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di Michele Paris
Qualche giorno fa, la Corte Suprema di Israele ha confermato la legittimità di una legge discriminatoria e anti-democratica, emanata nel 2003 dalla Knesset (Parlamento), che restringe drasticamente le possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana. Con la sentenza di mercoledì scorso è stato cioè respinto un ricorso presentato da Adalah, un’associazione che si batte per i diritti della minoranza araba di Israele, lasciando in vigore una misura che nega la naturalizzazione automatica dei coniugi di cittadini israeliani, in larga misura di origine palestinese.
A sostegno della legge sulla cittadinanza si sono espressi sei giudici dell’Alta Corte, mentre cinque ne hanno chiesto l’annullamento. Per la maggioranza, la naturalizzazione dei palestinesi tramite il matrimonio rappresenta una minaccia per la sicurezza del paese: per questo, nelle parole della sentenza, “il diritto di costruire una famiglia non deve necessariamente realizzarsi all’interno dei confini di Israele”.
A sottolineare la natura profondamente razzista della legge ratificata dalla Corte Suprema, così come la politica di apartheid perseguita dalla classe dirigente israeliana, sono state le parole del giudice Asher Grunis che ha votato con la maggioranza, secondo il quale “i diritti umani non possono essere una ricetta per il suicidio della nazione”. Diametralmente opposta è stata invece l’opinione della minoranza, espressa dalla presidente della Corte, Dorit Beinisch, per la quale “la legge andrebbe soppressa, poiché viola il diritto di uguaglianza”.
Secondo i dati ufficiali, tra il 1994 e il 2002, circa 135 mila palestinesi furono naturalizzati grazie al matrimonio e i loro coniugi erano in gran parte arabi israeliani. Per porre un freno a questa tendenza, nel maggio del 2002 il governo decise di sospendere la concessione della cittadinanza automatica. L’anno successivo, la Knesset prese in mano l’iniziativa approvando una nuova legge temporanea che limitava sensibilmente il percorso verso la cittadinanza per coloro che avrebbero sposato residenti di Israele. Il provvedimento è stato successivamente prorogato in due occasioni, mentre nel 2007 le associazioni per i diritti civili hanno dato inizio ai procedimenti legali per chiederne il ritiro.
La legge in questione, in teoria, esclude dalle restrizioni i palestinesi uomini con più di 36 anni e le donne oltre i 25. Le limitazioni imposte rimangono però spesso insormontabili, tanto che, secondo un avvocato israeliano citato dalla Associated Press, nel 2011 solo 33 richieste di esenzione dalla legge sono state approvate su 3.000 presentate. Per il Jerusalem Post, inoltre, i coniugi residenti in Cisgiordania sono del tutto esclusi dalla possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana.
Le reazioni alla sentenza da parte della società civile e di alcuni politici dell’opposizione in Israele sono state molto dure. Per la parlamentare del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal-On, la quale aveva partecipato alla presentazione del ricorso, il verdetto rappresenta una macchia indelebile per Israele. Secondo Adalah, poi, l’alta corte ha approvato una legge che “non esiste in nessun paese democratico del pianeta” e che “proibisce ai cittadini di avere una famiglia in Israele unicamente sulla base della loro appartenenza etnica”. Inoltre, per la stessa organizzazione, “questa sentenza dimostra come i diritti civili della minoranza araba in Israele siano stati erosi in maniera pericolosa e senza precedenti”.
Un altro co-sponsor del ricorso alla Corte Suprema era l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI), i cui avvocati hanno affermato che “la maggioranza dei giudici ha messo il proprio sigillo su una legge razzista che metterà a repentaglio le vite di famiglie la cui sola colpa è quella di avere sangue palestinese nelle vene”.
Gli arabi costituiscono circa un quinto degli oltre sette milioni di abitanti di Israele. Altri tre milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e a Gaza. Numerose sono le famiglie che sono state divise da linee di demarcazione artificiali stabilite dopo le guerre tra israeliani e palestinesi, così che i matrimoni tra gli arabi che risiedono da una parte e dall’altra del confine sono molto diffusi.
Per una parte degli israeliani, tuttavia, il conferimento della cittadinanza ai palestinesi costituisce una minaccia all’identità ebraica dello Stato e la sentenza di mercoledì della Corte Suprema asseconda appunto queste tendenze retrograde e reazionarie presenti nel paese.
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di Alessandro Iacuelli
Un esperto nucleare che lavorava nel sito di Natanz, specializzato nell'arricchimento dell'uranio, è stato ucciso ieri a Teheran in un attentato. Mustafa Ahmadi Roshan era nella sua auto quando una moto si è avvicinata piazzando una bomba magnetica sulla vettura che, secondo testimoni, è esplosa subito dopo causando anche un secondo morto ed il ferimento di altre due persone. Lo riferiscono i media iraniani, precisando che l'attentato è avvenuto nella parte nord della città, vicino all'Università.
Mustafa Ahmadi Roshan, professore universitario, lavorava al sito si arricchimento nucleare di Natanz, dove sono presenti oltre 8000 centrifughe. Lo ha riferito l’agenzia Mehr. L'attentato, avvenuto intorno alle 8.30 (le 6 in Italia) è stato messo a segno con un ordigno magnetico attaccato alla vettura da un motociclista.
Ahmadi Roshan era docente di industria del petrolio e supervisionava un dipartimento nell’impianto nucleare per l’arricchimento dell’uranio a Natanz, nella provincia di Isfahan, nell'Iran centrale. Aveva 32 anni, si era laureato una decina di anni fa in Chimica degli Idrocarburi presso un altro ateneo della capitale iraniana, l'Università Tecnologica "Sharif".
E' l'ennesimo episodio simile. Il 12 gennaio 2010, un altro scienziato nucleare di fama internazionale, Masoud Ali Mohammadi, era stato ucciso dall'esplosione di una moto-bomba mentre usciva di casa a Teheran. Il 23 luglio 2011 era toccato al fisico nucleare Daryoush Razaei, 35 anni, assassinato a Teheran da sconosciuti in motocicletta che gli hanno sparato davanti a casa. La moglie era con lui ed è stata ferita. Il 29 novembre scorso, è toccato a uno dei "cervelli" della ricerca atomica iraniana, il fisico nucleare Majid Shahriyari, ucciso da un'esplosione nella sua auto a Teheran in circostanze simili all'omicidio di stavolta: una bomba attaccata al finestrino della sua auto.
L'uccisione di Mustafa Ahmdi-Roshan potrebbe quindi essere solo l’ultimo fino ad ora degli omicidi che negli ultimi anni ha visto scienziati e docenti iraniani del settore nucleare. Ogni volta Teheran ha accusato Israele e l’Occidente di esserne responsabili. Non a caso, il vice governatore della provincia di Teheran, Safar Ali Baratloo, ha subito puntato l’indice contro Israele come mandante dell’omicidio. "La bomba magnetica era dello stesso tipo di quelle già utilizzate in precedenza per gli assassinii di altri scienziati, ed è opera dei sionisti", ha accusato.
Di sicuro la pista interna è da escludere e anche questo omicidio, per stile e modalità somiglia ad una vera e propria esecuzione e fa sentire odore di servizi segreti, occidentali o israeliani, da chilometri di distanza. Altro che sanzioni, controlli dell'IAEA, negoziati: la strada scelta dal mondo occidentale per contrastare il programma nucleare iraniano assomiglia molto di più a quella di un serial killer che lascia dietro di se una lunga scia di sangue.
D'altronde, l'uccisione degli scienziati racchiude una serie di messaggi precisi. Messaggi politici. Il primo messaggio è diretto: gli avversari di Teheran, Usa e Israele in testa, stanno facendo di tutto per ostacolare il programma atomico, e non solo dal punto di vista diplomatico. Il corollario al messaggio è che la lista di ricercatori e scienziati da eliminare fisicamente non è ancora terminata.
Il secondo messaggio è rivolto al regime iraniano: la serie di attacchi, comprese le misteriose esplosioni in fabbriche e siti strategici, sono una sfida agli apparati di sicurezza. Il governo di Teheran ha creato una speciale unità per proteggere le figure legate al programma nucleare, ma fino ad ora non sembra particolarmente efficiente; é quindi probabile che il delitto avrà delle conseguenze politiche interne e che le prossime mosse vedranno una decisa ristrutturazione dell’apparato di sicurezza.
E proprio in tema di sicurezza interna si colloca un altro messaggio implicito: i servizi segreti non solo occidentali, ma anche quelli israeliani e forse anche quelli sauditi, hanno possibilità di agire in Iran con una certa frequenza ed una discreta impunità. Hanno dei loro team in loco e probabilmente contano su elementi locali, arruolati tra chi detesta gli ayatollah.
E' interessante notare che lo scienziato è stato ucciso con un modus operandi già impiegato in passato con efficacia: i killer si avvicinano in moto e applicano una bomba magnetica alla vettura del bersaglio. Per eseguire l'azione bisogna essere professionisti ben addestrati, conoscere bene il territorio, soprattutto per garantirsi la fuga, e contare su una rete d'appoggio locale operativa.
In ogni caso, l'obiettivo degli omicidi è spargere terrore e creare una forte pressione psicologica, accusando parallelamente l'Iran di essere lui a spargere terrore. O a minacciare di farlo. Chiaramente, questo nuovo episodio alzerà ancor più la tensione in un'area già surriscaldata dalle provocazioni politiche di tutte le parti in gioco, con UE e USA pronti a comminare nuove sanzioni e l'Iran pronto a chiudere lo stretto di Hormuz. La risposta di Teheran, in qualche modo è inevitabile, perché in questa guerra (perché di guerra si tratta, altro che azioni diplomatiche) nessuno è disposto a risparmiare colpi.
La prima reazione di Teheran è stata quella di riunire la commissione per la Sicurezza nazionale e la Politica estera del Parlamento (Majlis) con la partecipazione delle autorità governative in materia di sicurezza e intelligence. Gli studenti delle università di Teheran hanno indetto per sabato una manifestazione contro l'attentato e hanno rinnovato il loro sostegno alla Guida Suprema, Al Khamenei, affermando l'intenzione di proseguire nella strada che stava percorrendo lo scienziato ucciso. Al contrario delle attese delle Cancellerie occidentali, che puntavano alle divisioni interne tra riformisti e conservatori, il regime, sull’aggressione straniera, si ricompatta.
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di Michele Paris
Nessuna sostanziale sorpresa ha fatto registrare il secondo round delle primarie repubblicane negli Stati Uniti. Nel piccolo Stato del New Hampshire il successo è andato al favorito della vigilia, il miliardario mormone Mitt Romney, il quale ha potuto così bissare l’affermazione della settimana scorsa nei caucus dell’Iowa e rafforzare la sua posizione di “front-runner” nella corsa alla nomination di un partito sempre più spostato a destra.
Nonostante i ripetuti attacchi lanciati nell’ultima settimana dai suoi principali rivali repubblicani, Romney ha incassato una vittoria piuttosto netta, capitalizzando il legame speciale che vanta con questo stato del New England. Romney è stato governatore del confinante Massachusetts tra il 2003 e il 2007 e si reca frequentemente in New Hampshire, dove possiede una delle sue numerose abitazioni. Il suo messaggio relativamente moderato sembra inoltre trovare terreno fertile tra l’elettorato dello Stato, anche se qui nel 2008 dovette subire da John McCain la sconfitta decisiva che mise fine alle sue speranze di nomination.
Primo candidato repubblicano (presidenti in carica esclusi) a vincere le due competizioni che aprono la stagione delle primarie dal 1976, nelle primarie del New Hampshire Mitt Romney ha raccolto il 39,4% dei consensi (quasi 100 mila voti), staccando di oltre 16 punti percentuali il secondo classificato, il deputato libertario del Texas, Ron Paul (22,8%).
Dal momento che la composizione dell’elettorato del New Hampshire difficilmente avrebbe potuto favorire una rimonta da parte dei candidati più conservatori, la questione di una possibile alternativa a Romney è rimandata alle cruciali primarie della Carolina del Sud, in programma il 21 gennaio prossimo. Qui il voto dei conservatori - legati principalmente all’industria militare dello Stato e ai Tea Party - avrà infatti un peso maggiore e risulterà fondamentale per le aspirazioni di candidati come Newt Gingrich e Rick Santorum.
Dietro a Romney, come già anticipato, è giunto Ron Paul, il quale aveva già fatto segnare un discreto terzo posto in Iowa. Paul ha beneficiato delle regole elettorali del New Hampshire, dove possono votare nelle primarie repubblicane sia gli indipendenti che gli elettori registrati come democratici. Gli indipendenti sono stati circa la metà di coloro che si sono recati alle urne ed hanno dimostrato di preferire il messaggio pacifista e radicalmente anti-governativo del 76enne parlamentare texano. Visto le sue posizioni decisamente lontane da quelle ufficiali repubblicane sui temi della sicurezza nazionale e in politica estera, Romney non sembra temere troppo la concorrenza di Ron Paul, anche se quest’ultimo ha costruito una macchina elettorale molto organizzata in tutto il paese che potrebbe consentirgli di rimanere competitivo per parecchio tempo.
Dietro Romney e Paul si è piazzato un altro candidato propostosi come moderato e che non aveva praticamente svolto campagna elettorale in Iowa. Si tratta di John Huntsman, figlio di uno degli uomini più ricchi d’America. Ex governatore dello Utah e fino a pochi mesi fa ambasciatore a Pechino per l’amministrazione Obama, Huntasman aveva puntato tutto sulle primarie del New Hampshire per tenere in vita una candidatura che ha comunque ben poche chances di decollare. Il modesto risultato (16,8%) non dovrebbe portarlo molto lontano, anche perché, paradossalmente, la sua campagna non può contare sulle risorse di cui dispongono i rivali.
Sebbene tutti i contendenti repubblicani propongano ricette economiche ultraliberiste che favoriscono i redditi più alti, alcuni candidati nei giorni precedenti il voto avevano attaccato Romney per il suo passato nel “private equity”. Alla guida della compagnia Bain Capital, negli anni Ottanta e Novanta, Romney aveva infatti accumulato una fortuna acquistando aziende, smembrandole, mandandole in bancarotta e licenziando senza scrupoli i loro dipendenti. Gli attacchi nei suoi confronti sono giunti in particolare da Newt Gingrich, dopo che anch’egli era stato bersaglio di campagne negative in Iowa orchestrate da organizzazioni (Super PAC) vicine a Romney e a Rick Perry.
Per l’ex speaker della Camera questa strategia aggressiva non ha pagato in New Hampshire, come dimostra il quarto posto col 9,4% dei voti, ma verrà comunque ribadita in Carolina del Sud, dove si presenterà con un assegno da 5 milioni di dollari staccato qualche giorno fa alla Super PAC a lui vicina dall’amico e imprenditore miliardario nel settore dei casinò, Sheldon Adelson. Il denaro così raccolto andrà a finanziare in gran parte l’acquisto di spazi pubblicitari per mettere in cattiva luce Mitt Romney.
La sorpresa dei caucus dell’Iowa, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, ha poi subito un brusco risveglio in New Hampshire. Il denaro improvvisamente entrato nelle sue casse dopo aver perso la settimana scorsa per appena otto voti da Romney, non gli ha permesso di estendere il proprio appeal in uno stato che vede con diffidenza il fondamentalismo cristiano che è alla base del suo messaggio politico. Per Santorum rimane qualche lieve speranza di riprendersi in Carolina del Sud, uno stato che potrebbe invece segnare la fine definitiva per Rick Perry. Il governatore del Texas ha tralasciato il New Hampshire per concentrarsi sul primo Stato del sud a tenere le primarie, ma nonostante abbia ancora parecchio denaro a disposizione la sua candidatura sembra avere ormai i giorni contati.
In attesa di capire se potrà emergere un unico candidato alternativo a Romney in grado di coagulare il voto dell’ala conservatrice del partito, buona parte dei media americani continua a veicolare il senso di inevitabilità della candidatura dell’ex governatore del Massachusetts. Quest’ultimo ha dalla sua soprattutto le ingenti risorse per finanziare una lunga campagna elettorale, grazie anche ai legami che ha coltivato negli anni con Wall Street. Mitt Romney ha raccolto donazioni per circa 23 milioni di dollari solo negli ultimi mesi del 2011 e in questi giorni ha incassato l’appoggio formale (“endorsement”) di politici repubblicani di spicco, come l’ex rivale John McCain.
In ogni caso, dopo appena due appuntamenti elettorali, gli equilibri in casa repubblicana sono dettati, oltre che dalle disponibilità economiche, dall’esposizione mediatica dei candidati. Per ottenere ufficialmente la nomination, un contendente repubblicano deve infatti mettere assieme quasi 1.200 delegati. Le primarie del New Hampshire ne hanno assegnati per ora solo 12 - Romney ne ha conquistati 7, Paul 3 e Huntsman 2 - dopo che i vertici nazionali del partito avevano deciso di dimezzare la quota riservata a questo Stato per punire i dirigenti locali, colpevoli di aver anticipato la data del voto, inizialmente fissata per il mese di febbraio.
Come già alla vigilia dei caucus dell’Iowa, anche il voto in New Hampshire è stato preceduto da varie schermaglie tra i sei repubblicani in corsa per la Casa Bianca. Nonostante gli scambi di accuse, tuttavia, i candidati risultano d’accordo sulle fondamentali questioni economiche e di politica estera - con l’eccezione di Ron Paul su quest’ultimo argomento - con le quali sarà chiamato a fare i conti il prossimo presidente americano.
Tutti i candidati repubblicani, così come Obama, concordano cioè sulla necessità sia di far pagare a lavoratori, disoccupati e pensionati la crisi in atto, che di mantenere un atteggiamento aggressivo al di fuori dei confini per salvaguardare gli interessi USA. Le loro divergenze riflettono semmai le divisioni all’interno delle élite che detengono il potere nel paese e che riguardano, ad esempio, l’opportunità di collaborare o meno con le organizzazioni sindacali negli attacchi alle condizioni di vita e ai diritti dei lavoratori, oppure la scelta di scatenare una nuova guerra piuttosto che conservare le risorse per i conflitti già in corso. Questi, in definitiva, sono i limiti angusti entro i quali si gioca negli Stati Uniti la competizione per la nomination repubblicana e per la Casa Bianca.
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di Michele Paris
Da lunedì scorso la Nigeria è bloccata da uno sciopero generale indefinito, proclamato per protestare contro l’improvvisa cancellazione dei sussidi governativi al prezzo dei carburanti. In seguito alla decisione presa a inizio anno dal presidente Goodluck Jonathan, il costo della benzina per i nigeriani è più che raddoppiato da un giorno all’altro, scatenando manifestazioni e scontri in tutto il paese che hanno già causato alcuni decessi e centinaia di feriti, vittime della durissima reazione delle forze di sicurezza.
Lo sciopero in corso è stato indetto dalle due principali organizzazioni sindacali del paese africano, anche se il movimento di protesta contro il taglio dei sussidi era in realtà esploso spontaneamente, autodefinendosi “Occupy Nigeria” per sottolineare, qui come in Occidente, le sempre più difficili condizioni economiche della maggior parte della popolazione e le enormi disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’annuncio dell’addio ai sussidi ai carburanti in Nigeria da parte del presidente era giunto il primo gennaio scorso, con l’immediata conseguenza di un’impennata del prezzo della benzina alle pompe, passato da 0,45 dollari a 0,94 dollari al litro. Al rialzo del costo dei carburanti si è accompagnata una raffica di aumenti sui prezzi di altri beni e servizi di prima necessità, dal cibo ai trasporti. Allo stesso tempo, la precaria rete elettrica del paese ne ha risentito pesantemente, dal momento che essa dipende in gran parte da generatori alimentati a benzina.
I sussidi soppressi dal governo rappresentano uno dei pochissimi benefici che i nigeriani ottengono dallo sfruttamento selvaggio delle enormi risorse energetiche del paese da parte delle multinazionali del petrolio. Gli effetti dell’operazione rischiano così di avere gravi conseguenze in un paese di 167 milioni di abitanti, di cui oltre i due terzi costretti a sopravvivere con meno di due dollari al giorno.
Lo sciopero iniziato lunedì ha fatto segnare un’ampia partecipazione in tutti i settori pubblici e privati, paralizzando la principale città del paese, Lagos, la capitale, Abuja, e gli altri maggiori centri abitati. Anche se un tribunale nigeriano ha emesso un ordine per porre fine allo sciopero, i sindacati hanno manifestato l’intenzione di continuare con la protesta. Gli scontri più gravi sono avvenuti per ora nella città settentrionale di Kano, dove le forze di polizia avrebbero fatto almeno tre morti dopo avere aperto il fuoco sui manifestanti che avevano assediato un edificio governativo.
Non è servito poi a calmare gli animi, né a evitare lo sciopero, l’appello lanciato in diretta TV sabato scorso dal presidente Jonathan, il quale aveva promesso una riduzione del 25 per cento del suo stipendio e di quello dei membri del suo governo. Il presidente ha in ogni caso ribadito la necessità di porre fine ai sussidi, poiché “devono essere fatte scelte difficili per salvaguardare l’economia e la sopravvivenza stessa della nazione”. In Nigeria come altrove, ovviamente, le “scelte difficili” riguardano esclusivamente gli strati più disagiati della popolazione, mentre non toccano la ristretta élite di privilegiati che controlla il potere e le ricchezze del paese.
La decisione del presidente e del suo ministro dell’Economia, l’ex dirigente della Banca Mondiale Ngozi Okonjo-Iweala, è stata presa inoltre in seguito alle pressioni degli ambienti finanziari internazionali. Lo scorso dicembre, ad esempio, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, era stata in visita in Nigeria, elogiando l’amministrazione Jonathan per il suo impegno a perseguire riforme orientate verso il “libero mercato”.
La Nigeria produce più di due milioni di barili di petrolio al giorno, ma il greggio estratto viene in gran parte raffinato all’estero e poi reimportato per il consumo interno. Per questo, il governo spende annualmente circa 8 miliardi di dollari - cioè un quarto del proprio budget - in sussidi per compensare la differenza tra il prezzo del petrolio sui mercati internazionali e quello con cui viene venduto nel paese. Per il presidente, l’eliminazione dei sussidi consentirà al governo di investire nell’ammodernamento delle infrastrutture che versano in condizioni disastrose. La sorte del provvedimento, tuttavia, appare in bilico, dal momento che tutti i tentativi dei precedenti governi di cancellare i sussidi si sono risolti in altrettante marce indietro, vista la massiccia resistenza popolare puntualmente incontrata.
L’impopolarità della misura, d’altra parte, è stata confermata da un sondaggio condotto da uno studio di consulenza di Abuja e citato martedì dal Wall Street Journal. Secondo i dati raccolti, il 98 per cento dei nigeriani intervistati sarebbe infatti contrario alla fine dei sussidi. In merito alle proteste esplose nel paese, il direttore dello stesso studio ha poi ammesso che “non stiamo parlando di opposizione [alla rimozione dei sussidi], ma di una rivolta generale”.
Gli scioperi in corso in Nigeria hanno intanto già contribuito all’ulteriore innalzamento della quotazione del greggio sui mercati internazionali, spaventati dall’eventualità che alle proteste possano unirsi anche i lavoratori dei pozzi petroliferi. Per il momento, tuttavia, sembra che la produzione di petrolio nel paese non abbia risentito delle tensioni.
La nuova crisi giunge nel pieno di un’ondata di violenze settarie provocate dal gruppo fondamentalista islamico Boko Haram, espressione del malcontento diffuso nelle aree più povere nel nord del paese e che ha causato 510 morti nel 2011, tra cui 49 in un attentato contro una chiesa cattolica il giorno di Natale.
La vera minaccia per la gran parte della popolazione nigeriana non viene però dalle divisioni religiose o dal terrorismo, bensì proprio da un governo centrale irrimediabilmente corrotto e al servizio dei colossi dell’industria petrolifera e della finanza internazionale. Una realtà compresa alla perfezione dai nigeriani, come confermano gli scioperi e le proteste di questi giorni, alle quali hanno preso parte indistintamente sia i cristiani che i musulmani.
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di Michele Paris
Il primo rapporto degli osservatori inviati in Siria dalla Lega Araba il 26 dicembre scorso è stato presentato ufficialmente domenica presso il quartier generale dell’organizzazione panaraba al Cairo. Dopo le forti pressioni americane ed occidentali degli ultimi giorni, il giudizio della Lega sulla situazione nel paese è risultato meno incoraggiante rispetto alle prime impressioni rilasciate dagli osservatori stessi, anche se è stata finalmente riconosciuta la presenza attiva di gruppi armati che si battono contro le forze di sicurezza del regime e che contribuiscono al continuo lievitare delle violenze.
La Lega Araba ha lanciato un nuovo appello al governo di Bashar al-Assad per fermare le violenze nel paese e implementare i termini della road map che Damasco aveva accettato il 19 dicembre. Allo stesso tempo è stato chiesto ai rivoltosi di astenersi da azioni violente e di tornare a manifestare in maniera pacifica, così da consentire agli osservatori nel paese di portare a termine la propria missione.
I 165 osservatori della Lega Araba erano giunti in Siria con l’incarico di verificare le condizioni sul campo nel paese mediorientale e la volontà del governo di mettere in pratica il dettato di un accordo che prevede, tra l’altro, il ritiro dei militari dalle città teatro della rivolta, la liberazione di tutti i prigionieri politici e l’avvio di un dialogo con le forze di opposizione.
Il rapporto degli osservatori inviato nella capitale egiziana non appoggia interamente la posizione del regime, secondo il quale gli scontri sarebbero causati dalla presenza in Siria di gruppi terroristici armati da paesi stranieri, ma non conferma però quanto sostiene l’opposizione, cioè che le forze di sicurezza fedeli ad Assad stiano operando su vasta scala nelle città in rivolta.
La temporanea fiducia nella missione in corso è stata poi confermata dalla decisione di aumentare il numero degli osservatori da inviare in Siria, che salirà a 300. Il nuovo gruppo di osservatori dovrà presentare un rapporto aggiornato entro il 19 gennaio prossimo e, fino a quel giorno, è certo che le pressioni su di loro e sulla Lega Araba non faranno che aumentare.
Già alla vigilia dell’incontro di domenica, il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, Sheik Hamad bin Jassem al-Thani, che presiede la commissione della Lega per la Siria, aveva chiesto all’ONU di partecipare alla missione degli osservatori. Secondo al-Thani, infatti, Damasco non sta implementando le condizioni della road map e, perciò, la missione stessa sarebbe una perdita di tempo.
Dopo il rapporto degli osservatori e le dichiarazioni del segretario generale della Lega, Nabil el-Araby, secondo il quale le violenze negli ultimi giorni in Siria sono diminuite, i carri armati sono stati ritirati da alcune città e centinaia di prigionieri sono stati liberati, lo stesso al-Thani ha dovuto ammettere qualche miglioramento, anche se ha poi ribadito che, nel caso le uccisioni nel paese dovessero continuare, allora “la presenza degli osservatori diventerebbe inutile”.
La proposta di far intervenire l’ONU per risolvere la crisi siriana da parte del primo ministro del Qatar è stata però respinta dalla Lega Araba. Una decisione questa che ha messo in evidenza le divisioni all’interno dell’organizzazione, dove i membri meno allineati con gli Stati Uniti temono che un intervento delle Nazioni Unite possa essere la premessa di una nuova intromissione occidentale nelle vicende di un paese arabo. Un tale scenario alimenterebbe l’ostilità delle popolazioni arabe verso gli USA, creando nuove tensioni in molti paesi.
Dietro alla richiesta di al-Thani ci sono innanzitutto le monarchie dittatoriali del Golfo Persico che puntano alla rimozione del regime alauita (sciita) di Assad in Siria e, ovviamente, Washington. Il trasferimento della questione siriana all’ONU rappresenterebbe un ulteriore passo verso una soluzione simile a quella libica. L’intenzione degli Stati Uniti è di giungere ad una condanna del regime di Damasco da parte del Consiglio di Sicurezza così da legittimare un qualche intervento militare per rovesciare Assad e installare un nuovo governo sunnita filo-occidentale, con l’obiettivo ultimo di isolare l’Iran nella regione mediorientale.
L’amministrazione Obama ha d’altra parte criticato da subito la missione promossa dalla Lega Araba in Siria. Quando il 2 gennaio scorso gli osservatori annunciarono che le forze armate siriane si erano ritirare dalle principali città e che nel paese erano stati registrati significativi progressi, gli USA intervennero sostenendo fermamente che Assad non aveva mantenuto la promessa di rispettare l’accordo sottoscritto e che era sempre più necessaria una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU.
Verosimilmente per convincere la Lega Araba ad adottare una posizione più critica nei confronti di Damasco, la settimana scorsa la Casa Bianca ha anche inviato in fretta e furia al Cairo l’assistente al Segretario di Stato per gli Affari del Vicino Oriente, il diplomatico Jeffrey Feltman. Nel rapporto sulla Siria i toni si sono fatti così più critici verso il regime, il quale avrebbe messo in atto solo “parzialmente” le misure richieste dalla Lega Araba.
Che la situazione in Siria sia invece più complessa di quanto non traspaia dai media e dalla propaganda dei governi occidentali è stato confermato, oltre che dal sanguinoso attentato a Damasco di venerdì scorso con 26 morti, anche dallo stesso capo degli osservatori. Secondo quanto riportato da alcuni media arabi, il generale sudanese Mohamed Ahmed Mustafa al-Dabi avrebbe confermato la presenza di gruppi armati di opposizione che controllano molte aree del paese. Al-Dabi avrebbe anche messo in guardia dal trasferimento della responsabilità della missione all’ONU, chiedendo piuttosto alla Lega Araba più fondi e un maggior numero di osservatori, come appunto è stato fatto domenica.
Al di là di quanto sta accadendo realmente in Siria, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo intendono ottenere dagli osservatori un rapporto finale quanto più critico possibile sulla condotta del regime di Damasco, in modo da giustificare un nuovo innalzamento dei toni nei confronti di Assad.
Se un intervento diretto della NATO in Siria appare alquanto improbabile, il tentativo di Washington sembra essere quello di giungere quanto meno alla creazione di corridoi “umanitari” in territorio siriano nelle regioni di confine con Turchia, Libano o Giordania. Qui i ribelli, organizzati principalmente nel cosiddetto Esercito Libero della Siria, potrebbero essere appoggiati dalle forze armate turche, giordane o dello stesso Qatar per condurre le proprie operazioni contro il regime.
L’ostacolo al raggiungimento di un consenso nella comunità internazionale e, quindi, di una soluzione simile a quella riservata alla Libia di Gheddafi, è per ora la posizione di Cina e, soprattutto, Russia all’interno del Consiglio di Sicurezza. Per Mosca la caduta dell’alleato Assad rappresenterebbe infatti un colpo mortale ai propri interessi in Medio Oriente. Per questo, la destabilizzazione del regime di Damasco appare ancor più un gioco rischioso che minaccia di innescare un conflitto dalle conseguenze rovinose per l’intera regione.