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di Michele Paris
Con un’ampia maggioranza, il Congresso americano mercoledì ha finalmente dato il via libera definitivo a tre trattati di libero scambio le cui sorti erano in stallo da anni dopo essere stati negoziati da George W. Bush. I nuovi accordi siglati con Colombia, Corea del Sud e Panama rappresentano una limitata vittoria per il presidente Obama, anche se i propagandati effetti benefici sull’economia americana saranno tutti da verificare.
La Camera dei Rappresentanti e il Senato sono tornati a licenziare una legislazione riguardante l’abbattimento o la drastica riduzione di tariffe doganali per la prima volta dopo quattro anni, da quando cioè, nel 2007, venne ratificato un trattato bilaterale con il Perù. Nelle rispettive votazioni al Congresso i tre trattati hanno raccolto l’approvazione di gran parte dei parlamentari repubblicani, mentre non pochi democratici hanno espresso parere negativo, tra cui il leader di maggioranza al Senato, Harry Reid.
Il trattato di libero scambio più controverso era quello con la Colombia, osteggiato da molti - soprattutto nel Partito Democratico e tra le organizzazioni sindacali - per il trattamento riservato ai sindacati nel paese sudamericano. La Colombia ha infatti il più elevato tasso di assassini di sindacalisti del pianeta. Questo trattato è stato così quello che ha trovato la maggiore opposizione in entrambe le camere. Quelli approvati con la maggioranza più ampia sono stati invece Panama alla Camera e Corea del Sud al Senato.
Contestualmente, la Camera ha anche acconsentito al passaggio di una serie di benefit per quei lavoratori americani che perderanno il loro impiego a causa dell’aumentata competizione risultante dai trattati. Questa iniziativa era stata richiesta espressamente dai sindacati USA e da molti democratici ed aveva già in precedenza ottenuto il consenso del Senato.
L’approvazione dei tre trattati di libero scambio era sollecitata da tempo da gran parte delle corporation statunitensi e, significativamente, il voto decisivo è giunto solo pochi giorni dopo la bocciatura da parte del Senato del modesto pacchetto di misure proposte da Obama per combattere la disoccupazione negli Stati Uniti.
Per la Casa Bianca, i nuovi trattati di libero scambio avranno conseguenze positive sull’economia, a cominciare da una riduzione dei prezzi dei beni di consumo per gli americani - in seguito all’arrivo sul mercato USA di prodotti più economici provenienti da Colombia, Corea del Sud e Panama - e da un incremento delle esportazioni verso questi stessi paesi, i quali ridurranno o cancelleranno del tutto i dazi attualmente applicati alle merci statunitensi.
A ben vedere, tuttavia, il primo presunto beneficio potrebbe causare la perdita di numerosi posti di lavoro negli Stati Uniti a causa della concorrenza delle aziende di questi tre paesi, mentre nel secondo caso l’accesso ai mercati colombiano, sudcoreano o panamense per le merci americane comporterà verosimilmente una compressione dei salari, dal momento che le compagnie esportatrici dovranno comunque ridurre i loro costi operativi per essere competitive.
Secondo alcuni esperti, a trarre maggiore profitto dal flusso commerciale liberalizzato sarà il settore agricolo americano - più competitivo perché fortemente sovvenzionato dal governo - mentre cattive notizie si annunciano nuovamente per quello manifatturiero, che sarà costretto ancora una volta a fare i conti con licenziamenti e riduzioni degli stipendi.
Anche senza considerare le ripercussioni sui lavoratori americani, le pretese di Obama appaiono quanto meno dubbie. A pensarlo è anche un’agenzia federale che già nel 2007 aveva studiato gli effetti dei tre trattati, stimandoli di minimo impatto sull’economia e sui livelli di disoccupazione, poiché Colombia, Corea del Sud e Panama rappresentano una quota di mercato trascurabile per le merci e i servizi statunitensi.
Per questo motivo, al di là della retorica, i trattati di libero scambio sembrano avere un significato soprattutto strategico, in particolare quello stipulato con la Corea del Sud, fondamentale alleato di Washington in Estremo Oriente in funzione anti-cinese. L’accordo commerciale con Seoul avrà con ogni probabilità il maggiore impatto, visto che l’economia della Corea del Sud è di gran lunga la più grande dei tre paesi e la 14esima del pianeta.
I negoziati tra il presidente Obama e quello sudcoreano, Lee Myung-bak, giunto proprio mercoledì a Washington per una visita ufficiale, erano ripresi nel dicembre dello scorso anno, in seguito ai quali era stata concordata la versione definitiva del trattato di libero scambio. Le trattative erano andate in scena in un clima di forti tensioni con la Corea del Nord e gli Stati Uniti avevano esercitato enormi pressioni per ottenere condizioni più favorevoli sul fronte dell’apertura del mercato coreano, in particolare nei settori agricolo e automobilistico.
Se gli USA vantano una partnership strategica molto stretta con Seoul, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i rapporti commerciale, almeno rispetto agli altri concorrenti su scala planetaria. Washington negli ultimi anni ha infatti ceduto terreno sia all’Unione Europea - che ha siglato da tempo un trattato di libero scambio con Seoul, entrato in vigore quest’anno - sia alla Cina, il cui volume d’affari con la Corea del Sud nel 2009 ha toccato i 156 miliardi di dollari contro i 68 degli Stati Uniti.
I trattati con Colombia, Corea del Sud e Panama, infine, erano stati fatti propri da Barack Obama solo dopo l’elezione alla Casa Bianca, mentre durante la campagna elettorale del 2008 si era mostrato contrario alla loro approvazione. Da allora, i tre accordi di libero scambio sono entrati a far parte del piano del presidente democratico per raddoppiare le esportazioni americane in cinque anni. Una strategia fondata principalmente sulla creazione di una manodopera interna a basso costo, fondamentale per garantire la competitività e i profitti delle aziende d’oltreoceano.
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di Eugenio Roscini Vitali
Ci sono le forze speciali di polizia messe in campo dalle autorità kosovare e i recenti scontri fra i manifestanti serbi e militari della NATO; le barricate e la presenza dei serbo-bosniaci di Banja Luka nel Kosovo settentrionale; le bombe esplose nel settore nord di Mitrovica e il ruolo della missione Eulex. Questa la situazione a nord del fiume Ibar, mentre il mediatore europeo Robert Cooper prova a sondare le prospettive di ripresa di dialogo tra Belgrado e Pristina e dopo aver parlato con i rappresentati serbi incontra il premier Hashim Thaci e il capo negoziatore kosovaro Edita Tahiri.
La posizione di Belgrado e di Pristina è chiara. Nei giorni scorsi la signora Tahiri aveva dichiarato che allo stato per il Kosovo settentrionale non si può parlare di questione politica e che non si può pensare a un'amministrazione temporanea internazionale della regione, ipotesi avanzata la settimana scorsa dal vice leader dell'AAK, Blerim Shala, e bocciata dalla stesa Tahiri.
L'intenzione è di riaprire le trattative con Belgrado limitatamente ai soli problemi di natura tecnica inerenti la vita quotidiana della popolazione, ma per il capo negoziatore serbo, Borislav Stefanovic, il dialogo con Pristina può invece riprendere solo a patto che si trovi una la soluzione alla questione legata ai due posti di frontiera di Jarinje e Brnjak, valichi di transito delle merci con la Serbia che la polizia e i doganieri kosovari controllano con l'appoggio di Eulex e degli uomini della KFOR.
A nord del fiume Ibar i segni della crisi sono ormai evidenti e gli incidenti di frontiera del 25 e 26 luglio che hanno interessato gli ingressi 1 e 31, nei quali ha perso la vita un poliziotto albanese, non sono stati altro che l'inizio di braccio di ferro che dura ormai da più di quattro mesi. In quell’occasione, per riprendere il controllo delle dogane, fino a quel momento presidiate dai poliziotti di etnia serba accusati di chiudere un occhio con le merci provenienti da Belgrado, il governo kosovaro aveva spedito al confine le unità speciali della polizia. La speranza era di risolvere la situazione utilizzando il fattore sorpresa, ma alla fine l'azione si era conclusa nel peggiore dei modi; la popolazione aveva reagito innalzando le prime barricate e i primi posti di blocco e Pristina era stata costretta a chiedere l'intervento della KFOR.
Lo stallo è proseguito fino alla tarda serata di lunedì 26 settembre, quando i militari tedeschi della NATO sono entrati in azione per smantellare una barricata che però è stata subito ricostruita. Per liberare i blocchi stradali che impedivano il movimento dei mezzi militari, la KFOR è entrata di nuovo in azione nelle prime ore del giorno successivo: in corrispondenza del posto di frontiera di Jarinje sono stati usati proiettili di gomma, gas lacrimogeni e bombe accecanti e negli scontri sono rimaste ferite 11 persone, 7 serbi e 4 militari.
A Bruxelles il Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha affermato che occorre effettuare delle inchieste speciali sull'azione dei membri della KFOR e Belgrado a chiesto la neutralità che Eulex e KFOR agiscano secondo quanto previsto dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma per il responsabile dell'ospedale del quartiere serbo di Mitrovica, Milan Jakovljevic, i sei uomini ricoverati dopo gli scontri presentavano ferite da arma da fuoco e non di pallottole di gomma.
La scintilla che ha dato il via alla protesta serba va ricercata nel tentativo di Pristina di affermare la propria sovranità su tutto il territorio nazionale e la questione del mancato rispetto dell'embargo sui prodotti serbi va solo vista come un pretesto per intervenire. Belgrado, d'altro canto, non ha alcuna intenzione di mollare la presa e per sostenere la popolazione di etnia serba ha creato nel Kosovo settentrionale una vera e propria rete di strutture parallele: l'amministrazione pubblica, la polizia locale, le scuole e le banche sono inserite all'interno di un contesto sociale che non ha alcun rapporto con il resto del Kosovo. Ad appoggiare la protesta serba è intervenuto anche il Comitato per l'aiuto ai serbi di Kosovo e Metohija, una ventina di persone arrivate da Banja Luka, Republika Srpska, che lo scorso 9 ottobre hanno trascorso un giorno sulle barricate poste sul ponte che attraversa il fiume Ibar e unisce il settore nord e sud della città di Kosovska Mitrovica.
Ma i fattori d’instabilità sono legati anche agli atti di violenza che ogni giorno insanguinano le strade di tutto il Kosovo e che prendono spesso di mira la popolazione di etnia serba. L'ultimo caso riguarda un uomo ucciso a colpi d'arma da fuoco in un agguato tesogli all'uscita da un ristorante nella località di Zrze, presso Orahovac, nel Kosovo sud occidentale. Belgrado accusa Eulex e KFOR di non fare abbastanza per proteggere la comunità serba che vive negli enclave, di presidiare massicciamente la sole regione a nord del fiume Ibar e di non aver mai fatto luce sui fatti criminosi che hanno colpito i serbo-kosovari.
Ci sono poi gli attentati e la corruzione, elementi che non aiutano certo la Paese a trovare la strada della pacificazione. L'ultimo atto terroristico risale al 5 ottobre scorso, quando a Mitrovica nord un ordigno è esploso in un parcheggio; l'esplosione non ha provocato morti e feriti, ma ha distrutto un’automobile di proprietà di un serbo che lavora come interprete per l'Eulex, un episodio che il capo della missione dell'Unione Europea, Xavier de Marnhac, ha definito "un evidente tentativo d’intimidazione".
In realtà l'azione potrebbe essere l'ennesima riprova della difficile situazione che la popolazione serba vive ogni giorno a causa dell’occupazione albanese e del sostegno concesso dalle truppe NATO ed Eulex alle autorità di Pristina, politici e forze di polizia che si accingono ad affrontare uno scandalo che potrebbe portare sul banco degli imputati gran parte dei vertici del ministero degli interni e del governo stesso.
L'inchiesta aperta dalla missione europea parla di casi di corruzione e d’irregolarità nelle aste per la vendita delle armi e delle munizioni; indagini che coinvolgono la polizia kosovara ed alcune aziende del settore che in ambio di tangenti avrebbero venduto le armi a prezzi raddoppiati.
Secondo il giornale Koha Ditore tra gli indagati compare anche il nome del premier Hashim Thaci e sembra che tra i venditori sia riuscito ad infiltrarsi anche un gruppo criminale. Secondo gli inquirenti il traffico sarebbe iniziato subito dopo la proclamazione unilaterale dell’indipendenza e sarebbe stato proprio il premier ad autorizzare questi affari all'insaputa della missione delle Nazioni Unite.
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di Michele Paris
Il ministro della Giustizia americano, Eric H. Holder, ha annunciato martedì in una conferenza stampa la scoperta di un complotto iraniano per assassinare l’ambasciatore saudita a Washington. Le autorità statunitensi puntano il dito direttamente contro il governo di Teheran, anche se le accuse non sembrano per ora provare alcun serio coinvolgimento dei vertici della Repubblica Islamica. Con la campagna mediatica avviata subito dopo le rivelazioni, tuttavia, l’amministrazione Obama sembra aver già colto l’occasione per aumentare ulteriormente le pressioni sull’Iran.
La trama che le autorità americane sostengono di aver smascherato ruotava attorno ad un cittadino americano di origine iraniana, il quale, in contatto con un presunto membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, intendeva assoldare sicari affiliati a un cartello messicano del narco-traffico per attentare alla vita dell’ambasciatore saudita, Adel al-Jubeir, e per piazzare dell’esplosivo nelle sedi delle rappresentanze diplomatiche israeliane a Washington e a Buenos Aires.
L’iraniano-americano è stato identificato nel 56enne Mansour Arbabsiar, venditore di auto di seconda mano a Corpus Christi, nel Texas. Il suo nome appare nelle carte dell’FBI assieme a quello dell’iraniano Gholam Shakuri, definito come un membro di al-Quds, una sezione speciale dei Guardiani della Rivoluzione.
Il caso sarebbe iniziato lo scorso mese di maggio, quando un agente della DEA (Drug Enforcement Administration), infiltrato sotto copertura nel cartello messicano Los Zetas, riferì ai suoi superiori di essere stato avvicinato da un iraniano amico di famiglia a Corpus Christi - lo steso Arbabsiar - con una singolare proposta. Quest’ultimo, ritenendo l’agente della DEA un membro dei "Los Zetas", gli chiese di ingaggiare dei killer per portare a termine attacchi terroristici sul territorio americano. Nelle settimane successive sarebbe stato trovato un accordo per colpire l’ambasciatore saudita in un ristorante di Washington, dietro compenso di 1,5 milioni di dollari.
All’inizio di agosto, poi, Arbabsiar avrebbe trasferito dall’Iran cento mila dollari sul conto dell’agente DEA come anticipo di pagamento per il servizio richiesto. Un paio di settimane fa, infine, Arbabsiar ha preso un aereo dall’Iran diretto a Città del Messico per offrirsi personalmente come garanzia del versamento del saldo una volta ultimata l’operazione negli USA. Il governo messicano, su richiesta americana, gli ha però negato l’ingresso nel paese, mettendolo invece su un volo con scalo all’aeroporto Kennedy di New York, dove è stato arrestato il 29 settembre scorso.
Il complotto così grossolanamente organizzato non aveva alcuna possibilità di essere condotto a buon fine, dal momento che Arbabsiar era inconsapevolmente in contatto con un informatore della DEA e le sue conversazioni telefoniche erano costantemente monitorate. Mentre il cittadino iraniano-americano si trova tuttora in carcere, il presunto membro dei Pasdaran è con ogni probabilità a piede libero in Iran.
Le dichiarazioni del numero uno del Dipartimento di Giustizia che implicano il governo di Teheran nel fallito attentato sono di estrema gravità. Holder ha infatti chiamato in causa proprio l’élite dei Guardiani della Rivoluzione (al-Quds), il cui comandante risponde direttamente all’autorità suprema della Repubblica Islamica, l’ayatollah Ali Khamenei.
Al-Quds, che corrisponde al nome arabo di Gerusalemme, è la più indipendente delle cinque sezioni in cui è suddiviso il Corpo delle Guardie della Rivoluzione ed è impiegata in operazioni segrete all’estero, in particolare in Medio Oriente. I suoi membri sono altamente addestrati, perciò appare improbabile un coinvolgimento dei suoi vertici in una macchinazione a dir poco maldestra.
Le reazioni iraniane alla notizia diffusa da Washington sono state comprensibilmente molto dure. L’ambasciatore di Teheran all’ONU, Mohammad Khazaee, ha respinto “categoricamente queste accuse senza fondamento, basate sulle dichiarazioni sospette di un singolo individuo”. Dalla capitale iraniana, un portavoce del presidente Ahmadinejad ha affermato che “il governo americano e la CIA hanno parecchia esperienza nella produzione di sceneggiature cinematografiche”, aggiungendo, in riferimento alla crisi economica e al movimento di protesta contro Wall-Street, che “questo scenario serve a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica statunitense dalla crisi interna”.
Perplessità circa la tesi sostenuta dall’amministrazione Obama del coinvolgimento di Teheran nella vicenda sono state sollevate anche da analisti e commentatori. In un’intervista al New York Times, il ricercatore iraniano-americano Rasool Nafisi ha definito improbabile una responsabilità diretta dei Guardiani della Rivoluzione, per i quali è altamente insolito “operare negli USA per timore di ritorsioni”. L’ultimo attentato condotto dai Pasdaran in America, secondo Nafisi, fu l’assassinio di un dissidente iraniano nel 1980 nella sua abitazione di Bethesda, nel Maryland.
Anche un think thank come Stratfor, che vanta legami nell’intelligence americana e negli ambienti militari, sembra scartare l’ipotesi che dietro al tentato assassinio del diplomatico saudita ci sia il governo iraniano. “Questo complotto non appare credibile alla luce dei consueti metodi operativi dei servizi segreti iraniani e per il fatto che avrebbe comportato sostanziali rischi di natura politica”, hanno scritto gli analisti della compagnia texana. “Non è chiaro inoltre cosa avevano da guadagnare gli iraniani uccidendo l’ambasciatore saudita”, tanto più che le probabilità di collegare l’attentato all’Iran erano molto elevate.
Nonostante la sicurezza mostrata dalle autorità statunitensi, alla luce dei fatti resi noti finora, rimangono profondi dubbi sia sul coinvolgimento di Teheran che sulla consistenza del complotto stesso. Tanto per cominciare, il caso si basa esclusivamente su una persona, l’iraniano-americano Mansour Arbabsiar, sui contatti che ha intrattenuto con un agente della DEA, sulle sue telefonate intercettate e sulla confessione rilasciata dopo l’arresto. Inoltre, secondo quanto scritto nel rapporto dell’FBI, l’idea di assassinare l’ambasciatore dell’Arabia Saudita in un ristorante di Washington sarebbe stata avanzata inizialmente dallo stesso agente americano sotto copertura.
Resta poi da spiegare come l’Iran, già alle prese con gli effetti della crisi siriana, le pressioni della comunità internazionale per il suo programma nucleare e le divisioni interne tra le varie fazioni politiche, abbia deciso di intraprendere una simile iniziativa che, era facile prevedere, avrebbe dato modo agli USA e all’Occidente di aumentare le pressioni nei suoi confronti.
La sola denuncia del tentato attacco terroristico ha in ogni caso spinto Washington a intensificare la retorica verso Teheran. Mentre Hillary Clinton minacciava misure punitive contro l’Iran in una lunga intervista alla Associated Press, il suo Dipartimento di Stato emetteva un’allerta per i viaggiatori americani all’estero, mettendoli in guardia da possibili azioni orchestrate dal governo della Repubblica Islamica. Poco più tardi, il Dipartimento del Tesoro ha invece annunciato nuove sanzioni dirette contro cinque cittadini iraniani, tra cui quattro membri di al-Quds, organizzazione bollata come terroristica dagli USA nel 2007. Una serie di misure, queste ultime, adottate tempestivamente e senza presentare prove concrete delle responsabilità iraniane, che minacciano un nuovo peggioramento nei rapporti già abbastanza tesi tra Washington e Teheran.
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di Michele Paris
L’uccisione del predicatore radicale Anwar al-Awlaki con un missile lanciato da un drone della CIA meno di due settimane fa continua a sollevare numerose perplessità negli Stati Uniti. La palese illegalità di un’operazione che ha tolto la vita ad un cittadino americano mai sottoposto ad alcun procedimento legale, sembra infatti segnare un nuovo triste primato tra gli abusi della decennale “guerra al terrore”. Per cercare di placare le polemiche, l’amministrazione Obama ha così tentato un’operazione mediatica che prova a fornire incerte fondamenta legali al blitz in territorio yemenita.
In un articolo apparso domenica scorsa in prima pagina, il New York Times ha descritto i contenuti di un memorandum segreto dell’amministrazione Obama nel quale si cerca di giustificare legalmente l’assassinio di al-Awlaki. Il reporter Charlie Savage non ha in realtà avuto accesso al documento - la cui esistenza era stata rivelata già il 1° ottobre dal Washington Post - ma cita alcune fonti governative anonime in un pezzo che appare dettato appositamente da Washington per spegnere le critiche provenienti dalle organizzazioni a difesa dei diritti civili, dagli ambienti accademici e da una parte del mondo politico americano.
Il memorandum, di una cinquantina di pagine, è stato redatto dall’Ufficio dei Consiglieri Legali del Dipartimento di Giustizia, lo stesso che durante l’amministrazione Bush produsse i pareri legali che giustificarono l’utilizzo di metodi di tortura negli interrogatori di presunti terroristi. Riecheggiando proprio la dottrina del presidente repubblicano, il documento in questione conferisce di fatto alla Casa Bianca l’autorità indiscussa di ordinare l’assassinio di un cittadino americano, senza che nei suoi confronti siano state sollevate accuse formali o sia stato istituito un regolare processo.
Anwar al-Awlaki e altre tre persone - tra cui un altro cittadino USA, Samir Khan, fondatore della rivista qaedista in lingua inglese, Inspire - sono stati fatti a pezzi da un velivolo senza pilota mentre viaggiavano a bordo di alcune auto nel nord dello Yemen lo scorso 30 settembre. Secondo il governo americano, Awlaki era coinvolto attivamente in numerose trame terroristiche sventate o andate a buon fine negli ultimi anni. Awlaki era inoltre considerato uno dei massimi esponenti di Al-Qaeda nella penisola arabica. Tutte queste accuse non sono mai state supportate da prove concrete, bensì motivate soltanto da rapporti segreti d’intelligence.
Le acrobazie legali dei consiglieri del governo americano rivelano implicitamente la sostanziale impossibilità di giustificare un atto di questo genere. Gli esperti del Dipartimento di Giustizia hanno dovuto infatti affrontare e cercare di superare gli ostacoli posti da una serie di ordini esecutivi presidenziali, da leggi federali, dalla Costituzione e dal diritto internazionale.
Secondo il New York Times, il parere legale espresso nel memorandum riguarda esclusivamente il caso di Awlaki e non costituirebbe perciò una nuova dottrina che consenta l’assassinio mirato di cittadini americani bollati come terroristi. Questa precisazione sembra voler tranquillizzare quanti hanno criticato l’operazione della CIA, assicurando che si tratta di un caso isolato. In realtà la morte del predicatore dalla doppia cittadinanza è un pericolosissimo precedente che potrà essere utilizzato non solo contro qualsiasi presunto terrorista ma anche, in un futuro forse non troppo lontano, addirittura contro dissidenti interni.
In ogni caso, il memorandum afferma che Awlaki era un bersaglio legittimo in quanto non esisteva la possibilità concreta di arrestarlo in Yemen e perché i servizi segreti avevano stabilito che lo stesso predicatore si era unito ad Al-Qaeda nel conflitto in corso contro gli Stati Uniti. Awlaki rappresentava poi una minaccia significativa e imminente per la sicurezza americana e le autorità yemenite non erano in grado - o non avevano manifestato la volontà - di fermarlo.
I consiglieri del Dipartimento di Giustizia passano poi ad analizzare le possibili obiezioni al parere espresso, per confutarle una ad una. Dal loro punto di vista, l’ordine esecutivo che vieta al governo di compiere assassini deliberati non si applicherebbe ai nemici in tempo di guerra, come veniva considerato Awlaki, ma soltanto a leader politici in tempo di pace. L’ordine esecutivo in questione è il n. 112333, firmato nel 1981 dal presidente Reagan, il quale era stato preceduto da altri due decreti simili, anche se meno comprensivi, durante le presidenze di Gerald Ford e Jimmy Carter. Estremamente significativo è il fatto che oggi un presidente democratico calpesti un ordine emesso da un presidente repubblicano che tre decenni fa era considerato come uno dei più reazionari della storia americana.
Il dettato costituzionale viene poi completamente messo da parte. Il Quarto Emendamento, ad esempio, stabilisce che i cittadini non possano essere imprigionati dal governo senza motivo, mentre il Quinto Emendamento impedisce al governo di privare una persona della propria vita senza un giusto processo. Per gli autori del memorandum, tuttavia, Awlaki non era un criminale ordinario, a cui sono garantiti i diritti costituzionali, e per rafforzare la loro tesi fanno riferimento a vari casi giudiziari nei quali cittadini USA che si erano uniti a “forze nemiche” sono stati detenuti o perseguiti in tribunali militari come nemici privi della cittadinanza americana.
Nato in Nuovo Messico da genitori yemeniti, Anwar al-Awlaki, era a tutti gli effetti cittadino americano, come stabilisce il 14° Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Come se non bastasse, la libertà di parola era anche per lui garantita dal Primo Emendamento, applicabile - secondo quanto deciso da svariate sentenze della Corte Suprema - anche in caso d’incitamento alla violenza.
Per Washington, Al-Awlaki costituiva una minaccia imminente alla sicurezza degli USA, nonostante fosse rimasto sulla lista nera del governo americano per più di un anno e mezzo. Tale designazione ha reso possibile il suo assassinio anche in un momento nel quale non stava organizzando un attacco contro gli Stati Uniti. A supporto di questa opinione l’amministrazione Obama cita di nuovo alcune sentenze della Corte Suprema che nel passato hanno approvato l’uccisione da parte della polizia di sospettati in fuga poiché, diversamente, sarebbe stata messa a repentaglio la vita di persone innocenti.
Il governo americano dichiara inoltre che era impossibile catturare Awlaki in Yemen. Una tale operazione avrebbe infatti messo a rischio i membri delle forze speciali e avrebbe causato problemi diplomatici con il governo yemenita. Gli USA non hanno tuttavia avuto particolari impedimenti nel condurre un’operazione simile lo scorso mese di maggio, quando si sono introdotti nell’abitazione di Osama bin Laden in una cittadina pakistana, né si sono fatti eccessivi scrupoli nei confronti di Islamabad. Per quanto riguarda lo Yemen, oltretutto, la disponibilità del presidente Saleh verso gli Stati Uniti è ben documentata, come hanno mostrato numerosi cablo pubblicati da Wikileaks.
Awlaki si trovava poi lontano dal teatro principale della guerra al terrore (Afghanistan), ma per i consiglieri legali di Obama la distanza non gli impediva di partecipare al conflitto armato tra Al-Qaeda e gli USA. Numerosi esperti di diritto internazionale hanno peraltro da diverso tempo contestato la definizione unilaterale data alla guerra combattuta potenzialmente in ogni angolo del pianeta contro gli integralisti islamici da Washington. Essa non risponderebbe cioè ai requisiti fissati dal diritto internazionale per definire una guerra vera e propria, rendendo di dubbia legalità le operazioni extra-giudiziarie condotte in questi anni.
La pubblicazione del contenuto del memorandum del Dipartimento di Giustizia segue di qualche giorno le rivelazioni di un articolo della Reuters sulle modalità con cui vengono decise le sorti dei sospettati di terrorismo come Awlaki. All’interno dell’amministrazione Obama opera una commissione segreta composta da membri del governo che decide quali siano le persone oggetto di arresto o assassinio extra-giudiziario. La decisione ultima spetta al presidente e tutto il procedimento avviene senza alcuno scrutinio pubblico e senza nemmeno una legge apposita che abbia decretato la creazione della stessa commissione o definito l’iter da seguire.
In definitiva, le implicazioni del documento partorito dai consiglieri legali del governo americano e l’assassinio deliberato di Anwar al-Awlaki sono a dir poco inquietanti, dal momento che assegnano al presidente la facoltà di ordinare l’uccisione di una persona - anche con passaporto statunitense - al di fuori di ogni quadro legale e, per di più, al termine di una procedura segreta.
Il missile guidato esploso su un convoglio che viaggiava in una remota regione dello Yemen lo scorso settembre rappresenta dunque una sorta di punto di non ritorno che minaccia gravemente le stesse fondamenta democratiche degli Stati Uniti. La possibilità concessa al presidente di decidere della vita di un cittadino americano senza offrire prove di colpevolezza, senza passare attraverso un tribunale e senza possibilità di appello è la logica conseguenza delle aberrazioni inaugurate dall’amministrazione Bush e apre ancora di più la strada verso il conferimento all’esecutivo di poteri pressoché assoluti per intervenire ovunque siano minacciati gli interessi del governo e delle forze che esso rappresenta.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Questa volta “Occupy Wall Street” ha fatto il colpaccio. Proprio di fronte alla borsa valori di Wall Street, i nostri eroi sono riusciti a mettere le mani su un edificio abbandonato e trasformarlo in una mostra d'arte sovversiva. Si tratta della Casa Storica della banca JPMorgan Chase, una delle famose banche “too big to fail,” la vera e propria nemesi del movimento. Il palazzo della banca è in ristrutturazione e nel frattempo ospita mostre d'arte. Ma chi avrebbe mai pensato che la nuova mostra in progetto, dopo quelle commemorative per l'Undici Settembre, sarebbe stata organizzata proprio dai rivoluzionari...
“Stiamo studiando dei messaggi da appendere alle vetrate che danno sulla borsa”, dice John, stampando le magliette di #occupywallst (questo l'account Twitter del movimento), su cui è disegnata una bandiera americana con un pugno chiuso da cui nascono i germogli di una nuova pianta. Il colpo d'occhio dalle enormi vetrate è così ironico da essere quasi eccessivo. Dall'altro lato della strada, le bandierone sventolanti su Wall Street e, con un po' d'attenzione, sembra di intravvedere dalle finestre di fronte il pavimento della borsa più famigerata del pianeta.
Ma non l'ironia scorre a fiumi. La banca JPMorgan Chase ha donato 4,7 milioni di dollari alla Polizia di New York proprio sabato scorso, dopo che le forze dell'ordine avevano arrestato più di settecento manifestanti sul ponte di Brooklyn. Grazie a questi arresti di massa e alla brutalità della polizia, il movimento è saltato alla ribalta mondiale, guadagnandosi finalmente le prime pagine di tutti i giornali. Molti esponenti progressisti del Partito Democratico e i sindacati sono subito saltati sul carro del vincitore e hanno dichiarato il loro sostegno per la causa.
E’ bene non credere nella dietrologia, ma sembra quasi che JPMorgan ce la stia mettendo proprio tutta per far decollare il movimento... I manifestanti hanno cercato innumerevoli volte di raggiungere l'ingresso della borsa su Wall Street, ma ci sono riusciti solo a caro prezzo, bastonate e numerosi arresti. Ed ora, finalmente, campeggiano gagliardi nell'edificio che fu della potente banca d'affari, proprio di fronte al santuario della finanza mondiale. Un colpo da maestro, quasi quanto il loro nuovo organo d'informazione: “The Occupied Wall Street Journal”!
Dall'altro lato della strada, un'armata di poliziotti a cavallo presidia l'ingresso della borsa. Ma agli occhi ingenui dei turisti, sembra invece che i gendarmi stiano a guardia della mostra d'arte. I cavalli porgono il posteriore alla borsa valori e una montagna di escrementi si sta accumulando proprio di fronte all'ingresso. La puzza è insopportabile. Il che fa pensare: nemmeno i manifestanti avrebbero mai trovato una metafora più calzante...
La mostra d'arte, organizzata dal collettivo “Loft in the Red Zone,” avrebbe dovuto chiudere i battenti domenica sera. Ma proprio mentre ne parliamo con una delle curatrici, Ingrid deGarnier, scopriamo che è appena stata prorogata di una settimana intera, fino a venerdì sera. Giovedì sera è in programma una mega-festa per finanziare la rivolta. “Questo spazio è molto richiesto”, ci spiega John, il ragazzo delle magliette, “ma stiamo cercando di pagare i futuri affittuari per subentrare nell'affitto e tenere questo spazio più a lungo.”
Un flusso ininterrotto di turisti entra nell'enorme salone che, neanche a farlo apposta, si trova nel luogo più gettonato di Manhattan, a un isolato da Ground Zero e di fronte a Wall Street. I turisti si fanno la foto di fronte alla borsa con i poliziotti a cavallo, ma per via della puzza scappano subito a trovare rifugio dentro al palazzo.
Si possono ammirare dipinti, installazioni dal vivo, videoclip, sculture, disegni e il banco delle t-shirt. Puoi prendere una maglietta gratis se vuoi, però John suggerisce di fare una donazione spontanea. Non occorre lasciare denaro, qualsiasi donazione è ben accetta. Ecco lo spirito rivoluzionario! La maggior parte delle opere d'arte sono ingegnose e suggestive, tutte a sfondo politico ovviamente. Si va dal dipinto “In oil we lust,” che fa il verso al motto stampato sui dollari “In god we trust,” fino alla parete con la scritta “No bankers left behind,” che prende in giro la legge “No child left behind” dell'amministrazione di Bush Jr.
Il resto dell'edificio è un cantiere gigantesco. Nello stanzone di fianco alla mostra, in uno spazio aperto alto tre piani, un paramedico sta tenendo una lezione ad una folla di attivisti su come esercitare i propri diritti costituzionale. In questo caso, sta mostrando come soccorrere un manifestante aggredito dalla polizia con lo spray urticante. È sicuramente un fatto curioso questo. Si parla tanto dell'America come la terra della libertà, “the land of the free,” però sfortunatamente, appena qualcuno decide di manifestare pacificamente contro le corporations, o vieni bastonato, o paralizzato a colpi di pepper-spray, o peggio, finisci direttamente in galera. A meno che, ovviamente, non sei un sostenitore del Tea Party...