo “zimbello di tutta l’area”: “E’ giunto il momento di ottenere una contropartita per tutte le diatribe, le campagne e i boicottaggi palestinesi.”

L'ultrareazionario Lieberman ha affermato che la sua non è una polemica personale contro Abbas. Il che è tutto da vedere, vista l’elegante preterizione con cui è riuscito ad appioppare all’avversario palestinese una presunta firma sotto una tesi di laurea negazionista, oltre a comportamenti molto disdicevoli quali il pagamento di contanti ai terroristi e le congratulazioni tributate a chiunque abbia ammazzato degli ebrei. Salvo poi ammorbidire lievemente il suo attacco con una furba precisazione, che lo mette al sicuro dalla mancanza di eclatanti prove a sostegno della sua tesi: “Forse ora [Abbas] ha fatto in modo di nascondere [la tesi] o magari ha cambiato idea [sull’Olocausto].

Lieberman ne ha per tutti: se da un lato l’Autorità palestinese non sarebbe un interlocutore affidabile a causa dalla una leadership più interessata alla sua sopravvivenza politica che agli interessi del suo popolo, il regime di Hamas deve semplicemente “essere rovesciato”. Secondo quanto risulta a Haaretz, il Ministro degli Esteri avrebbe presentato un accordo di coalizione nel quale il governo israeliano avrebbe preso l’impegno di rimuovere Hamas dalla Striscia di Gaza. Un documento che fa rabbrividire: la speranza è che non sia il prologo ad un’altro disastro sul tipo dell’operazione “Piombo fuso”.

Quanto ai tentativi del Quartetto di far nuovamente decollare dei colloqui di pace dopo oltre un anno di congelamento, Lieberman ha dichiarato: “Non è stato facile per noi accettare le conclusioni del Quartetto, ma l’abbiamo fatto per garantire un punto di partenze alle negoziazioni. Ma i palestinesi stanno eludendo il processo, giorno dopo giorno. Quando il Comitato distrettuale ha annunciato lo stabilimento di un “quartiere” israeliano a Gilo (vicino a Gerusalemme Est), i Palestinesi ci sono avventati sopra come su un trofeo”.

Per completezza, sarebbe bene precisare che quello che Lieberman chiama “quartiere”, è un blocco di unità abitative per oltre mille persone, collocato oltre la Linea Verde del 1967. E che la decisione di andare avanti con le costruzioni, a fine settembre, ha suscitato reazioni di vivace contrarietà non solo da parte dei palestinesi, ma anche delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti. Senza contare il fatto, non proprio indifferente, che i precedenti negoziati si sono arenati proprio a causa del rifiuto opposto dagli israeliani alla richiesta palestinese di prorogare una moratoria sugli insediamenti israeliani.

Mentre l’atteggiamento bellicoso del Ministro degli Esteri israeliano nei confronti della leadership di South Bank costituisce una pesante ipoteca sull’esito dell’abbozzo di processo di pace del Quartetto, i palestinesi conseguono un mezzo successo politico all’assise dell’Unesco, dove il futuro stato palestinese riceve per la prima volta un pieno riconoscimento. Si tratta di una mossa per mantenere focalizzata l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema, mentre le trattative per il riconoscimento davanti al Consiglio di sicurezza vanno per le lunghe, e il quartetto sta, più o meno, a guardare.

 

di Mario Braconi 

La morte del principe Sultan bin Abd al-Aziz Al Saud, fratellastro del monarca assoluto saudita Abdallah bin Abd al-Aziz Al Saudi, ha lasciato un importante vuoto nelle istituzioni saudite. Il Principe Sultan, morto ad un’età stimata di ottanta anni in uno dei migliori ospedali americani (il Presbyterian di New York), accentrava nelle sue mani la doppia carica di erede al trono, ottenuta nel 2005, ed è stato per un cinquantennio Ministro delle Difesa e dell’Aviazione. Il Principe Sultan, uno dei sette figli avuti dal fondatore del Regno, Abdulaziz Ibn Saud, dalla sua moglie favorita, è stato uno degli artefici dell’alleanza di ferro con gli Stati Uniti, mentre suo figlio, il principe Khaled è il padrone del quotidiano arabo Al-Hayat.

Per la prima volta, il successore è stato nominato da un apposito Comitato per la Fedeltà, voluto da re Abdullah, che lo ha istituito nel 2006 per affrontare, a modo suo, il tema della scarsa trasparenza nel processo di selezione dei successori. E questa misera concessione sembra il massimo di cui gli osservatori si possano rallegrare. Ieri notte il Comitato, infatti, ha nominato principe ereditario il Ministro degli Interni, il settantenne Principe Nayif; non propriamente una sorpresa, dato che Nayif nel 2009 è stato nominato secondo Viceministro del governo saudita, cosa che attesta il gradimento  del Monarca. Resta vacante, per il momento, la poltrona del ministro della Difesa, un ufficio che sovraintende spese multimiliardarie destinate ad uno degli eserciti meglio equipaggiati della Regione.

Per gli Stati Uniti, legati a triplo filo alle sorti della monarchia saudita, la nomina é una soluzione gradita. Dal punto di vista degli oppositori liberali della monarchia assoluta, invece, la nomina di Nayif è tutt’altro che una buona notizia. Sembra infatti che il neo principe ereditario saudita si sia distinto nell’ultimo decennio per il suo atteggiamento vagamente critico nei confronti di Adbullah, da egli considerato troppo liberale in tema di riforme e di diritti civili. Secondo quanto riportato da Reuters, Nayif avrebbe richiamato un membro della Shura consultiva per aver espresso parere favorevole ad una possibile rimozione del divieto di guida per le donne. Tanto per capire il soggetto.

Del resto, sono noti gli eccellenti rapporti di Nayif con il clero wahabita: “La sua preoccupazione per il mantenimento della stabilità fa in modo che Nayif tenda a cedere a concessioni ai religiosi, soprattutto su temi culturali e sociali”, sostiene un cablo diplomatico USA del 2009 pescato da Wikileaks. Il New York Times ne tratteggia la figura con una brillante sintesi: “Il potente e temuto ministro degli interni che ha combattuto una battaglia senza soste tanto contro gli estremisti islamici quanto contro la libertà d’espressione”.

Nayif mantiene un fitta e potente rete di conoscenze, sviluppata nella sua funzione di referente dei 13 governatori regionali del Regno. Anche se è noto il suo atteggiamento gentile nei confronti di nipoti (maschi e femmine), i servizi segreti sotto il suo comando hanno avuto per anni - e hanno tuttora come obiettivo esplicito - capi sciiti, progressisti ed islamisti. Non sono dunque molte le speranze che, come pure sostiene qualche analista, nel suo nuovo ruolo Nayif mostrerà un volto più umano e tollerante. Ricorda infatti Mohammed Fahd al-Qahtani, capo di una associazione di dissidenti saudita: “Quest’uomo parla di sviluppo, anziché di riforme. Ha sbattuto in galera un mucchio di persone solo per aver espresso desiderio di riforme. Quest’uomo è un duro.”

di Michele Paris

Negli ultimi giorni, molte città degli Stati Uniti hanno fatto registrare una preoccupante escalation della repressione da parte delle forze di polizia contro le manifestazioni di protesta ormai note in tutto il mondo con il nome di “Occupy Wall Street”. La brutalità impiegata dalle autorità un po’ ovunque nel paese fa seguito alle dure prese di posizione di sindaci e amministratori locali contro un movimento in grandissima parte pacifico e dimostra come la pazienza della classe dirigente americana verso le decine di migliaia di persone scese nelle piazze stia giungendo al termine.

Tra i più violenti interventi della polizia in questi giorni spicca quello andato in scena a partire da martedì a Oakland, città affacciata sulla Baia di San Francisco. Qui le forze dell’ordine sono state protagoniste di violenti scontri per disperdere i manifestanti e impedire loro di rioccupare la piazza del municipio. Nella sola giornata di martedì, gli arresti sono stati 250 e la polizia ha causato il ferimento di un veterano della guerra in Iraq tra i manifestanti, Scott Olsen, colpito da un proiettile vagante e ora ricoverato in condizioni critiche.

Il soffocamento delle proteste a Oakland ha avuto il pieno appoggio del sindaco democratico, Jean Quan, ed è avvenuto in concomitanza con la presenza di Barack Obama nella vicina San Francisco. Il presidente stava presiedendo ad un evento esclusivo per raccogliere finanziamenti elettorali in un hotel della città e, ovviamente, non ha fatto alcun riferimento alle violenze della polizia. Anche nella stessa città californiana, ritenuta una delle più liberal d’America, sempre martedì le autorità hanno poi ordinato ai manifestanti di abbandonare i loro accampamenti a downtown, perché illegali.

Nonostante molti politici democratici in queste settimane abbiano espresso apprezzamento per le ragioni alla base del movimento Occupy Wall Street, sono stati spesso proprio i sindaci di questo partito a ordinare la più dura repressione nelle città americane. A Chicago, ad esempio, dove il sindaco è l’ex capo di gabinetto di Obama, Rahm Emanuel, nelle scorse settimane sono stati arrestati più di 300 manifestanti. Il sindaco democratico di Atlanta, Kasim Reed, ha invece definito “necessari” i 53 arresti operati mercoledì scorso dalla polizia tra gli occupanti di un parco pubblico nella metropoli della Georgia.

Le stesse autorità cittadine hanno invariabilmente citato come giustificazione per arresti e sgomberi brutali i timori per presunte infiltrazioni criminali tra i manifestanti, oppure generici quanto ingiustificati motivi di ordine pubblico o addirittura preoccupazioni per le condizioni igieniche degli accampamenti. Questa è stata finora la strategia dei sindaci di metropoli come Los Angeles, Philadelphia, Boston, Baltimora ed altre ancora.

Secondo i dati raccolti da un sito web d’oltreoceano, basati sui rapporti delle forze di polizia e sui resoconti dei media, a partire dal mese di settembre - quando è nato a New York il movimento Occupy Wall Street - gli arresti di manifestanti nel paese sarebbero più di 2.500.

Se i racconti delle manifestazioni e degli scontri tra dimostranti e polizia si sono moltiplicati con l’espandersi della protesta negli USA, la gran parte dei media ha però evitato di denunciare il comportamento delle forze di sicurezza. Di fronte a questo atteggiamento di giornali e televisioni, c’è da chiedersi quali reazioni ci sarebbero state negli Stati Uniti se la brutale repressione di manifestazioni di protesta pacifiche come quella a cui si assiste ormai quotidianamente nelle città americane avesse avuto luogo, ad esempio, in Iran o a Cuba.

Con ampi strati della popolazione americana costretti a fare i conti con l’intensificarsi della crisi economica, con un livello di disoccupazione sempre alle stelle e con i devastanti effetti delle misure di austerity già adottate e ancora da implementare sia a livello statale che federale, le tensioni sociali e la partecipazione popolare al movimento Occupy Wall Street non faranno altro che aumentare nei prossimi mesi.

In questa atmosfera di crescente conflittualità negli Stati Uniti, la risposta violenta delle istituzioni alle proteste spontanee di queste settimane rappresenta solo un primo avvertimento, diretto non solo ai manifestanti ma a tutti i cittadini americani. Le élite politiche americane non sono infatti disposte ad accettare proteste di piazza prolungate e sono pronte perciò ad utilizzare la forza per reprimere qualsiasi movimento popolare che possa rappresentare una minaccia per la stabilità del sistema.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il partito della sinistra radicale tedesca, Die Linke, propone ufficialmente la legalizzazione di tutte le droghe, comprese cocaina ed eroina e sorprende così la pur tollerante Germania. Approvata quasi all’unanimità, la mozione è stata proposta lo scorso week end durante il congresso annuale di partito a Erfurt. Il tempo ha dimostrato che il proibizionismo non risolve nulla e rendere le droghe pesanti legali, come alcool e sigarette, non può che aiutare ad esercitare un maggiore controllo sul loro commercio, spiega la Sinistra tedesca. E riapre un dibattito sociale che difficilmente troverà una soluzione.

Inserita nel programma politico di Die Linke dei prossimi anni, inizialmente la proposta si limitava alla legalizzazione delle sole droghe leggere quali hascisc, cannabis e marijuana, le sostanze “illecite” usualmente considerate meno pericolose. La bozza non è tuttavia stata approvata dall’assemblea: per cambiare la struttura del sistema, la legalizzazione delle droghe deve essere totale, non deve soltanto “limitarne” i danni. Legalizzare non significa accettare o approvare, ma controllare: per questo motivo non ha senso rendere legale solo il male minore, sigarette alcool o cannabis che sia. La legalizzazione delle sole droghe leggere è un compromesso che non basta: Die Linke vuole adottare una politica totale e “umana” nella lotta alle droghe e alla criminalità.

“La dipendenza non deve essere più considerata un crimine - ha spiegato a questo proposito il capogruppo della frazione parlamentare di Die Linke, Gregor Gysi - ad essere puniti e ad avere paura devono essere gli spacciatori e i grossi baroni del commercio di droga”. E all’attuale politica di proibizionismo contrappone la distribuzione controllata degli stupefacenti ai tossicodipendenti, così come l’istituzione di organi di sostegno e campagne di prevenzione: pratiche che in realtà già esistono (attraverso i medicamenti che vanno a sostituirsi a quelle droghe che danno dipendenza), ma che si accompagnano al mercato sporco delle sostanze fuorilegge, che ci combattono quotidianamente e che hanno dimostrato di non risolvere nulla.

Una società, dunque, in cui alcool, eroina e sigarette sono disponibili nel negozio sotto casa e per cui si emettono scontrini fiscali. Difficile immaginarsi l’attuazione concreta di una visione che potrebbe apparire per certi versi folle, soprattutto alla luce dei gravi problemi psicologici e fisici che cocaina ed eroina creano. Eppure il dibattito è vecchio come la nostra civiltà: fino a che punto è difficile oggigiorno procurarsi droghe illegali nonostante il proibizionismo?

È lo status d’illegalità che trattiene la maggior parte dei giovani (e non) dal farne uso oppure, al contrario, ne costituisce la vera attrazione perché rappresenta evasione e dà un senso di appartenenza elitario? E ancora: è la droga la vera malattia della società, o è soltanto il sintomo di problemi più profondi, quali la ricerca di sicurezza in un mondo che pretende sempre di più e offre sempre di meno? E fino a che punto è ancora possibile sottrarre alle grosse organizzazioni criminali giri d’affari di miliardi, per affidarli poi ai singoli Stati e governi?

Risposte definitive non ce ne sono, e non sarà di sicuro il partito di sinistra tedesco ad offrirne. Eppure è la prima volta che un partito rappresentato in Parlamento chiede una politica di legalizzazione totale degli stupefacenti in un paese dove le droghe pesanti hanno sempre costituito un tabù. Probabilmente.

Letto in un contesto più ampio, invece, è il primo passo verso una maggiore consapevolezza politica di problemi non risolti: il proibizionismo è lo scudo dietro cui si nasconde la politica per non vedere. Che funzioni o no, infatti, è più facile vietare e ghettizzare piuttosto che affrontare seriamente il problema.   

 

di Fabrizio Casari

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato con 186 voti a favore, due contrari e due astenuti, il blocco statunitense contro Cuba. Per la ventesima volta, i governi di tutto il mondo hanno ribadito l’inaccettabilità, sul piano del diritto internazionale, dell’aspetto palese della guerra di Washington contro L’Avana. Per la ventesima volta, da quando, nel Novembre del 1992, venne calendarizzata nei lavori dell’Assemblea Generale dell’Onu, la mozione presentata da Cuba, dal titolo “Necessità di porre fine al blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti d’America contro Cuba” ha rappresentato quindi una sonora sberla per la politica statunitense.

I voti contrari sono stati quelli degli Stati Uniti e Israele, mentre gli astenuti sono le Isole Marshall, Micronesia e Palau; se si accantona il giudizio sull’autonomia e lo spessore politico dei tre isolotti, il voto statunitense e israeliano sembra sinistramente suonare come una conferma indiretta del fatto che il blocco sia in primo luogo una violazione gigantesca dei diritti umani, oltre che una mostruosità giuridica.

Gli Stati Uniti, nel tentativo di difendere l’indifendibile, hanno sostenuto che il blocco è in realtà un embargo e che, come tale, è una scelta di politica interna statunitense, con ciò indicando una supposta inabilità dell’Onu al giudizio. Ma è facile constatare come la pretesa nordamericana sia del tutto fuori luogo. Perché se pure è vero che la scelta d’istituire il blocco è frutto di scelte di politica interna statunitense, le innumerevoli conseguenze dello stesso riguardano invece l’intera comunità internazionale, colpita dall’extraterritorialità delle disposizioni previste dalle leggi Torricelli e Helms-Burton, che sono la cornice giuridico-legislativa all’interno della quale l’aggressione all’isola caraibica si estende anche al resto della comunità internazionale. La legge Torricelli e la Helms-Burton hanno infatti esteso all’intera comunità internazionale il blocco Usa contro Cuba, azzerandone così qualunque dimensione bilaterale per trasformarla in questione internazionale.

Proprio quindi per la sua extraterritorialità, oltre che per l’ossessivo minuzioso dettaglio delle sanzioni (a Cuba e a terzi) oggetto dei numerosi dispositivi ad esse collegate, definire il blocco come embargo è falso; come minimo è perniciosamente riduttivo, incongruo rispetto alle dimensioni, la durata e l’extraterritorialità dei provvedimenti e alle conseguenze che ha provocato e che provoca tanto all’isola come al resto della comunità internazionale. E il fatto che le misure siano prese ai danni di un paese con il quale formalmente non vige uno stato di guerra, rende il tutto solo più vigliacco, vergognoso e ingiustificabile. Per i suoi obiettivi, per la sua portata e per i mezzi impiegati per ottenerli, il blocco degli Stati Uniti contro Cuba si qualifica come un atto di genocidio in base a ciò che sancisce la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 9 dicembre 1948, e come un atto di guerra economica, in base alla Conferenza Navale di Londra del 1909.

L’embargo, infatti, è solitamente usato come misura esclusivamente commerciale a carattere temporaneo, mentre nel caso di Cuba il blocco si regge su un insieme di leggi, decreti presidenziali e misure amministrative interne ed estere che comportano una guerra di tipo politico, commerciale, finanziario e giuridico sull’intero teatro internazionale, cui si aggiungono operazioni d’intelligence, militari e di sostegno diretto e dimostrato ad attività terroristiche. E anche sotto il profilo riguardante le operazioni commerciali e finanziarie, si deve ricordare che qualunque paese al mondo che intrattenga relazioni finanziarie e commerciali con Cuba viene coinvolto.

Se, infatti, una qualunque impresa, di qual si voglia paese, dispone di filiali  o consociate nel territorio statunitense o, comunque, realizza iniziative imprenditoriali con imprese statunitensi, ove commerci anche con Cuba rischia di vedersi congelati i fondi e persino l’arresto dei suoi manager (legge Helms-Burton). Dunque, l’unico elemento di verità nelle dichiarazioni statunitensi è che il blocco è un insieme di leggi, norme e disposizioni interne degli Stati Uniti e, in questo senso, il fatto che si estendano al resto del mondo non ne muta la genesi; ma l’originaria disposizione di embargo decisa da Kennedy nel 1962 con il Proclama 3447, che ampliò le restrizioni commerciali varate da Eisenhower nell'ottobre 1960, è profondamente mutata nel corso dei decenni, assumendo un’aperta ed illegale connotazione extraterritoriale che la connota da anni come un fulgido esempio di pirateria internazionale. Questo per sottolineare la coerenza nei difensori del libero scambio..

Sull’aspetto interno agli Usa del blocco contro Cuba ci si potrebbe chiedere perché, dati i cinquanta e passa anni di vigenza del blocco e reiterata la sua inutilità nei confronti dei fini dichiarati, procedere ancora, infischiandosene della mancanza di risultati e persino della riprovazione internazionale oltre che dei danni provocati alle stesse imprese Usa che si vedono private di relazioni commerciali in un’area territorialmente vicina? Perché - e questo è l’unico elemento di verità nella posizione Usa - il blocco contro Cuba rappresenta sì un aspetto importante della politica interna: la vittoria elettorale in Florida, stato decisivo per le elezioni alla Casa Bianca, è legata al livello di alleanza tra i due partiti con la lobby terroristico-mafiosa cubano-americana con sede a Miami. E le centinaia di milioni di dollari veicolati dalla NED, dall’USAID e dalla stessa CIA che corrono sull’onda dei progetti spionistici contro Cuba definiti elegantemente come “fondi per la democrazia a Cuba”, fanno gola al piccolo esercito di politici e affaristi della Florida che ne utilizzano buona parte per incrementare i loro collegi elettorali.

Ma non si tratta solo di questo. Ad un livello diverso, peraltro maggiormente preoccupante, risulta ulteriormente determinante nel mantenimento del blocco l’intreccio ricattatorio tra le agenzie militari e spionistiche statunitensi e le organizzazioni terroristiche dei fuoriusciti cubani, manovalanza storica delle covert action degli Stati Uniti in Centro e Sud America. Un’eventuale inversione di rotta degli Usa che riportasse l’interesse nazionale al centro della politica regionale, comporterebbe in automatico una presa di distanza dal conglomerato blocco terroristico-mafioso cubano-americano, il quale non esiterebbe a reagire, scoperchiando il velo di segretezza che copre le nefandezze spionistiche e terroristiche di Washington nel continente e non solo. Dallas ha insegnato qualcosa.

D’altra parte, le organizzazioni dei fuoriusciti cubani rappresentano la manovalanza più affidabile per le operazioni segrete proprio perché l’intreccio di convenienza reciproca - che vede la loro sopravvivenza come risultato della benevolenza della Casa Bianca e di Langley - si sposa perfettamente con la convenienza del governo Usa nell’utilizzo della manovalanza terroristica per le sue politiche di “contenimento del comunismo”, come definiva eufemisticamente Kissinger operazioni come il colpo di stato in Cile. Difficilissimo rompere quel vincolo senza prima ripensare una linea politica che non scambi gli interessi statunitensi di dominio dell’area con una politica regionale di dialogo e integrazione. Fantascienza allo stato attuale.

E a rappresentare anche simbolicamente la relazione tra la politica estera della Casa Bianca e i gusanos di Miami, c’è (tra gli altri) Ileana Ros-Lehtinen, detta “la lupa feroce”. Nota per non essere proprio una cima, è esponente della destra più oltranzista, amica del golpista hondureno Micheletti e amica intima e sostenitrice del terrorista Luis Posada Carriles, definito negli Usa il “bin Ladin delle Americhe”. Proprio in virtù di quest’amicizia, la Lehtinen è stata anche la presidentessa d’onore del “Fondo Legale Luis Posada Carriles”, nato con l’obiettivo di riscuotere fondi per il terrorista che organizzò l’attentato contro un aeroplano civile cubano dove morirono 73 persone.

La signora Lehtinen, eletta nel Partito Repubblicano con il voto della lobby cubano-americana, negli ultimi giorni ha chiesto a Obama rispettivamente di: bombardare Cuba come la Libia; proibire l’esibizione negli Usa della compagnia teatrale di bambini “La Colmenita” di Cuba, definendo i piccoli attori come “spie di Castro”; minacciare la Spagna per la presenza della Repsol nelle perforazioni petrolifere a Cuba.

L’equilibrio mentale della signora è da sempre oggetto di curiosità tra gli osservatori politici negli Stati Uniti, ma forse non è un caso che sia diventata Presidente della Commissione Esteri del Congresso Usa, riferendo in ciò implicitamente il valore assoluto dell’istituzione legislativa statunitense. Il blocco contro Cuba, che é nato, vive e prospera nel rapporto torbido che intercorre tra terroristi cubano-americani e Casa Bianca, trova nel ruolo della signora Lehtinen una sintesi simbolica perfetta.


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