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di Michele Paris
Qualche giorno fa, il presidente americano Barack Obama ha ammesso per la prima volta pubblicamente l’esistenza del programma militare condotto con velivoli senza pilota (droni) per colpire presunti terroristi nell’area tribale del Pakistan. L’ammissione, tutt’altro che casuale, è avvenuta nel corso di un’intervista virtuale organizzata lunedì scorso dal social network Google+ e, a ben vedere, risulta estremamente rivelatoria della strategia che Washington intende perseguire negli anni a venire per difendere i propri interessi imperialistici in Asia centrale e altrove.
L’uscita di Obama rappresenta una vera e propria difesa pubblica di un discusso programma che ha causato finora migliaia di vittime civili e sul quale lo stesso presidente ha fatto affidamento in maniera sempre più massiccia fin dal suo ingresso alla Casa Bianca nel gennaio 2009.
La politica del governo americano sui droni dispiegati in Pakistan era tradizionalmente quella di mantenere il massimo riserbo. Questo programma, diretto dalla CIA, ufficialmente sembrava non esistere, anche se la stampa riporta in genere ogni singola incursione effettuata non solo in territorio pakistano, ma anche in altri paesi come Yemen e Somalia. Gli attacchi così condotti vengono inoltre quasi sempre confermati anonimamente da esponenti del governo americano.
Il giorno successivo la dichiarazione via Google+, alcuni giornali d’oltreoceano si sono chiesti se Obama avesse violato inavvertitamente la segretezza imposta sul programma dei droni. I portavoce della Casa Bianca hanno però smentito una possibile gaffe del presidente. Molto più probabile è che Obama e il suo staff abbiano deciso deliberatamente di fare una dichiarazione pubblica di sostegno all’impiego dei droni in Pakistan. Infatti, durante l’evento sponsorizzato da Google, il presidente ha ricevuto più di cento mila domande dagli utenti collegati, tra le quali ne sono state selezionate accuratamente solo sei e una di esse era appunto quella relativa ai droni.
“Voglio che la gente comprenda che in realtà i droni non hanno causato un gran numero di vittime civili”, ha affermato Obama nella sua replica. “Nella maggior parte dei casi, i droni sono risultati molto precisi nel colpire membri di Al-Qaeda e i loro affiliati”.
Per l’inquilino della Casa Bianca quello dei droni è “uno sforzo rivolto contro persone che sono su una lista di terroristi attivi, i quali cercano di colpire cittadini, strutture e basi degli Stati Uniti”. Ancora, “il maggior numero di queste incursioni avviene nella FATA [l’area tribale pakistana al confine con l’Afghanistan]” e “il programma viene operato con moderazione”.
Oltre alla più che dubbia legalità di assassini mirati entro i confini di un paese sovrano che non è in guerra con gli Stati Uniti e contro individui finiti sulla lista nera di Washington senza alcuno scrutinio pubblico o intervento di un’autorità giudiziaria, le operazioni dei droni non appaiono nemmeno particolarmente precise.
Molte organizzazioni hanno condotto studi approfonditi sulle conseguenze dei bombardamenti con i droni in Pakistan e i risultati hanno mostrato le stragi di civili puntualmente causate da ogni singola incursione. Secondo un rapporto dell’ottobre 2010 di Campaign for Innocent Victim in Conflicts (CIVIC), i dati raccolti dall’intelligence americana per giustificare un attacco militare si basano su informazioni sommarie e spesso imprecise. I ricercatori di CIVIC hanno analizzato nove delle oltre cento incursioni portate a termine tra il 2009 e il 2010, nelle quali hanno contato 30 vittime civili, tra cui donne e bambini.
Il numero totale delle vittime dei droni in Pakistan dall’inizio del 2008, pur essendo impossibile da stabilire in maniera ufficiale, è stata stimata tra i 1.109 e i 1.734 da due ricercatori di New American Foundation. In questi attacchi, sarebbero stati uccisi solo 66 esponenti di spicco di Al-Qaeda o di altri gruppi fondamentalisti. Per il "Bureau of Investigative Journalism", fino all’agosto 2011 i bambini assassinati dai droni sono stati almeno 168, mentre proprio due giorni fa la stessa organizzazione londinese ha pubblicato una nuova ricerca che ha evidenziato come gli americani colpiscano ripetutamente anche i soccorritori che giungono sui luoghi dove avvengono le incursioni, così come i funerali delle vittime. Ancora più inquietante è infine lo studio fatto dall’influente think tank di Washington, Brookings Institution, secondo il quale un incursione dei droni nell’area tribale pakistana miete in media dieci vittime civili per ogni presunto terrorista ucciso.
Oltretutto, le vittime delle incursione, al contrario di quanto sostiene il governo americano sia pure in maniera non ufficiale, raramente sono operativi di spicco di Al-Qaeda oltre il confine afgano, bensì quasi sempre militanti di basso livello che mai avrebbero la possibilità di rendersi responsabili di attacchi terroristici negli USA e che invece combattono esclusivamente contro l’occupazione americana del loro paese.
La questione più importante relativa all’uscita pubblica di Obama della settimana scorsa è legata in ogni caso alle motivazione che hanno spinto il presidente a rompere il silenzio sui droni. L’ammissione può essere in parte legata al peggioramento dei rapporti con il governo pakistano nell’ultimo anno, così da esercitare pressioni su Islamabad, da dove pubblicamente le incursioni vengono condannate anche se in privato sono tollerate o, addirittura, apertamente incoraggiate.
Soprattutto, però, le dichiarazioni del presidente democratico fanno parte di una strategia propagandistica tesa a far accettare all’opinione pubblica occidentale come normali i metodi criminali utilizzati dall’establishment militare e dell’intelligence a stelle e strisce in nome della guerra al terrore.
Già lo scorso ottobre, poi, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, aveva aperto la strada alla recente ammissione di Obama, facendo riferimento all’esistenza di un programma con l’impiego di droni da parte della CIA, pur senza specificare dove avvengono gli attacchi e quali finalità hanno.
Forse non a caso, inoltre, l’uscita di Obama è giunta a quasi un mese esatto di stanza dalla sua firma posta su un provvedimento approvato dal Congresso che ha sancito la legalità delle detenzioni a tempo indefinito presso l’autorità militare per quei cittadini americani e stranieri accusati dalla Casa Bianca di avere legami con il terrorismo, anche senza prove né processo o accuse formali.
Lo stesso Obama, d’altra parte, lo scorso settembre aveva indicato come un successo della sua amministrazione l’esecuzione mirata con un drone in Yemen di Anwar al-Awlaki, il predicatore fondamentalista con cittadinanza americana, e del figlio appena sedicenne.
Con il Pentagono costretto nel prossimo futuro a consistenti tagli di bilancio, infine, l’utilizzo dei droni diventerà per gli Stati Uniti un metodo sempre più economico e senza vittime americane per continuare a condurre le proprie operazioni militari nelle aree più strategiche del globo. In questo senso, probabilmente, va in parte inteso anche l’annuncio fatto a sorpresa qualche giorno fa dallo stesso Panetta, secondo il quale le truppe USA da combattimento in Afghanistan termineranno il loro compito già entro la metà del 2013, vale a dire con un anno e mezzo di anticipo sulla data stabilita ufficialmente da Obama per il ritiro delle forze di occupazione dal paese asiatico.
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di Vincenzo Maddaloni
Ci vuole tutto l’afflato del flatulente neocolonialismo britannico per sospingere il cacciatorpediniere Dauntless (letteralmente, Intrepido), la più moderna e sofisticata nave da guerra della Royal Navy nelle acque davanti a Port Stanley (Puerto Argentino, secondo la denominazione in spagnolo) la capitale delle isole Falkland (Malvinas, in spagnolo), trent’anni dopo la guerra con l’ Argentina.
Quella del 1982 nei mari del Sud non fu una scaramuccia, sebbene le operazioni militari fossero durate meno di tre mesi. Si conclusero il 14 di giugno con la resa degli argentini. La Gran Bretagna perdette 250 uomini, 6 navi, 9 aerei Harriers, 10 elicotteri che andarono a fondo con la nave che li trasportava e, consumò nell' operazione un miliardo e 600 milioni di sterline. L'Argentina perse ottocento uomini, fra i quali 368 marinai dell' incrociatore “General Belgrano”e, un considerevole numero di aerei.
Di tutte le guerre combattute dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quella fu probabilmente la più assurda e la più inutile. L'oggetto della contesa è il remoto arcipelago delle Falkland–Malvinas al largo delle coste della Patagonia oltre alle ancor più isolate Georgia del Sud e isole Sandwich meridionali, tutti territori d'oltremare britannici rivendicati dal governo di Buenos Aires.
Il 19 marzo del 1982, cinquanta argentini sbarcarono sulla Georgia del Sud e vi piantarono la bandiera nazionale. E’ l’azione che viene indicata dagli storici come la prima azione offensiva della guerra, e fu per gli argentini la sola che ebbe pieno successo. Le Malvinas furono conquistate in poco più di undici ore con un’unica vittima e cinque feriti. Le isole erano abitate da tremila cittadini britannici di origine prevalentemente scozzese, non avevano una particolare importanza strategica, vivevano di pastorizia, pesca e commercio del legname. Nulla, in linea di principio, avrebbe dovuto impedire un accordo anglo-argentino per l'amministrazione congiunta dell’arcipelago, ma la vera causa della crisi fu la situazione politica a Buenos Aires.
L'Argentina era a quel tempo governata da una Giunta militare - retta dal generale Leopoldo Galtieri - che aveva brutalmente eliminato i suoi oppositori e che si era dimostrata incapace di raddrizzare le sorti economiche del Paese e di garantire ai suoi cittadini una decorosa esistenza. Quando l'inflazione balzò al 160 per cento e la disoccupazione e la recessione registrarono aumenti preoccupanti, la Giunta decise che la conquista delle Malvinas avrebbe distratto la pubblica opinione e messo il regime al riparo da eventuali soprassalti rivoluzionari.
All'inizio sembrò tutto facile. I generali però, non aveva fatto i conti con l'orgoglio britannico e con la tenacia di Margaret Thatcher, primo ministro dal 1979, che in breve tempo mise in piedi un corpo di spedizione composto da sei mila uomini, trenta navi da guerra, sedici navi-appoggio e un consistente sostegno aereo.
Racconta la leggenda che non poco contribuì a quella reazione l’intervento di sir Henry Leach, all'epoca Primo Lord del Mare e capo di Stato Maggiore della Royal Navy che, su una esplicita richiesta del Primo Ministro riguardo alla possibilità di riprendersi le isole, disse: «Sì, possiamo riprendercele», e poi aggiunse «e dobbiamo». La Thatcher rispose: «Perché?», e Leach completò: «Perché se non lo facciamo, in pochi mesi vivremo in un Paese diverso la cui parola non conterà più niente». http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_delle_Falkland.
Le operazioni militari si conclusero il 14 giugno 1982 con la disfatta delle forze argentine e con conseguenze politiche che segnarono profondamente ambedue i Paesi. Tra gli inglesi si diffuse un'ondata di patriottismo che, ridando forza ai conservatori suggellò il soprannome di “Lady di ferro” del primo ministro Margaret Thatcher per molti anni ancora. Dall’altra parte dell’oceano, gli argentini cominciarono a chiamare l’Inghilterra “la Perfida Albione”, con quel spregiativo epiteto la paternità del quale è attribuita a Napoleone e che Mussolini riesumò facendolo diventare d’uso comune anche da noi. Naturalmente non bastò a voltare pagina.
Nello stesso giorno nel quale fu diffusa la notizia della sconfitta, cominciarono le manifestazioni di protesta a Buenos Aires, a Còrdoba, e nelle altre città più importanti del Paese. Il 18 giugno il generale Galtieri diede le dimissioni, il suo governo era durato appena sei mesi. Prese il suo posto un altro generale, Reynaldo Bignone, e la prima cosa che fece fu di nominarsi presidente a vita. Invece, anche lui ebbe vita breve, perché non riuscendo a sedare le piazze non ebbe altra scelta che indire (1983) le libere elezioni.
Reynaldo Bignone fu sconfitto e con lui si dissolse la Junta militare, che nel 1976 era arrivata al potere con un colpo di Stato ai danni di Isabelita Perón, ordito dal generale Jorge Rafael Videla il quale sospese le garanzie costituzionali, dissolse le associazioni politiche e sindacali e fece della “Escuela Superior de Mecánica de la Armada (ESMA)” uno dei centri di detenzione clandestini e di repressione senza precedenti (i desaparicidos, ricordate?). Erano i tempi nei quali in Cile governava il generale Pinochet e le giunte militari occupavano i palazzi di governo di molti paesi del Sud America, tant’è che il continente era denominato “ il cortile degli USA”.
Con l’elezione a presidente (ottobre 1983) di Raul Alfonsin, 56 anni, membro della Unión Cívica Radical e schierato su posizioni socialiste, l’Argentina entrò nella democrazia. Durante il suo governo, uno dei più duraturi della storia recente del Paese, molti protagonisti di spicco del regime militare vennero arrestati, processati per crimini contro l’umanità. Tuttavia, Alfonsin, primo presidente liberamente eletto, tentò di governare con un programma improntato alla moderazione, nel tentativo di non surriscaldare troppo la rabbia che gravava sul Paese in quel momento. Ricordo che dai tre mesi di conflitto la popolazione di Buenos Aires ne era uscita stremata.
Si tenga a mente che a quei tempi Internet non esisteva, la radio a onde corte era proprietà di pochi eletti, i giornalisti argentini erano minacciati dalla censura, a quelli stranieri era interdetto il fronte. Sicché la propaganda fatta dai giornali e dalla radio controllati dai generali era stata così esaltante e perciò falsa, che la presa di coscienza della sconfitta fu per la gente comune ancora più lacerante delle rivelazioni sulle nefandezze compiute dai generali della Junta.
I morti dell’incrociatore “Belgrano” divennero l’emblema della spietatezza britannica di cui se ne conserva - immutato - il ricordo. Perché fino a oggi non c’è nave che sia mai stata affondata da un sommergibile nucleare in tempo di guerra come accadde col “Belgrano”, sebbene esso navigasse al centro di un piccolo convoglio, molto distante dai 370 chilometri (200 miglia) della “Zona di Interdizione Totale” fissata dai britannici.
Tuttavia essi lo classificarono come una minaccia e, prima di aprire il fuoco, il comandante Chris Wreford-Brown volle l’autorizzazione della Royal Navy. Fu lo stesso primo ministro Margaret Thatcher a concedergliela. Alle 15,57 del 2 maggio, il “Conqueror” lanciò tre siluri, due dei quali colpirono il “General Belgrano”. La fotografia con l’incrociatore che cominciava a inabissarsi, circondato da poche scialuppe in bilico sulle onde, fece il giro del mondo. La data e l’ora dell’attacco sono incisi sul “Monumento a los caídos en las Malvinas” assieme ai nomi dei 358 marinai, dei quali si riuscirono a recuperare soltanto pochi corpi.
Ricordo che quando incontrai il presidente Alfonsin (l’avevo conosciuto dopo la caduta di Allende, quando (1973) l’Argentina era governata da Juan Domingo Perón) egli mi concesse un po’ più del suo tempo. Per prima cosa mi disse che quella nave, costruita sul modello dell’ incrociatore “Garibaldi”, rappresentava uno scorcio della Storia del paese; questo, a parer suo, spiegava la reazione popolare che poteva sembrare esagerata a chi argentino non è. Poi mi accennò alla difficoltà che avrebbe incontrato per pacificare gli animi così duramente provati dalla guerra e dai tanti anni di repressione dei militari. Mi parlò delle Madres de Plaza de Mayo, delle madri dei desaparecidos, (i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare), che ogni giorno, sotto i balconi della Casa Rosada, il Palazzo presidenziale, invocavano giustizia per i figli uccisi.
Infine, mi completò il quadro confidandomi che non poteva contare nemmeno sul sostegno della Chiesa, poiché essa s’era troppo compromessa durante il governo dei militari. Tuttavia, il presidente Alfonsin era convinto che nulla, in linea di principio, avrebbe dovuto impedire un accordo anglo-argentino che assicurasse conclusa la guerra un futuro di tranquillità. Ma aggiunse che gli Stati Uniti - o meglio il presidente Ronald Reagan - non s’era affatto mosso per trovare una soluzione definitiva della controversia, benché proprio grazie ad essa si fosse sbarazzato della Junta che era diventata per lui troppo ingombrante.
Infatti, la Casa Bianca dapprincipio rimase neutrale, anche perché c’erano marcate differenze di vedute tra i vari esponenti dell'amministrazione Reagan. Poi a due settimane dall’inizio del conflitto, sebbene violasse la Dottrina Monroe di cui era il garante, il presidente Ronald Reagan dichiarò al mondo che i generali erano i veri responsabili del fallimento della mediazione e che, pertanto, gli Stati Uniti avrebbero supportato la Gran Bretagna. Il sostegno superò l’immaginabile quando il segretario alla Difesa Casper Weinberger offrì agli inglesi persino l'utilizzo di una loro portaerei. Sicché, a guerra conclusa, sia a Weinberger che al presidente Reagan venne concessa la medaglia di Cavaliere Comandante dell'Impero Britannico, per aver “contribuito alla vittoria”. http://it.wikipedia.org/wiki/Dottrina_Monroe
Dopo trent’anni di disinteresse per le sorti di un arcipelago che conta tuttora più pecore che abitanti, la stampa inglese gli sta ridedicando ampio spazio. Il cacciatorpediniere Dauntless, che dovrebbe raggiungere le isole nei prossimi giorni, arma un radar avanzatissimo e 48 missili Sea Viper che, secondo una fonte della Marina britannica raccolta dal Daily Telegraph, «possono distruggere tutto quello che vola». Un'altra fonte della Marina ha precisato al quotidiano che la nave «può abbattere i caccia non appena decollano dalle loro basi».
Persino il principe di Galles, duca di Cambridge ed erede al trono d’Inghilterra, William, è dal 2 febbraio nella capitale Port Stanley (Puerto Argentino secondo la denominazione in spagnolo), dove è atterrato dopo un volo di diciotto ore dalla base aerea inglese di Brize Norton. Vi trascorrerà le prossime sei settimane, con il compito di elicotterista, come ha chiarito il quotidiano Sun.
Pennacchi e cannoni, niente male come scenario per ridare nuovo smalto alle ambizioni di potenza post imperiale, e per ricordare al mondo che, al Regno Unito non è mai venuta meno la capacità di proiettare con successo la propria potenza militare, anche ad enormi distanze dalla madrepatria. Insomma, sembrerebbe davvero una “Perfida Albione” di nome e di fatto.
Intanto per non abbassare la guardia, i giornali titolano: “Falkland, terra inglese di fuoco e di tensione”; “Regno Unito contro Argentina?”; "Oggi come ieri?" Sicuramente sono ispirati dalle dichiarazioni della Rockhopper Exploration, compagnia petrolifera britannica, che ha annunciato un investimento di oltre due miliardi di dollari per un progetto di estrazione del greggio al largo delle coste delle Falkland-Malvinas. Siccome dalle prime stime risulta che potrebbero essere pompati, 120 mila di barili al giorno, s’è scatenata di nuovo la disputa per il controllo dell’arcipelago.
Si sono mossi per primi il Brasile, l’Uruguay, il Paraguay e naturalmente l'Argentina, avvertendo che chiuderanno i propri porti alle navi battenti la bandiera di Puerto Argentino. E, a cascata, si è aggiunto il resto dell’America Latina e dei Caraibi che, (come da nota ufficiale diramata sabato scorso al vertice dell'ALBA) vede Venezuela, Nicaragua, Ecuador, Bolivia, Cuba, Repubblica Dominicana, Isole Grenadine, San Vicente, Antigua e Barbuda schierate al fianco di Buenos Aires nell’impedire il transito delle imbarcazioni battenti bandiera delle Malvinas, definita “bandiera illegale”.
A Buenos Aires si sono moltiplicate le dimostrazioni anti-britanniche con tanto di bandiere dell'Union Jack date alle fiamme dinnanzi all'ambasciata del Regno Unito. La stessa presidente argentina, Kristina Kirchner, non è andata di certo per il sottile quando ha dichiarato che «Il Regno Unito è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma non rispetta una sola delle disposizioni» e ha aggiunto che «si stanno portando via le nostre risorse petrolifere e ittiche. E quando avranno bisogno di nuove e maggiori risorse, forti come sono, andranno a prendersele dove e come vogliono».
Le ha replicato sul giornale lord West, ex primo ammiraglio e veterano delle Falkland, confermando al Daily Telegraph che se gli argentini «facessero follie, il Dauntless stando appena un po’ al largo dalla base aerea sull’isola gli potrebbe abbattere tutti i caccia; e quindi, la nostra capacità di fuoco dovrebbe servire a far riflettere Buenos Aires», ha concluso il Lord. Insomma, risiamo alle solite. Almeno così appare.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. "Mano sul cuore, vi sorprendete che il capitano fosse un italiano? Vi potete immaginare che manovre del genere e poi l'abbandono della nave vengano decise da un capitano tedesco o britannico"? Così il giornalista tedesco Jan Fleischhauer ha introdotto il suo personalissimo commento alla vicenda della Costa Concordia, che ha coinvolto turisti provenienti da più di 60 nazioni. Pubblicato dal sito Spiegelonline, l’edizione virtuale dell’autorevole settimanale Der Spiegel, il pezzo ha tutto il gusto della provocazione e non poteva non creare un piccolo caso mediatico tra Italia e Germania.
Perché, a quanto pare, l’articolo di Fleischhauer ha risvegliato l’orgoglio semidormiente del popolo italiano: reazione comprensibile, visto il tono ironico e provocatorio che il giornalista mantiene per tutto l’articolo: a un livello tale che viene difficile distinguere tra la critica vera e propria e l’ironia malriuscita. “Conosciamo tipi del genere dalle vacanze al mare, maschi bravi con grandi gesti, capaci di parlare con le dita e con le mani, in principio gente incapace di fare del male, ma bisognerebbe tenerli lontani da macchinari pesanti, come possiamo vedere”, ha scritto Fleischhauer. “Bella figura è lo sport popolare di massa italiano, che significa impressionare gli altri; anche Schettino voleva fare bella figura, ma ha trovato uno scoglio sulla sua strada”.
Grande lo sdegno dei cittadini italiani che risiedono in Germania. L’ambasciatore italiano a Berlino, Michele Valensise, ha inviato una lettera alla redazione di Der Spiegel, rispondendo direttamente e diplomaticamente a Fleischhauer. “Le parole del giornalista tedesco sono infondate - scrive Valensise - e provocano rabbia e meraviglia”. Valensise non manca di invitare il giornalista a visitare il nostro Paese per godere della nostra ospitalità e del nostro famoso brio.
Eppure, nonostante il tono di sfida apparente, il pezzo di Fleischhauer potrebbe essere letto in tutt’altra chiave. Più che evidenziare i difetti dell’italiano medio, l’articolo punta a un’ampia riflessione sugli stereotipi nazionali: così come quelli sessuali, i cliché nazionali non sono legittimi - e dovrebbero in qualche modo essere stati abbattuti - ma ancora esistono. E sono ancora percepibili nella quotidianità. Tant’è vero che le guide turistiche, a volte, si orientano a queste disuguaglianze stereotipate per introdurre il turista alla tipologia culturale di un luogo.
A questo proposito Fleischhauer cita lo stereotipo che gli inglesi ancora oggi hanno dei tedeschi: un popolo notoriamente “senza humor”, che viene ancora idealmente associato ai guerrieri nomadi medievali unni. Fleischhauer dedica al tema l’intero secondo paragrafo del suo pezzo. Difficile, per noi italiani, non riconoscere nei vicini teutonici lo stereotipo del guerriero “barbaro” medievale tutto d’un pezzo, senza senso dell’umorismo, e non concederci al riguardo un mezzo sorriso ironico. Basta pensare a un famoso film trash degli anni ottanta con Diego Abantantuono.
Per Fleischhauer, in conclusione, gli stereotipi trovano ancora oggi profondo riscontro nella realtà e segnalano alcune differenze sostanziali che é difficile eliminare: la difficoltà che i capi di Stato incontrano nel risolvere la crisi del debito in Europa ne è la prova. Tesi del tutto discutibile, forse troppo semplicistica, ma che non ha nulla a che fare con l’attacco razzista che parte dell’Italia ha visto nella malriuscita ironia del giornalista tedesco.
“A noi Schettino, a voi Auschwitz”: non ha usato mezzi termini Alessandro Sallusti, il direttore del berlusconiano Il Giornale, nella sua risposta mediatica allo Spiegelonline. “Ci definisce un popolo di codardi - scrive Sallusti - perché gli italiani non sono una razza. Loro sì, invece, e l’hanno dimostrato assieme ad Hitler”. Sallusti fa anche riferimento alle vittime della catastrofe Costa Concordia: se il comandante Schettino ne ha provocati 30, aggiunge, i tedeschi dovrebbero rendere conto per sei milioni.
E’ vero, Fleischhauer ha parlato anche di razze. Definire Schettino attraverso la caricatura dell’italiano medio potrebbe essere “razzista”, ha scritto il giornalista tedesco, precisando tuttavia che “non è chiaro fino a che punto l’italiano possa essere considerato una razza”. Frase aperta a numerose interpretazioni, di cui la stampa italiana ne ha scelta una. Ma razza è un concetto molto più ampio di nazione, almeno si spera, e non si usa parlare di razza italiana, francese o olandese. Razza è un concetto antiquato e oggi si preferisce parlare di cultura per quei piccoli spazi racchiusi entro i confini di uno Stato. La frase di Fleischhauer potrebbe essere interpretata anche così, pur non potendo escludere una vena xenofoba che attraversa i tedeschi da sempre.
Forti però le parole de Il Giornale, un po’ troppo. Perché forse Spiegelonline, famoso per il suo spirito di provocazione, voleva solo giocare con le caricature. E vedere come le caricature ancor oggi possono essere inserite nel tessuto dei fatti quotidiani, della cronaca, della crisi del debito. Se proprio vogliamo essere cattivi, al massimo l’articolo di Spiegelonline dimostra la veridicità dello stereotipo contro i tedeschi: che non possono proprio vantare un particolare senso dell’umorismo. Sallusti, invece, dovrebbe ricordare che la storia immonda della Germania nazista (cui fa riferimento) s’incrocia con quella altrettanto immonda dell’Italia fascista. E che gli eredi politici del fascismo, negli ultimi diciassette anni, hanno governato l’Italia insieme al suo editore e con il sostegno sperticato del giornale da lui diretto. O no?
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di Carlo Musilli
Facevano più o meno venti gradi sotto zero, ma il freddo non li ha fermati. Sabato migliaia di cittadini russi si sono ritrovati nel cuore di Mosca per urlare in faccia al Cremlino la loro rabbia contro il primo ministro Vladimir Putin. Il potere non li ha ascoltati, ma forse stavolta si è spaventato. L'opposizione ha delle richieste precise: la liberazione dei detenuti politici, nuove elezioni legislative alla Duma, riforme politiche che diano più libertà ai partiti, una sfilza di condanne per i responsabili dei brogli elettorali che lo scorso 4 dicembre hanno regalato al partito dello Zar, Russia Unita, una vittoria priva di qualsiasi credibilità.
Se il governo rifiuterà di assecondare i manifestanti - com'è ovvio che accadrà - una nuova protesta andrà in scena il prossimo 26 febbraio. La data è tragicamente vicina al giorno delle elezioni presidenziali russe - in calendario per il 4 marzo - in cui il buon Vladimir è ancora una volta il super favorito.
Al di là degli effetti politici che potrà avere, quello che sta accadendo in Russia ha indubbiamente qualcosa di rivoluzionario, sia per l'assoluta novità del fenomeno, sia per le proporzioni inaspettate che sta assumendo. L'ultima mobilitazione moscovita - cui hanno fatto eco cortei di protesta in almeno altre 200 città del Paese - rappresentava un banco di prova fondamentale per misurare la forza del recente tsunami antigovernativo. E il risultato dell'esame è andato ben oltre le aspettative.
Secondo gli organizzatori, a marciare intonando cori contro Putin sono state addirittura 120 mila persone. Qualcosa di straordinario, considerando che nelle prime tre manifestazioni di dicembre la quota complessiva dei partecipanti non aveva superato le 100 mila unità. Eppure già in quei casi si era trattato delle più vaste contestazioni degli ultimi 15 anni.
Come al solito, la guerra dei numeri che si è subito scatenata ha avuto risvolti grotteschi, con la polizia che ha parlato di soli 35 mila manifestanti. In realtà, quale che sia la cifra esatta, è indubbio che per paralizzare strade e piazze di Mosca non basti un corteo qualsiasi. Tanto è vero che stavolta il Cremlino non ha potuto far finta di niente. Nemmeno Putin se l'è sentita di liquidare la vicenda con una delle sue solite battutine sprezzanti. Per la prima volta da molto tempo, in Russia sta accadendo qualcosa di troppo grande ed evidente per essere sminuito dalla propaganda, strozzato dalla censura.
Ora, a ben vedere la strada politica che questa maxi-opposizione sarà in grado di percorrere non dovrebbe arrivare troppo lontano. Al suo interno le frange sono troppe e troppo diverse fra loro: oltre ai senza-partito (la componente maggioritaria), i cortei contro lo Zar accolgono indifferentemente dai liberali ai verdi, dai comunisti agli anarchici, fino ai nazionalisti xenofobi. Un'alleanza sulla carta improponibile, che però ancora resiste, tenuta insieme da un'unica causa: ottenere libere elezioni e scongiurare il rischio di un'altro decennio putiniano.
Pur non potendo contare su un programma politico nemmeno vagamente unitario, né tantomeno riuscendo a esprime un singolo candidato alternativo a Re Vladimir, gli oppositori potrebbero comunque ottenere un risultato importante: evitare che la partita delle presidenziali si chiuda al primo turno. Sarebbe un successo grandioso, perché priverebbe Putin della sua aura di leader supremo, carismatico e incontrastato, indebolendo la sua posizione agli occhi della piramide statale che fin qui l’ha sostenuto.
Lo stesso primo ministro ha ammesso i suoi timori legati ai recenti avvenimenti: "Arrivare al secondo turno - ha detto - comporterà inevitabilmente la continuazione di una lotta per il potere e una destabilizzazione della situazione politica". Parole da terrorismo psicologico, che la dicono lunga sul concetto che lo Zar ha dello Stato.
Eppure, che la situazione non sia più perfettamente sotto controllo è ormai evidente. Lo dimostra con chiarezza la grottesca manifestazione parallela e pro-Putin andata in scena sempre lo scorso sabato, sempre a Mosca. In questo caso, naturalmente, le cifre sono invertite: secondo la polizia hanno sfilato in favore del leader 138 mila persone, mentre ad ascoltare fonti indipendenti sarebbero state appena 20 mila.
Quale che fosse il loro numero, i fedelissimi di Vladimir sono arrivati nella capitale su decine di pullman appartenenti a vari enti statali. Un dettaglio che conferma i sospetti sull'organizzazione governativa dell'ingloriosa parata. Sembra che diversi impiegati pubblici abbiano visto la loro fedeltà premiata con buste paga più generose o giorni di ferie aggiuntivi. I meno disponibili, invece, sarebbero stati minacciati di licenziamento. A ben vedere, per chi ha il gusto del paradosso, nelle stesse ore e a breve distanza sono state allestite le rappresentazioni della primavera e dell'autunno russo.
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di Michele Paris
L’escalation di minacce e intimidazioni da parte americana verso l’Iran sembra non conoscere alcuna tregua in queste prime settimane del nuovo anno. Alle misure già adottate di recente, il Congresso di Washington sta infatti per aggiungere una nuova serie di sanzioni economiche che, se implementate, produrrebbero effetti ancora più disastrosi per la Repubblica Islamica. Parallelamente, da Israele continuano a giungere preoccupanti segnali di una possibile aggressione militare preventiva contro le installazioni nucleari iraniane, con conseguenze potenzialmente rovinose per la stabilità dell’intero Medio Oriente.
Il nuovo round della guerra economica lanciata contro Teheran è andato in scena qualche giorno fa alla commissione del Senato americano con competenza sulle questioni bancarie, la quale ha approvato all’unanimità un provvedimento per imporre l’espulsione dell’Iran dalla rete mondiale interbancaria SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication). La misura impedirebbe di fatto all’Iran di ricevere quotidianamente miliardi di dollari in entrate dall’estero, trasferiti al sistema bancario locale tramite questo network.
Le nuove sanzioni andrebbero ad aggiungersi a quelle firmate da Obama il 31 dicembre scorso e che penalizzano tutte le istituzioni pubbliche e private che fanno affari con la Banca Centrale iraniana. Pochi giorni fa, inoltre, anche l’Unione Europea aveva preso una propria iniziativa, imponendo un embargo sul petrolio proveniente dall’Iran che entrerà in vigore definitivamente il primo luglio.
Il Congresso americano, fortemente influenzato dalle lobby israeliane di estrema destra, ha così mostrato nuovamente di non nutrire alcuno scrupolo nel suo tentativo di spingere l’Iran verso un cambiamento di regime. A promuovere la più recente misura punitiva, tuttavia, è stata in particolare l’organizzazione legata agli ambienti neo-con, United Against Iran, la quale da tempo funge da mezzo di diffusione di propaganda e menzogne contro l’Iran con il pretesto di impedire a Teheran di giungere a costruire un ordigno nucleare.
Per il suo presidente, Mark D. Wallace (già ambasciatore presso l’ONU per l’amministrazione di George W. Bush, nonché membro del team legale dell’ex presidente repubblicano durante il riconteggio delle elezioni presidenziali del 2000 in Florida), la SWIFT starebbe peraltro contravvenendo da qualche tempo ad altre sanzioni già approvate contro l’Iran e perciò sarebbe necessario che interrompesse ogni legame d’affari con Teheran.
La legge in discussione a Washington - Iran Sanctions, Accountability and Human Rights Act -passerà ora all’esame dell’aula del Senato, dove dovrebbe essere approvata senza difficoltà. Oltre a costringere la società con sede a Bruxelles ad escludere l’Iran dalla sua rete interbancaria, sono previste anche altre sanzioni. Tra di esse spicca l’obbligo per tutte le compagnie quotate nella borsa americana di rivelare qualsiasi legame con aziende o individui iraniani sulla lista nera di Washington e il divieto di rilasciare visti d’ingresso per quegli studenti iraniani che intendono intraprendere negli USA un percorso di studi nell’ambito energetico.
Nonostante le incessanti pressioni, il governo di Teheran continua ad alternare dure risposte alle provocazioni con segnali distensivi. Qualche giorno fa l’Iran ha ad esempio ospitato una delegazione di ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), mentre ha più volte manifestato la disponibilità a riaprire i colloqui sulla questione del nucleare.
Se gli Stati Uniti sono dunque ufficialmente in prima linea sul fronte delle sanzioni, è invece Israele che alimenta le speculazioni su un possibile imminente attacco preventivo in territorio iraniano. Venerdì, il Washington Post ha riportato i timori espressi anche dal governo americano per un’eventuale azione unilaterale israeliana che potrebbe scatenare un conflitto ben più ampio nella regione. Nel corso di un meeting NATO a Bruxelles, il Segretario alla Difesa, Leon Panetta, giovedì ha infatti dichiarato che “Israele sta prendendo in considerazione un attacco mentre noi abbiamo manifestato le nostre preoccupazioni”.
Le più recenti apprensioni sarebbero state provocate dalle parole del Ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, in una conferenza nella città costiera di Herzliya. Per l’ex leader laburista il tempo a disposizione per impedire all’Iran di produrre un’arma atomica sta scadendo, dal momento che il regime sta trasferendo le attrezzature relative al proprio programma nucleare in una struttura-bunker presso la località di Qom. Chiudendo il suo intervento di fronte ai vertici militari e dell’intelligence, Barak sarebbe poi passato significativamente dalla lingua ebraica all’inglese, ammonendo che “più tardi è troppo tardi”. Una frase che rappresenta con ogni probabilità un messaggio non troppo velato a quanti, soprattutto a Washington, chiedono a Israele di avere pazienza e di aspettare gli effetti delle sanzioni.
Inoltre, il recente rinvio dell’esercitazione congiunta tra militari americani e israeliani (“Austere Challenge 12”), inizialmente prevista per il mese di aprile, secondo alcuni non sarebbe stato un segnale per stemperare la tensione con l’Iran., bensì una prova stessa delle intenzioni di Tel Aviv di attaccare in primavera o all’inizio dell’estate. Il governo israeliano, infatti, avrebbe chiesto di spostare l’esercitazione perché essa avrebbe sottratto alle proprie forze armate risorse importanti da impiegare in un’operazione militare contro la Repubblica Islamica.
La contrarietà americana pare essere stata esposta direttamente al premier Netanyahu e allo stesso Barak dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey. Il 20 gennaio scorso, quest’ultimo avrebbe riferito al governo israeliano che gli Stati Uniti non prenderanno parte ad una guerra contro l’Iran scatenata da Tel Aviv senza l’OK di Washington. In precedenza, anche il numero uno del Pentagono in un’intervista alla CBS aveva affermato che, in caso di attacco israeliano, gli USA si dedicherebbero esclusivamente a proteggere le proprie forze armate da eventuali ritorsioni da parte iraniana.
Il governo israeliano non sembra comunque scoraggiato dalla riluttanza americana e, anzi, sono in molti a sostenere che il governo di estrema destra guidato da Netanyahu voglia deliberatamente provocare frizioni con l’amministrazione Obama per mettere sotto pressione la Casa Bianca durante il periodo elettorale e ottenere il via libera all’attacco militare nei prossimi mesi.
Israele, d’altra parte, non sembra temere particolarmente la reazione di Teheran, ricordando agli alleati americani come un attacco simile contro un reattore nucleare in Siria nel 2007 non provocò alcuna rappresaglia. Secondo l’opinionista del Washington Post vicino agli ambienti d’intelligence a stelle e strisce, David Ignatius, calcolando eventuali razzi lanciati dall’Iran e da Hezbollah in Libano, Israele stima di dover “assorbire” non più di 500 vittime.
Per lo stesso Ignatius, il quale avanza anche l’ipotesi che Tel Aviv veda addirittura positivamente il mancato coinvolgimento americano in un conflitto con l’Iran, il piano di aggressione israeliano prevede una sorta di guerra lampo di pochi giorni con incursioni aeree limitate, seguite da un cessate il fuoco negoziato dall’ONU. Uno scenario, questo, fin troppo ottimistico e che, sovrapponendosi alle tensioni in Siria e agli effetti della Primavera Araba, quanto meno solleva più di una perplessità.
Anche se il messaggio trasmesso dagli USA a Israele appare insolito, l’amministrazione Obama e il complesso militare americano non sembrano in realtà nutrire particolari scrupoli per un’azione militare contro l’Iran. I vertici del governo e delle forze armate continuano infatti a sostenere che nei confronti della Repubblica Islamica ogni “opzione rimane sul tavolo”, mentre nelle ultime settimane la presenza militare americana nel Golfo Persico è notevolmente aumentata in vista di un possibile conflitto.
Quello che Washington non desidera è un attacco preventivo, perché estremamente impopolare. Piuttosto, un eventuale intervento armato dovrebbe essere legittimato da un casus belli, fornito dalla reazione di Teheran ad una delle svariate provocazioni che gli Stati Uniti e i loro alleati stanno mettendo in atto da tempo. In alternativa, la Casa Bianca continua a puntare su sanzioni punitive che colpiscono l’economia iraniana e indeboliscono il regime.
Nel frattempo, la propaganda anti-iraniana prosegue senza sosta. Qualche giorno fa, il capo dell’intelligence statunitense, James Clapper, nel corso di un’audizione al Congresso, senza presentare alcuna prova, ha espresso timori per la possibilità che l’Iran possa pianificare attentati terroristici sul territorio americano.
Venerdì, infine, il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo dal titolo “Gli USA temono legami dell’Iran con Al-Qaeda”, secondo il quale Teheran avrebbe recentemente liberato e fornito un qualche appoggio materiale a cinque membri di alto livello appartenenti all’organizzazione che fu di Osama bin Laden e che erano agli arresti domiciliari fin dal 2003. Il pezzo, che considera solo sommariamente le note differenze strategiche tra l’Iran sciita e il radicalismo sunnita di Al-Qaeda, fa parte della campagna diffamatoria in atto da tempo nei confronti di questo paese, così da preparare l’opinione pubblica internazionale alle prossime azioni volte a provocare la caduta di un regime sempre meno gradito.