di Luca Mazzucato

NEW YORK. C'era una volta la democrazia in America. Che se ne stia scappando a gambe levate, pare se ne siano accorti per il momento solo i giovani di Occupy Wall Street. Ha ancora senso nel 2012 lo slogan “una testa, un voto?” Disse Mitt Romney, l'attuale favorito nella corsa contro Obama: “Le aziende sono persone, amico mio!” rispondendo alla domanda trabocchetto di un’attivista, che gli chiedeva se fosse giusto che le donazioni elettorali da parte delle aziende siano illimitate. E confluiscano tutti nel mostro giuridico chiamato Super PAC.

No, non è una versione 2.0 di Pacman, il videogame. Anche se, un po' come nel videogame, questo Super PAC mangia soldi senza sosta, in un labirinto normativo, aggirando tutte le norme di buon senso. Vediamo come funzionano questi oggetti misteriosi del desiderio di ogni politico.

In principio fu la famigerata sentenza “Citizens United” della Corte Suprema. I giudici stabilirono il seguente sillogismo demenziale: le aziende hanno libertà di parola come le persone, nel caso vogliano decidere di appoggiare un candidato; le aziende si esprimono non con le parole, ma con il denaro, dunque le aziende possono donare somme illimitate ai candidati. Un ragionamento molto semplice. Persino secondo John McCain, candidato repubblicano che perse contro Obama nel 2008, questa sentenza è “una delle decisioni peggiori della storia della Corte Suprema, che con la sua assoluta ignoranza della politica” ha determinato “un'inondazione di denaro nelle campagne elettorali, non trasparente e non rintracciabile.”

Un qualunque cittadino può registrare il suo Super PAC presso la commissione elettorale federale, dichiarando il sostegno per uno dei candidati. Una volta creato, il Super PAC può raccogliere qualsiasi donazione, da parte di persone o aziende, senza alcun limite di finanziamento. Per esempio, Goldman Sachs potrebbe aver donato un miliardo di dollari al Super PAC che sostiene Mitt Romney. La cosa divertente è che nessuno lo saprebbe. Infatti l'unico obbligo è di rendere note le donazioni ogni tre mesi, ma basta scegliere la scadenza dei tre mesi in modo oculato. I candidati repubblicani hanno deciso di pubblicare la lista dei donatori non prima, ma dopo le recenti primarie in Iowa, tanto per essere sicuri che i loro elettori del Tea Party, infuriati con le grandi banche, non scoprissero che i portafogli dei loro beniamini sono stracolmi di soldi di Wall Street.

Ci sono persino casi ai confini della realtà, come quello del Super PAC della mitica Sara Palin. Com'è possibile che anche lei abbia un Super PAC, visto che non si è candidata? In realtà, Sara Palin o chi per lei registrò un bel Super PAC l'anno scorso, che iniziò a incanalare un grossissimo volume di denaro per far partire la campagna elettorale. La Palin usò le donazioni per comprare un bus e finanziare il suo viaggio attraverso i luoghi storici degli Stati Uniti e una lunga serie di comizi in tutto il Paese. Peccato che, venuto il momento di annunciare la sua candidatura, Sara Palin decise di... non farlo. Lasciando tutti di stucco, con una colossale figuraccia. A parte un piccolo particolare: si è tenuta i soldi!

L'attuale legislazione sui Super PAC è talmente scandalosa che il famoso comico Stephen Colbert ha deciso di farne un colpo di teatro. Dopo aver ottenuto l'autorizzazione dalla commissione elettorale ad aprire il suo Super PAC, ha deciso di usarlo per “sostenere” la campagna del governatore repubblicano del Texas Rick Perry, noto con il nomignolo “George Bush con gli steroidi.” Chiedendo donazioni ai telespettatori del suo seguitissimo programma di satira The Colbert Report, il comico continua a raccogliere decine di migliaia di dollari. Usati per mandare in onda finti spot elettorali in favore di Perry, che in realtà sbugiardavano le bassezze fasciste e l'ignoranza bieca del candidato repubblicano. Chiedendo fra l'altro ai suoi telespettatori di andare a votare per lui e di scrivere sulla scheda non Perry ma “Parry con la A, come in America!”

Risultato: centinaia di voti per Rick Parry nella fiera dell'Iowa “straw poll,” un'anteprima delle primarie, voti che però sono stati conteggiati comunque a favore del governatore del Texas. Un vero spasso.

di Carlo Musilli

Si è chiuso in Egitto il terzo turno delle elezioni parlamentari, le prime dopo la caduta del dittatore Hosni Mubarak, avvenuta l'11 febbraio dello scorso anno. E mentre ieri, nel processo contro l'ex Presidente, il pubblico ministero chiedeva la condanna alla pena di morte, gli occhi degli egiziani erano già puntati sui primi risultati ufficiali delle consultazioni, che però arriveranno solo a fine mese.

I grandi favoriti per il successo finale rimangono comunque i partiti d'ispirazione islamica: Al-Naour, formazione salafita, e soprattutto Giustizia e Libertà, la lista dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi hanno ottenuto il maggior numero di voti nei primi due turni, in parte grazie alle varie promesse di stabilità fatte negli ultimi mesi, che sembrano aver attecchito fra diversi strati della popolazione egiziana. La loro eventuale affermazione rischia però di esacerbare le già gravi tensioni politiche sul fronte interno come su quello internazionale, complicando ulteriormente i rapporti con Israele.

Fra martedì e mercoledì sono stati circa 14 milioni i cittadini chiamati alle urne, ma l'affluenza è stata bassa. In particolare, si sono espressi i residenti nelle nove regioni intorno al Sinai, al delta del Nilo e nel Sud rurale a maggioranza copta. Hanno votato per eleggere 498 parlamentari dell'Assemblea del Popolo, la Camera dei deputati (o Camera bassa) dell'Egitto.

Nonostante la vittoria dei Fratelli Musulmani sembri ormai già scritta agli occhi di molti, sono ancora diversi i dubbi da sciogliere. Innanzitutto, i governanti militari non hanno fatto luce sui criteri che saranno utilizzati per distribuire i seggi in relazione ai voti ottenuti. Non è un dettaglio di poco conto: potrebbe fare la differenza fra un governo islamico a maggioranza assoluta e un governo di coalizione.

Da tempo la Fratellanza ripete di non attendersi un'affermazione superiore al 40% e di puntare quindi sulla strada dell'alleanza con altri partiti. Questi buoni propositi non hanno nulla a che fare con un atteggiamento realmente democratico, ma sono utili a tranquillizzare gli animi delle potenze occidentali e dei liberali egiziani, terrorizzati dalla possibilità di veder nascere un governo interamente islamico.

E' probabile inoltre che i Fratelli Musulmani vogliano spartire con altri le responsabilità che si dovranno assumere in un periodo di transizione molto difficile per il Paese, sia dal punto di vista istituzionale sia da quello economico. Per queste stesse ragioni la Fratellanza preferirebbe allearsi con i liberali piuttosto che con gli ultra-conservatori salafiti, anche se proprio la forza dimostrata da questi ultimi rappresenta fin qui la più grossa sorpresa emersa dalle urne.

Altro nodo decisivo per il futuro dell'Egitto è il potere che sarà effettivamente attribuito al nuovo Parlamento. I militari hanno già fatto sapere che intendono tenere per sé l'autorità di revocare il primo ministro, per poi nominarne uno ad interim. L'assemblea appena eletta dal popolo si rivelerebbe così poco più di un fantoccio ostaggio dell'esercito, con buona pace dei partiti.

I Fratelli musulmani però continuano a ostentare forza e intransigenza: "Questo Parlamento seguirà i principi che hanno ispirato la rivoluzione, garantendo la libertà e la fine della legge di emergenza - ha detto Mohamed Elbeltagy, un esponente di Giustizia e Libertà -. Per assicurare il processo democratico, c’impegneremo affinché l’elezione presidenziale conduca verso la fine del potere dell’esercito".

Intanto, sullo scacchiere mediorientale la situazione si fa sempre più tesa. In un'intervista al quotidiano arabo Al-Hayat, il leader della Fratellanza, Rashad Bayoumy, ha ribadito la dura posizione del gruppo nei confronti di Gerusalemme: “Riconoscere Israele è una precondizione per governare? Questo non è possibile, le circostanze non hanno importanza. Non riconosciamo Israele nel modo più assoluto. È un nemico criminale e occupante”.

Bayoumy ha poi specificato che nessun membro del suo partito si siederà a un tavolo di trattative con gli israeliani. Anzi, i Fratelli Musulmani intendono perfino organizzare un referendum (il cui esito sarebbe quasi certamente favorevole) per chiedere agli egiziani di rinnegare il trattato di pace con Israele. Quello firmato nel 1979, pochi mesi dopo gli accordi di Camp David siglati sotto la mediazione del presidente americano Jimmy Carter. Per un Paese che dovrebbe guardare avanti, non si potrebbe immaginare un inizio peggiore.

di Michele Paris

A oltre due mesi dalla cattura e dall’assassinio di Muammar Gheddafi, la situazione in Libia non sembra aver fatto molti passi verso la tanto attesa transizione “democratica”. I sanguinosi scontri che continuano a verificarsi soprattutto nelle strade di Tripoli raccontano piuttosto di un paese ancora nell’anarchia e in mano alle milizie armate che, grazie all’appoggio determinante delle forze NATO, avevano provocato la caduta del precedente regime.

Le decine di gruppi armati formatisi sotto l’impulso dei paesi occidentali e dei loro alleati nel mondo arabo, in prima linea contro Gheddafi, si ritrovano ora con vasti arsenali a disposizione e nessuna intenzione di sottomettersi all’autorità centrale rappresentata dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT). Ognuna di queste milizie controlla un proprio settore nella capitale e, spesso, si fronteggiano l’un l’altra a colpi di arma da fuoco per cercare di estendere le rispettive zone di influenza. La conservazione delle armi serve anche a garantire loro uno strumento di pressione sul governo provvisorio, così da ottenere maggiori concessioni all’interno del nuovo sistema statale libico.

Lo strapotere delle milizie, conseguenza anche della struttura tribale della società libica, rischia però di gettare il paese in una sanguinosa guerra civile, come ha ammesso qualche giorno fa durante un incontro pubblico a Bengasi lo stesso presidente del CNT, Mustafa Abdel Jalil. Per stessa ammissione di quest’ultimo, i progressi fatti dalle autorità centrali con la creazione di un nuovo esercito e di una nuova forza di polizia sono molto lenti. “Non esiste sicurezza perché i combattenti non hanno consegnato le loro armi, nonostante le possibilità che abbiamo dato loro di farlo tramite i consigli locali”, ha affermato l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi.

Gli scontri tra le milizie avvengono in genere quando i membri di un gruppo di ex ribelli sconfinano nel territorio controllato da una banda rivale, oppure quando si rifiutano di fermarsi ad un posto di blocco o ancora quando vengono arrestati. Proprio quest’ultimo motivo sembra aver scatenato il più recente conflitto tra gli appartenenti a due milizie in una delle strade più affollate di Tripoli e che ha spinto Jalil a sollevare lo spettro della guerra civile.

Secondo alcune ricostruzioni, quando martedì scorso una milizia di Tripoli ha proceduto all’arresto di alcuni combattenti di Misurata, i compagni di questi ultimi avrebbero attaccato con armi pesanti l’edificio dove erano detenuti. Un’altra testimonianza sostiene invece che le due milizie si sarebbero affrontate per il controllo dell’edificio assaltato, già sede di una unità di intelligence del vecchio regime. In seguito al confronto a fuoco, ad ogni modo, sono state uccise quattro persone.

Tra gli altri episodi più gravi, va ricordato anche lo scontro tra due gruppi armati lo scorso novembre presso un ospedale di Tripoli. In seguito al dilagare delle violenze, il premier ad interim, Abdurrahim El-Keib, aveva successivamente imposto un ultimatum alle milizie, imponendo loro di lasciare la capitale entro il 20 dicembre. Nonostante lo smantellamento di numerosi check-point entro quella data, varie bande armate di ex ribelli continuano tuttavia a controllare la città.

A Tripoli le due principali milizie tuttora attive sono quelle sotto il comando dell’ex jihadista - nonché già sottoposto a “rendition” dalla CIA - Abdel Hakim Belhadj e di un suo rivale, Abdullah Naker. Altre fazioni controllano poi i punti nevralgici della capitale ed ognuna di esse riunisce gli ex ribelli provenienti da una specifica località del paese. Così, ad esempio, la milizia di Zintan è installata nell’area dell’aeroporto internazionale, mentre quella di Misurata, dopo aver lasciato il centro città, si è trasferita in una zona periferica.

Per cercare di porre fine all’anarchia, il CNT all’inizio di quest’anno ha nominato il capo di stato maggiore del nuovo esercito nazionale, una condizione che le stesse milizie avevano chiesto per acconsentire a deporre le armi ed essere assorbite nell’esercito stesso. Il generale di Misurata Yousuf al-Manqoush ha subito fatto sapere che le procedure per l’assimilazione degli ex combattenti nell’esercito sono quasi pronte e che, una volta emanate le disposizioni, le milizie dovranno decidere se adeguarsi al nuovo ordine oppure continuare a sfidare le autorità centrali col rischio di far precipitare il paese nella guerra civile.

La situazione in Libia, in ogni caso, sembra tutt’altro che promettente e il persistere delle violenze minaccia quanto meno di ritardare l’assalto alle risorse del paese per le quali lo scorso mese di marzo è stata scatenata la guerra contro Gheddafi. Il caos prodotto dalla presenza delle milizie armate a Tripoli e altrove conferma inoltre l’irresponsabilità dei governi di Washington, Parigi e Londra, i quali hanno fatto ampio affidamento su combattenti di ogni sorta per rovesciare il regime (estremisti islamici compresi), senza preoccuparsi affatto della sicurezza o dei diritti umani della popolazione libica che, ufficialmente, pretendevano di voler difendere.

di Michele Paris

Con i consueti caucus dell’Iowa, negli Stati Uniti si è aperta la stagione delle primarie del partito repubblicano che decideranno lo sfidante di Barack Obama nelle presidenziali del prossimo novembre. In una sfida caratterizzata come sempre da un’affluenza irrisoria e da campagne milionarie, a spuntarla per una manciata di voti è stato il favorito per la nomination, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney, il quale tuttavia non è stato in grado di superare le profonde perplessità che la sua candidatura suscita ancora in molti ambienti del partito.

Come avevano indicato i sondaggi della vigilia, Romney ha quindi fallito l’obiettivo di conquistare una vittoria limpida e scrollarsi di dosso i rivali più agguerriti già dalle prime battute della competizione per guardare con maggiore tranquillità agli appuntamenti futuri. Alla chiusura dei seggi nello stato del Midwest, è apparso subito chiaro che a giocarsi il primo posto sarebbero stati Romney e l’ex senatore della Pennsylvania, Rick Santorum, per quasi tutta la notte separati da pochissimi voti. Solo dopo la mezzanotte il partito repubblicano dell’Iowa ha potuto dichiarare Romney vincitore con otto voti di vantaggio sull’immediato rivale. Il primo ha alla fine collezionato 30.015 voti (24,6%), mentre Santorum si è fermato a 30.007 (24,5%).

Per Romney si tratta di una rivincita in uno Stato dove, quattro anni fa, aveva assistito all’inizio della fine delle sue speranze di conquistare la nomination repubblicana. In quell’occasione, Romney era giunto secondo dietro all’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, dopo aver investito parecchi milioni di dollari nella competizione. Assimilata la lezione del 2008, quest’anno Romney ha invece mantenuto un basso profilo in Iowa fino a novembre, quando i sondaggi e i guai dei rivali repubblicani hanno fatto intravedere un’occasione che il suo staff ha colto al volo per intensificare l’impegno nello stato.

Dopo la rapida ascesa e l’altrettanto immediata caduta nei sondaggi di svariati candidati considerati alternativi ad un Romney non ancora completamente accettato dall’ala conservatrice del partito, nei giorni precedenti i caucus dell’Iowa era toccato a Rick Santorum godere del proprio momento di popolarità. Vero e proprio outsider nella corsa alla nomination, l’ex senatore cattolico ultra-conservatore aveva tuttavia potuto contare su una solida organizzazione nello Stato, grazie alla quale il messaggio di una campagna elettorale condotta quasi interamente su temi sociali come l’opposizione all’aborto e ai matrimoni gay - legali in Iowa da quasi tre anni - ha trovato terreno fertile tra molti elettori.

Ai caucus repubblicani dell’Iowa, infatti, partecipano tradizionalmente soprattutto i settori più retrogradi e conservatori del partito che quest’anno hanno appunto favorito in larga misura Santorum. I risultati finali, in ogni caso, dimostrano come il voto dei fondamentalisti cristiani non si sia del tutto coagulato attorno ad un unico candidato, com’era accaduto nel 2008 con Huckabee, ma si sia in parte disperso, favorendo così il successo di Romney.

L’affermazione più che stentata di quest’ultimo, d’altro canto, conferma le sue difficoltà ad affermarsi come front-runner indiscusso, soprattutto perché gli elettori più conservatori appaiono quest’anno meno disposti a turarsi il naso e a votare per un candidato relativamente moderato rispetto a quattro anni fa, quando appoggiarono John McCain. Il punto di forza di Romney rimane comunque, oltre alla netta superiorità delle risorse finanziarie a disposizione, la cosiddetta “eleggibilità”, cioè la presunta capacità di fare appello agli elettori indipendenti in un’ipotetica sfida contro Obama.

Dietro a Romney e a Santorum (il quale difficilmente sarà in grado di tenere il passo di altri candidati meglio finanziati nelle prossime settimane) si è classificato il deputato libertario del Texas, Ron Paul, con il 21,4% dei consensi. Il 76enne candidato indipendente alla Casa Bianca nel 2008 ha beneficiato di una rete di sostenitori molto agguerrita nello Stato e, in particolare, il suo pacifismo e la contrarietà all’interventismo USA all’estero hanno fatto presa sugli elettori più giovani. Pur essendo il candidato che si batte maggiormente per un modello ultraliberista e per la riduzione estrema delle prerogative del governo, Ron Paul è attestato su posizioni che lo collocano addirittura a sinistra di Obama sui temi della sicurezza nazionale e perciò diametralmente opposte a quelle della maggior parte dei repubblicani.

I caucus dell’Iowa hanno anche fatto segnare le prime probabili vittime della corsa alla Casa Bianca del 2012, a cominciare dal governatore del Texas ed ex favorito della scorsa estate, Rick Perry. Già penalizzato da una serie di pessime figure nel corso dei dibattiti televisivi dello scorso anno, Perry ha chiuso i caucus al quinto posto con un misero 10,3%, nonostante fosse il candidato che ha speso di più nello Stato assieme a Romney. Perry ha annunciato di voler tornare in Texas per riflettere sulla sua candidatura, una dichiarazione che spesso rappresenta l’anticamera del ritiro.

Molto male è andata anche per un’altra ex beniamina dei Tea Party, la deputata del Minnesota Michele Bachmann. Gli elettori che hanno votato per lei in Iowa sono stati appena sei mila (5%) dopo che lo scorso mese di agosto aveva vinto il cosiddetto “Ames Straw Poll”, una consultazione informale tra i sostenitori repubblicani che si tiene nel campus dell’università statale dell’Iowa. Malgrado la batosta e le misere prospettive, la Bachmann aveva inizialmente promesso ai suoi sostenitori di volerrimanere in corsa, per poi decidere mercoledì di lasciare definitivamente.

Il primo appuntamento elettorale del 2012 negli Stati Uniti era atteso altresì per valutare l’impatto delle “Super PAC”, quei gruppi cioè che fanno campagna elettorale per un determinato candidato pur non potendo coordinare con quest’ultimo la loro attività di propaganda. Dietro alle Super PAC ci sono in genere ricchi finanziatori ai quali una storica sentenza della Corte Suprema del gennaio 2010 (“Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”) ha dato facoltà di spendere in maniera illimitata senza alcun obbligo di rivelare la loro identità.

In Iowa queste Super PAC (Political Action Committee) hanno infatti speso più dei candidati stessi e a farne le spese è stato soprattutto Newt Gingrich. Dopo un’imprevista impennata nel gradimento in questo Stato, l’ex speaker della Camera è stato bersagliato da una valanga di messaggi pubblicitari negativi finanziati dalle Super PAC vicine a Mitt Romney e a Rick Perry, le quali hanno incessantemente ricordato agli elettori il suo passato di lobbista e una parcella da 1,6 milioni di dollari che aveva ricevuto dal gigante semi-pubblico dei mutui Freddie Mac per un’attività di consulenza. In seguito a questi attacchi, Gingrich è finito al quarto posto nei caucus (13,3%), anche se ha promesso battaglia nei prossimi appuntamenti elettorali.

Gingrich è dato infatti in vantaggio in Carolina del Sud, dove le importanti primarie sono in programma il 21 gennaio. Questo Stato non sarà decisivo solo per lui, ma anche per gli altri candidati che intendono raccogliere i voti dei conservatori. Per lo stesso Romney, dato invece per sicuro vincitore nelle primarie del New Hampshire del 10 gennaio, la Carolina del Sud sarà un test importante, dal momento che qui si misurerà la sua capacità di fare appello ad una fetta dell’elettorato che nutre ancora parecchi dubbi sulla sua candidatura.

Per quanta attenzione i media d’oltreoceano abbiano dedicato alla competizione in Iowa, va detto che la partecipazione ai caucus è stata minima. Ai seggi si sono recate poco più di 120 mila persone - più o meno come nel 2008 - vale a dire appena il 4 per cento della popolazione dello Stato. Numerosi sono stati infatti gli eventi organizzati dai vari candidati nei quali erano presenti più giornalisti che sostenitori e potenziali elettori. A conferma della scarsa attenzione prestata all’evento dalla stragrande maggioranza degli abitanti, inoltre, il vincitore dei caucus, Mitt Romney, ha incassato quest’anno solo 66 voti in più rispetto al 2008, quando fu staccato di quasi dieci punti percentuali da Huckabee.

A rendere ancora più anti-democratico il processo di selezione del prossimo candidato repubblicano alla Casa Bianca è stato poi il ruolo decisivo giocato dalle enormi quantità di denaro sborsate nel corso della campagna elettorale. Secondo i dati ufficiali, i contendenti repubblicani hanno speso quest’anno in Iowa la cifra record di 12,5 milioni di dollari, ovvero più di 100 dollari per ogni voto espresso.

L’aspetto più desolante, infine, è stata la totale assenza dal dibattito politico dei reali problemi che affliggono la maggioranza degli americani costretta a fare i conti con la crisi economica in atto. I veri bisogni della massa di disoccupati, lavoratori al limite della povertà e classe media in affanno, non sono stati minimamente presi in considerazione da una schiera di candidati che si sono resi protagonisti, piuttosto, di una gara a chi prometteva più tagli alla spesa pubblica e alle tasse per quella minoranza di privilegiati di cui unicamente rappresentano gli interessi.

di Michele Paris

Di fronte alla continua erosione dei diritti democratici causata dalle politiche del governo conservatore ungherese del premier Viktor Orbán, lunedì scorso la società civile e i principali partiti di minoranza del paese hanno dato vita ad una manifestazione di protesta nel cuore di Budapest. Decine di migliaia di ungheresi si sono riuniti di fronte al Teatro dell’Opera, proprio mentre all’interno andavano in scena i festeggiamenti per l’entrata in vigore della nuova Costituzione che sancisce una preoccupante concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo.

La cosiddetta “legge fondamentale” era stata approvata lo scorso mese di aprile con i soli voti del partito di governo (Fidesz), il quale può contare sui due terzi dei seggi in Parlamento grazie alla vittoria schiacciante nelle elezioni del maggio 2010 ai danni di un partito socialista ampiamente screditato. La nuova Costituzione - che toglie significativamente la parola “Repubblica” dal nome ufficiale del paese - è già stata duramente criticata anche dai vertici dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti, preoccupati per l’evidente indebolimento dei meccanismi di controllo democratici e il venir meno della separazione dei poteri in diversi ambiti.

La manifestazione del 2 gennaio è risultata sostanzialmente pacifica, anche se ci sono stati alcuni momenti di tensione causati dalla presenza di un gruppo di appartenenti al partito di estrema destra Jobbik che ha tenuto una propria dimostrazione nelle vicinanze.

Anche se in Ungheria negli ultimi mesi ci sono già state svariate manifestazioni contro la svolta autoritaria del governo Orbán, quella di lunedì è stata la prima che ha fatto registrare una presenza così massiccia, nonché la partecipazione sia di diversi gruppi della società civile che dei partiti dell’opposizione.

I segnali di una reazione degli ungheresi alle iniziative del gabinetto sostenuto da Fidesz erano stati d’altra parte molteplici in queste settimane. Poco prima di Natale, ad esempio, parlamentari e attivisti del partito socialista (MSZP) e dei verdi (LMP) avevano cercato di bloccare l’approvazione di una nuova legge elettorale e altre misure anti-democratiche. Gli scontri seguiti con la polizia avevano portato in quell’occasione all’arresto di alcuni politici, tra cui il due volte ex primo ministro socialista Ferenc Gyurcsany.

L’ultimo giorno dell’anno, poi, di fronte al Parlamento si è svolta una manifestazione a sostegno dei giornalisti della TV pubblica ungherese, in sciopero della fame dal 9 dicembre per protestare contro la nuova legge sul controllo dei media.

Oltre alla riscrittura della costituzione, in diciotto mesi di governo il partito di centro-destra Fidesz ha intrapreso una serie di altre misure che hanno progressivamente ridotto le libertà e le garanzie democratiche in Ungheria. Le leggi promosse da Viktor Orbán, il quale è anche uno dei vice-presidenti del Partito Popolare Europeo, hanno, tra l’altro, “riformato” il sistema giudiziario dando maggiori poteri al governo nella nomina dei giudici, ristretto il campo d’azione della Corte Costituzionale, posizionato ai vertici degli organi dello stato uomini di Fidesz, sottoposto al controllo dell’esecutivo i media pubblici e privati, ridotto l’indipendenza della Banca Centrale ungherese e i poteri del suo governatore.

Proprio la legge recentemente approvata sulla Banca Centrale ha suscitato le più dure proteste di Bruxelles ed è giunta dopo i ripetuti scontri tra il governo e il governatore dello stesso istituto, Andras Simor. Il conflitto più recente è avvenuto all’inizio dell’anno attorno alla reale entità del debito pubblico ungherese. Lunedì scorso, la Banca Centrale ha reso noto le proprie cifre ufficiali, ottenute seguendo metodi di calcolo in linea con le direttive europee. In base ad essi, il debito totale del paese ammonterebbe così all’86,2 per cento del PIL ungherese, cioè ben al di sopra del tetto del 60 per cento stabilito per i membri UE.

Per tutta risposta, il governo Orbán ha sostenuto che le cifre sono state ricavate con metodi “non professionali”, poiché a suo dire la Banca Centrale avrebbe calcolato il PIL in fiorini, mentre una parte significativa del debito ungherese è in valuta estera. Per il Wall Street Journal, è la prima volta che un governo ungherese critica in maniera così esplicita la Banca Centrale sulla questione della portata del debito pubblico.

Secondo il primo ministro, in ogni caso, la riforma della Banca Centrale, la nuova Costituzione e le altre leggi adottate dal suo governo, oltre ad essere il mantenimento del programma elettorale di Fidesz, segnano la fine di una necessaria transizione “democratica” nel paese, iniziata nel 1989 con la caduta del regime stalinista.

Non così sembrano pensarla, invece, la comunità internazionale e la gran parte dei cittadini ungheresi che assistono pressoché impotenti allo smantellamento di un sistema democratico nel cuore dell’Europa. Secondo un sondaggio condotto durante la prima metà di dicembre dall’ungherese Szonda Ipsos, il gradimento di Fidesz è infatti crollato al 18 per cento, dal 42 per cento registrato un anno e mezzo fa.

Nonostante la perdita di consensi, Fidesz rimane la prima formazione politica in Ungheria, grazie soprattutto al discredito dei partiti dell’opposizione (i socialisti sono attestati su un misero 11 per cento). Questi numero disegnano una realtà desolante, nella quale la maggioranza degli ungheresi non si sente rappresentata da nessuna forza politica e che contribuisce a spiegare la pericolosa deriva autoritaria in atto in questo paese.


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