di Michele Paris

Il Senato degli Stati Uniti ha licenziato lunedì sera a tarda ora un provvedimento di emergenza che ha evitato un’imminente paralisi delle agenzie e degli uffici federali, nuovamente minacciati dalla mancanza di finanziamenti. Il più recente stallo al Congresso americano era scaturito dalla proposta di stanziare fondi straordinari per far fronte alle conseguenze dei ripetuti disastri naturali avvenuti negli ultimi mesi in varie parti del paese; un’emergenza sfruttata politicamente dai repubblicani per cercare di estrarre ulteriori tagli alla spesa pubblica.

In una vicenda che si è sostanzialmente risolta nell’ennesima capitolazione del Partito Democratico di fronte alle richieste di quello Repubblicano, alla fine da Washington non è stato praticamente stanziato nessun dollaro extra per le attività assistenziali e di ricostruzione svolte dalla protezione civile americana (FEMA, Federal Emergency Management Agency).

La sezione riguardante la FEMA faceva parte di un pacchetto di bilancio destinato a finanziare le spese federali fino al 18 novembre prossimo. Per l’agenzia governativa che si occupa di rispondere alle catastrofi naturali negli USA erano previsti un totale di 3,65 miliardi di dollari, di cui 2,65 da sborsare all’inizio del prossimo anno fiscale - che inizierà il 1° ottobre - e un miliardo in fondi straordinari per quello tuttora in corso.

Per dare il via libera al miliardo addizionale, i repubblicani pretendevano però che venissero tagliati 1,6 miliardi assegnati ad un programma federale di incentivi alla produzione di automobili a basso consumo energetico, particolarmente popolare tra i democratici. Di fronte alla ferma opposizione di questi ultimi, la Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana venerdì scorso aveva comunque proceduto a votare un provvedimento comprensivo dei tagli, pur senza alcuna possibilità di superare l’ostacolo del Senato.

L’impasse nella camera alta del Congresso è stata alla fine superata, evitando il pericolo di “shutdown” del governo federale, nella giornata di lunedì, quando la FEMA ha fatto sapere di aver reperito 114 milioni di dollari, destinati ad altri progetti ma inutilizzati, che dovrebbero consentirle di operare fino a venerdì prossimo. Superato l’ostacolo, il Senato ha così approvato il budget temporaneo con 79 voti a favore e 12 contrari. Il voto definitivo della Camera, come ha confermato lo speaker John Boehner, si terrà settimana prossima, al termine di una sospensione dei lavori di una settimana.

Grazie all’accordo bipartisan, la FEMA potrà così ottenere i 2,65 miliardi di dollari assegnati al suo bilancio per l’anno fiscale 2011-2012 a partire da sabato prossimo. Senza il miliardo extra, tuttavia, in questi ultimi giorni di settembre le sue operazioni negli USA risulteranno notevolmente ridotte, mentre non saranno possibili interventi in caso di nuove calamità.

La FEMA, oltretutto, è penalizzata da una cronica carenza di fondi e, alla luce del moltiplicarsi delle emergenze nell’ultimo periodo, il suo budget dovrà con ogni probabilità essere nuovamente discusso dal Congresso a breve. La stessa Casa Bianca ha già fatto sapere che la FEMA avrà bisogno di almeno 4,6 miliardi di dollari nel prossimo anno fiscale, una cifra che in molti ritengono peraltro ben al di sotto delle reali necessità dell’agenzia.

Di fronte a situazioni drammatiche, con migliaia di persone senza un alloggio, servizi pubblici e infrastrutture da ricostruire, le vittime dei recenti terremoti, inondazioni, tornado e uragani sono dunque tenute in ostaggio dallo scontro politico sul debito in corso a Washington. Fino al recente passato, gli stanziamenti per le emergenze seguite ai disastri naturali - ancorché spesso insufficienti - venivano approvati dal Congresso senza impedimenti.

La febbre del debito che ha contagiato l’intero panorama politico americano, e in particolare quello repubblicano, sembra invece aver portato all’ordine del giorno la necessità di bilanciare le spese per l’assistenza alle vittime delle calamità con altri tagli alla spesa pubblica. Se questo principio non è stato per ora adottato, appare in ogni caso inevitabile che, visto il clima attuale, venga riproposto già in occasione della prossima emergenza.

L’ennesima messa in scena di un Congresso che non sa dare risposte né alle conseguenze della crisi economica né a quelle delle catastrofi naturali, ha rappresentato una nuova occasione per mettere in atto ulteriori misure di austerity. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati escogitati più volte ultimatum e scadenze inderogabili, utilizzate per implementare tagli devastanti alla spesa federale, puntualmente presentati come inevitabili per la sopravvivenza stessa dei servizi garantiti dal governo.

Ad aprile, ad esempio, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, e il presidente Obama trovarono un accordo sull’estensione del finanziamento della macchina federale addirittura a pochi minuti da un clamoroso “shutdown”. L’esempio più eclatante di questa strategia, deliberatamente adottata per far digerire gli assalti alla spesa pubblica, è però quello dello scorso agosto, quando venne raggiunto un accordo bipartisan in extremis per innalzare il tetto dell’indebitamento americano in cambio di colossali tagli.

Da quel patto tra repubblicani e democratici è uscita una speciale commissione incaricata di individuare e proporre al Congresso entro la fine dell’anno tagli alla spesa per almeno 1.500 miliardi di dollari. A ciò va aggiunto poi il recente piano della Casa Bianca per ridurre la spesa federale di altri 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio. Una proposta propagandata direttamente da Obama e che include anche tagli per oltre 4 miliardi di dollari al programma della FEMA per la copertura assicurativa dei danni causati dai disastri naturali.

di Alfredo Mignini

EDIMBURGO. L'aula magna di George Square è semi-deserta. Fuori la pioggia va e viene, come al solito. Dentro ci sono una ventina di studenti, quasi tutti del secondo o del terzo anno, impegnatissimi a discutere i contenuti della loro protesta: cosa chiediamo all'università, alla città di Edimburgo e, infine, al governo. Alcuni sono venuti fin qui da Glasgow o da St. Andrews, che significa qualche ora di treno. Scoprirò in seguito che si tratta di attivisti avveduti, accorsi per l'occasione con striscioni e volantini, che grazie agli sforzi di questo ultimo anno di lotte hanno iniziato a fare rete, mettendo da parte alcune (normalissime) divisioni.

In assemblea, infatti, ritrovi gli ambientalisti di People&Planet così come gli anarchici con le bandiere rosso-nere e il collettivo femminista, ma c'è anche il candidato alle elezioni studentesche e gli altri dell'EUSA, l'associazione che raccoglie tutti gli immatricolati e li rappresenta negli organi accademici.

Si tratta di gente, comunque, che da più di un anno ha smesso di aspettare. A Glasgow, ad esempio, è grazie a loro che da febbraio scorso l'Hetherington Research Club ha riaperto i battenti nelle vesti di quello che in Italia si chiamerebbe un centro sociale. D'altronde anche prima era uno spazio di socializzazione e scambio fra studenti e studiosi aperto nel 1954 e chiuso nel 2010 per via dei numerosi tagli che l'istruzione britannica ha subito e sta subendo a svariati livelli.

E forse è proprio per questo attacco generalizzato ai servizi sociali, che si è scatenata una sorta di “febbre del fare” capace di riallacciare legami e rapporti fra i molti gruppi della sinistra studentesca. «Il momento - mi dicono - è così serio, che non ti puoi permettere di essere frammentato in mille gruppuscoli». Una cosa che in Italia sembra una bestemmia. Gli slogan invece, e solo quelli, sono gli stessi che ho lasciato a casa: il nostro «noi la crisi non la paghiamo» trova un gemello in «we won't pay their crisis».

Qui ad Edimburgo il “nuovo anno di rivolta e resistenza” è precocemente iniziato il 5 settembre, quando l'università ha deciso di alzare le tasse di iscrizione al massimo consentito dal governo: £9000 (contro le £1800 attuali). Si tratta di un aumento considerevole, spiegabile in parte dal fatto che in Scozia, a pagare davvero, sono da un lato gli studenti che vengono dal Galles e dall'Inghilterra, i cosiddetti RUK Students (Rest of UK), e dall'altro gli internazionali.

L'università, infatti, è gratis tanto per gli scozzesi quanto per gli studenti europei, essendo impossibile per un paese UE discriminare i cittadini degli altri stati membri. Dico in parte perché, in realtà, da quando il governo Cameron ha innalzato a 9mila il tetto massimo, 47 università su 123 hanno già chiesto di poter applicare il massimo dall'anno accademico 2012/13, segno che comunque le cose non vanno affatto bene, anche fuori di qui. E sono molti i giovani che hanno rinunciato al consueto gap year, l'anno sabbatico fra liceo ed università, pur di non pagare il salasso il prossimo settembre.

E così a quasi quindici giorni dall'aumento, che ha subito trovato il parere negativo dell'EUSA in consiglio, quel gruppo eterogeneo che risponde al nome di Anti-Cuts Movement ha deciso di lanciare un ciclo di occupazioni da 36 ore, come saranno 36mila le sterline da pagare per avere una normale laurea di quattro anni, che per ora è partito dal Lecture Theatre di Edimburgo e si sta allargando alle altre città universitarie.

Il programma è mobilitare più persone possibili in vista dei prossimi mesi, soprattutto i nuovi che si sentono salvi per essere saliti a bordo dell'ultima scialuppa di salvataggio e forse per questo fanno più fatica a rimboccarsi le maniche.

Non è così, nessuno è salvo se quella scialuppa deve affrontare la tempesta, come sembra. Le richieste (http://bit.ly/pUKxgS) che vengono discusse, infatti, tengono conto, seppur in maniera naif, di questo quadro ed é cercando intelligentemente di inscrivere la lotta dentro l'università in una cornice comune con le altre lotte, soprattutto sindacali, che stanno prendendo piede in tutto il paese.

Staremo a vedere come questo movimento riuscirà a gestirsi nel futuro, visti anche i primi successi dell'anno scorso in termini di visibilità e di capacità di non farsi criminalizzare e stroncare sul nascere. Non è dato sapere, ad oggi, se la cosa verrà risolta in termini classici con qualcuno che saprà raccogliere politicamente le loro richieste, oppure se dal movimento verranno fuori idee politicamente nuove.

di Michele Paris

Per la prima volta da oltre cinquant’anni, la sinistra francese ha conquistato ieri la maggioranza assoluta nella camera alta del Parlamento di Parigi. Il voto per il Senato ha inflitto una nuova batosta al presidente Nicolas Sarkozy, sempre più impopolare tra l’elettorato d’oltralpe a ormai meno di sette mesi dalle elezioni presidenziali. Era dal 1958 che la destra in Francia deteneva la maggioranza al Senato.

I partiti di centro-sinistra (Socialisti, Verdi e Comunisti) hanno guadagnato 24 seggi nel voto di domenica, abbastanza per raggiungere la maggioranza di 177 su un totale di 348. Il voto è stato il primo dopo l’entrata in vigore della riforma elettorale che ha decretato l’aumentato del numero dei senatori, conseguenza dell’aumento della popolazione, e il rinnovo della metà dei componenti della camera alta ogni tre anni.

Lo storico cambio di maggioranza al Senato è la diretta conseguenza delle vittorie fatte segnare dalla sinistra nelle elezioni locali degli ultimi anni. L’elezione dei membri del Senato in Francia avviene infatti in maniera indiretta. A scegliere i senatori è cioè una delegazione di “superelettori” - 150 mila in totale, di cui poco meno di 72 mila si sono espressi domenica - composta da deputati, consiglieri regionali, rappresentanti dei consigli municipali e membri dell’Assemblea dei francesi all’estero. “Il 25 settembre 2011 rimarrà nella storia”, ha affermato Jean-Pierre Bel, capogruppo socialista al Senato, ad una televisione transalpina. “I risultati di questa elezione per il Senato rappresentano un’autentica punizione per la destra”.

Concretamente, la sconfitta della destra non dovrebbe creare troppi impedimenti all’azione del governo, dal momento che il Senato francese dispone di poteri decisamente inferiori rispetto all’Assemblea Nazionale (camera bassa), dove la destra conserva la maggioranza. Sarkozy, tuttavia, potrebbe veder svanire la possibilità di modificare la Costituzione per inserire l’obbligatorietà del pareggio di bilancio.

Come le recenti elezioni locali, anche quelle per il Senato hanno dunque confermato la popolarità in declino dell’inquilino dell’Eliseo, penalizzato, tra l’altro, dalla crisi economica persistente, da un livello di disoccupazione ancora elevato e dagli assalti portati allo stato sociale francese. A ciò vanno aggiunti anche gli scandali giudiziari che hanno colpito svariati alleati e amici di Sarkozy.

Per i vertici del partito del presidente (UMP), in ogni caso, la sconfitta di ieri va attribuita principalmente alle divisioni all’interno dello schieramento di centro-destra, confermate dalla presenza di numerose liste di candidati “dissidenti” che avrebbero sottratto voti ai partiti principali.

D’altro canto, nonostante i toni trionfalistici del Partito Socialista, la corsa alla presidenza appare tutt’altro che in discesa per l’opposizione. Oltre alla consueta combattività di Sarkozy in campagna elettorale, i Socialisti, dopo lo scandalo che ha colpito l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, dovranno fare i conti con la carenza di un candidato forte per il voto di aprile. I favoriti per la vittoria nelle imminenti primarie socialiste sono la segretaria del partito, Martine Aubry, e, soprattutto, il suo predecessore, François Hollande.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è conclusa ieri con la messa di Friburgo (Sud-Ovest) la visita del Papa in Germania: 90mila fedeli hanno raggiunto l’aeroporto della città per l’ultima celebrazione del pontefice nella sua terra natia, dopo quattro giorni di tappe importanti che hanno richiamato centinaia di migliaia di fedeli da tutto il Paese. Eppure c’è stata anche una parte di Germania che non ha risparmiato critiche a Benedetto XVI: al centro, inutile dirlo, la politica sessuale della Chiesa, considerata antica e ormai slegata dalla realtà.

Particolarmente discusso è stato l’incontro del Papa con alcune vittime di molestie sessuali condotte da preti e incaricati religiosi. Il colloquio è avvenuto venerdì sera in un collegio ecclesiastico di Erfurt, nella Germania centrale, dove il Papa ha poi pernottato. Dal Vaticano si sono impegnati a spiegare che l’appuntamento non era previsto, né tantomeno ufficializzato dal programma, che si è trattato di una “sorpresa”, un atto straordinario: anche se qualcuno, in realtà, già se lo aspettava.

Perché lo scandalo che ha colpito la Chiesa cattolica tedesca nel 2010 è ancora fresco nella memoria di tutti e, nella sua visita in Germania, Papa Ratzinger non poteva certo fingere indifferenza. L’anno scorso un’indagine interna partita dal collegio Canisius di Berlino ha portato alla luce una realtà di circa duecento casi di pedofilia avvenuti dal 1995 in istituzioni cattoliche in tutto il Paese, suscitando vergogna in tutto il mondo.

Con l’incontro di venerdì il Papa ha dimostrato di non rinnegare il problema della pedofilia nel clero, di aver quindi preso atto di ciò che è accaduto, e il gesto è stato particolarmente apprezzato dai credenti tedeschi, che sono accorsi a decine di migliaia per festeggiare l’appuntamento. Ma è proprio nell’attimo in cui tutte le luci erano puntate verso la questione “pedofilia nelle istituzioni cattoliche”, con la presenza importante del supremo pontefice che attirava l’attenzione, che qualcuno ha pensato bene di illuminare anche il rovescio della medaglia.

Perché venerdì, a Erfurt, c’erano un migliaio di persone che dimostravano contro Benedetto XVI e la Chiesa cattolica: i manifestanti hanno puntato il dito contro l’ambiguità e la “doppia morale” della Chiesa, un atteggiamento che ha portato a decenni di vergognoso silenzio, di cui nessuno sembra volersi prendere la responsabilità. È difficile pensare che l’incontro di Ratzinger con le vittime dell’ambiguità, in questo gesto simbolico a Erfurt, possa cambiare qualcosa e impedire altri abusi. Concretamente ci si aspetta più chiarezza da una Chiesa che sembra esprimersi con opinioni sociali fuori dal tempo.

Il rappresentante supremo della Chiesa cattolica è stato anche criticato per la discriminazione degli omosessuali, così come per l’obbligo del clero al celibato e la disparità di trattamento delle donne. La voce di protesta più potente è venuta da Berlino, dove si sono raccolte quasi 10mila persone - tra cui i membri di settanta associazioni omosessuali, antifasciste e sindacali - per chiedere alla Chiesa una politica sessuale più legata alla realtà. La contromanifestazione ha avuto luogo in occasione del discorso di Benedetto XVI nel Parlamento tedesco, evento per i manifestanti già di per sé controverso: come si può permettere di tenere un discorso in Parlamento, un’istituzione della democrazia, a qualcuno che rifiuta l’omosessualità, e dimostra quindi di non rispettare la libertà e i diritti dell’essere umano?

Come ha scritto il tedesco Werner Tzscheetzsch, ex-professore cattolico di teologia, la dottrina cattolica non prevede l’autonomia dell’essere umano e non accetta nessun pensiero indipendente, due condizioni tuttavia imprescindibili della nostra esistenza razionale. Finché non ci sarà un’evoluzione in questo senso è difficile immaginarsi una maggiore adesione del cattolicesimo alla realtà sociale, soprattutto a livello sessuale, e con ciò esso rimarrà sempre a rischio “doppia morale”: da una parte la dottrina, legata a dogmi antichi fuori dal tempo, dall’altra le necessità dell’uomo, due linee parallele che non si incontreranno mai nella realtà.

Tant’è che il viaggio del Papa a Berlino rimane, per Tzscheetzsch, pura scena, un grande spettacolo: “Quando [il Papa] se ne andrà sarà tutto come prima, non cambierà nulla”, scrive il teologo. Anche se quest’ultima costatazione non è del tutto esatta: dopo il discorso del Papa in Parlamento, ora i Verdi tedeschi cominciano a chiedersi perché non invitare anche il Dalai Lama. E già questo potrebbe essere visto come un piccolo passo avanti.

 

di Michele Paris

I già complicati rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan hanno subito giovedì una nuova gravissima scossa. L’ufficiale più alto in grado nelle forze armate americane, il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, ha infatti accusato pubblicamente i servizi segreti del paese centro-asiatico di avere avuto un ruolo diretto nei recenti spettacolari attacchi che hanno colpito il contingente NATO in Afghanistan.

Parlando di fronte ai membri della Commissione per le Forze Armate del Senato, Mullen ha sostenuto che l’attentato del 10 settembre scorso contro una base NATO di Kabul, nel quale hanno perso la vita cinque persone e sono stati feriti 77 soldati della coalizione, e l’assalto della settimana scorsa all’ambasciata USA, che ha fatto 16 morti tra civili e poliziotti afgani, sono stati opera della rete terroristica degli Haqqani con il sostegno concreto dell’ISI (Inter-Services Intelligence), la principale agenzia spionistica pakistana.

Senza mezzi termini, Mullen ha affermato che “gli Haqqani agiscono come se fossero una vera e propria sezione dell’ISI”, pur senza specificare che genere di supporto i servizi segreti pakistani avrebbero fornito a questo gruppo di insorti né citare alcuna prova concreta al riguardo.

Esponenti del governo e delle forze armate americane spesso accennano più o meno esplicitamente alla complicità delle autorità pakistane con i gruppi talebani che operano nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan, al fine di estendere la propria influenza in quest’ultimo paese. Mai però era stata fatta un’accusa così esplicita da una personalità autorevole come Mullen, ritenuto oltretutto, nell’establishment militare statunitense, tra i più convinti sostenitori della necessità di stabilire rapporti amichevoli con il Pakistan.

Le accuse del Capo di Stato Maggiore americano vanno ad aggiungesi a numerosi altri episodi che negli ultimi mesi hanno già incrinato notevolmente i rapporti tra i due improbabili alleati, a cominciare dal blitz dello scorso mese di maggio contro il rifugio di Osama bin Laden nella cittadina pakistana d Abbottabad.

La nuova disputa, inoltre, accresce le pressioni sul Pakistan per rompere definitivamente i rapporti con i gruppi terroristici che operano sul proprio territorio e, con ogni probabilità, preannuncia un intensificarsi delle incursioni americane con i droni nella province nord-occidentali, le quali causeranno nuove vittime civili e frizioni con Islamabad e alimenteranno l’odio delle popolazioni locali.

La risposta del governo pakistano alle accuse di Mullen è giunta tempestivamente per voce del Ministro del Interni, Rehman Malik, il quale ha negato il coinvolgimento dell’ISI negli attacchi di Kabul. Malik ha anche affermato che il Pakistan non consentirà azioni militari americane entro i propri confini contro la rete degli Haqqani nel Waziristan del Nord.

Di questa ipotesi si è probabilmente parlato martedì scorso a Washington, dove il numero uno dell’ISI, generale Ahmed Shuja Pasha, ha incontrato il direttore della CIA, generale David Petraeus. Il Pakistan è particolarmente sensibile alla questione, soprattutto dopo la palese violazione della propria sovranità verificatasi con l’azione delle forze speciali americane incaricate di assassinare bin Laden.

I ripetuti contrasti tra i due paesi avevano recentemente spinto il Pakistan ad intraprendere alcune misure nei confronti degli USA, tra cui l’allontanamento della maggior parte degli “istruttori militari” presenti sul proprio territorio. Iniziativa a cui Washington ha risposto con la minaccia di tagliare gli oltre 2 miliardi di dollari in aiuti militari stanziati annualmente.

Nonostante gli incerti passi avanti che sembravano aver avuto luogo nelle ultime settimane, le pesanti accuse dell’ammiraglio Mullen contro l’intelligence pakistana rischiano ora di aggravare le relazioni bilaterali tra i due paesi e di aumentare ulteriormente le tensioni in tutta la regione.


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