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di Mario Braconi
Sono molti i temi affrontati nel corso degli incontri tra rappresentanti dei governi americano e turco avvenuti tra lunedì e martedì a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York: gli attuali pessimi rapporti tra Ankara ed Israele, la possibile esplosione di una guerra civile in Siria, le rinnovate tensioni su Cipro e, inevitabilmente, la questione della nazione palestinese portata all’attenzione delle Nazioni Unite. Le tensioni tra i due alleati NATO ci sono, e si sentono: Hillary Clinton non ha fatto mistero della preoccupazione americana sul grave deterioramento dei rapporti tra la Turchia e Israele, specificando che in questo specifico momento non è desiderabile un aumento di tensione in Medio Oriente.
Maggiore sintonia si registra tra le posizioni di Obama ed Erdogan sul caso Assad: da quando il premier turco ha preso una netta posizione contro i “regimi di violenta repressione” del dissenso, su questo tema è tornato il sereno. Tensioni permangono inevitabilmente sul tema dello showdown con Israele e sul pieno appoggio turco alla decisione dell’Autorità Palestinese di continuare la sua lotta per lo stato palestinese alle Nazioni Unite. Educatamente respinte al mittente dagli Americani, invece, le parole del ministro degli esteri turco Davutolu che, discutendo la decisione della parte greca di Cipro di dare il via a ricerche di gas nel Mediterraneo orientale, ha parlato di “provocazione”.
Da un punto di vista di strategia politica, potrebbero essere proprio i punti di dissenso con gli americani più che quelli di sintonia a rendere cruciale la figura di Recep Tayyip Erdo?an nel futuro prossimo del Medio Oriente. Innanzitutto, con la primavera araba (in particolare dopo la caduta di Mubarak) è evidente l’attivismo con cui il premier turco si sta muovendo sullo scacchiere del Medio Oriente, per accreditare il suo paese come potenza di riferimento nel mondo islamico. In questo senso va interpretato il suo recente tour in Egitto, Tunisia e Libia; perfino il modo muscolare con il quale ha affrontato la questione della Mavi Marmara tradisce l’intenzione di aumentare in modo facile la sua popolarità nei paesi islamici.
Del resto, se Erdogan è diventato famoso “come una rockstar” é anche grazie alla sua passione per le boutade grossolane ad alto gradimento delle masse. Bisogna però dire che, come ricorda Owen Matthews su The Daily Beast, questo atteggiamento qualche volta si traduce in un boomerang: ricordiamo ad esempio la volta in cui definì Hamas un gruppo di “combattenti per la libertà”. Eppure, al di là degli errori politici e dei difetti personali, è essenziale che gli Stati Uniti - ma anche tutti i paesi occidentali nominalmente interessati allo sviluppo di una compiuta democrazia nei paesi islamici - prendano atto del peso politico delle posizioni espresse dal primo ministro turco nel corso della sua visita in Tunisia: “La Turchia è uno stato democratico, laico e sociale.
Per quanto riguarda la laicità, uno stato laico mantiene l’equidistanza rispetto a tutti i gruppi religiosi, inclusi musulmani, cristiani, ebrei e atei.” Va detto che la sua storia decennale di contrasto agli estremisti laicisti è stata confermata in diverse occasioni e non tutte degne di patenti democratiche: colpi di Stato ed annullamento di risultati elettorali, fino al risultato ottenuto nel 2008 con l’abolizione del divieto di indossare il velo nelle università turche.
Eppure, l’ambasciatore israeliano ad Ankara, secondo il contenuto di un cablo di pubblicato da Assange arrivò a definire Erdogan “un pericoloso estremista islamico che ci odia dal punto di vista religioso”. Forse non è in errore Matthews quando definisce la Turchia di Erdogan “la nuova superpotenza mediorientale”: un paese a maggioranza assoluta islamica che ha raddoppiato il suo prodotto interno lordo in meno di un decennio e che può costituire un modello per le nuove democrazie arabe.
I Paesi islamici hanno bisogno di sentir parlare di diritti e di libertà da qualcuno che sentano vicino, specie dopo anni in cui le parole “libertà” e democrazia sono state spese da personaggi come Bush, divenendo sinonimo di guerra e abusi. E sarebbe bene che anche Israele comprendesse che normalizzare i rapporti con l’ex alleato, anche a costo di qualche passo indietro, è anche nel suo interesse.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. I tempi sono cambiati. “Un anno fa, da questo podio avevo chiesto la creazione di una Palestina independente, ricorda Barack Obama all'Assemblea Generale dell'ONU, credevo allora come ora che il popolo palestinese meriti il proprio Stato”. Ma ora evidentemente ha cambiato idea. Il suo discorso alle Nazioni Unite è stato un tale capolavoro di voltafaccia che forse il comitato del Nobel starà pensando come riprendersi indietro il premio. Chi è stato a far cambiare idea a Obama, un anno fa favorevole e ora contrario all'indipendenza palestinese?
La settimana scorsa, ci sono state le elezioni suppletive per il Congresso a Brooklyn e Queens. Si votava per il seggio abbandonato dal democratico Anthony Weiner, dimessosi dopo l'ennesimo scandalo sessuale. In questo distretto, i democratici superano i repubblicani tre a uno. Sorpresa: ha vinto il repubblicano, facendo una campagna elettorale concentrata su Israele. E saccheggiando tutti i voti della grande comunità ebraico-ordossa, tradizionalmente democratica. Chi ha orecchie per intendere...
A meno di improbabili ripensamenti dell'ultimora, Abbas lancerà la bomba a mano venerdì: la richiesta al Consiglio di Sicurezza di riconoscimento dello Stato Palestinese. Il toto big è presto fatto: Cina e Russia a favore, gli Stati Uniti metteranno il veto, Francia e Inghilterra indecisi fino all'ultimo minuto. Abbas deve raccogliere almeno nove sì tra i quindici Paesi nel Consiglio di Sicurezza, una maggioranza che costringerebbe gli Stati Uniti a porre il veto creando un enorme imbarazzo diplomatico per Obama.
Tra gli altri Paesi favorevoli ci sono i Sudamericani (ad eccezione della Colombia) i Paesi Arabi, la Turchia e la Spagna, con il resto dell'Europa indeciso (che sorpresa...). La cosa interessante è che in tutti i Paesi, inclusi quelli contrari e indecisi, i sondaggi danno un costante settanta per cento della popolazione a favore del riconoscimento dello Stato Palestinese. In questa nuova partita di risiko il solco tra Vecchio e Nuovo Mondo è lampante.
I Paesi un tempo detti emergenti, superata la crisi finanziaria che sta deragliando l'Occidente, stanno iniziando a far sentire il proprio peso. Abbas, per una volta, sta preparando quello che sembra un gioiello diplomatico. A far sembrare Abbas un gigante tra gli statisti però, è tutto merito del premier israeliano Netanyahu, la cui sanità mentale sembra ormai andata, dopo la serie di fallimenti clamorosi collezionati negli ultimi anni.
Lo stato ebraico non si è mai trovato così isolato dai tempi della guerra dei sei giorni, ora che Turchia, Egitto e Giordania hanno sospeso le loro relazioni diplomatiche. Essendo gli ultimi due gli unici Paesi confinanti con cui Israele aveva relazioni diplomatiche, ed il primo l'unico Paese musulmano nella NATO, l'isolamento è letteralmente su tutte le frontiere di terra e di mare. Un bel colpo.
I diplomatici israeliani, non avendo idea di come uscire dal cul de sac da loro stessi preparato, ne hanno pensata una bella. Martedì sera giravano per il Palazzo di Vetro, al di fuori delle aule dove si stavano svolgendo i negoziati, minacciando a gran voce che se Abbas presenterà una mozione per lo Stato Palestinese, allora Israele chiederà al Consiglio di Sicurezza l'annessione di tutta la West Bank. Non resta che far loro i più sinceri auguri!
Il convitato di pietra, ovviamente, è la popolazione araba in rivolta, che in pochi mesi ha stravolto tutti gli equilibri post guerra fredda che ancora congelavano l'area. Laddove UE e Stati Uniti, alle prese con l'austerity, stringono i cordoni degli aiuti all'ANP, Russia - e soprattutto Cina - macinano incontri con i Palestinesi e si propongono come campioni della causa. Hanno capito che aria tira in Medioriente e vogliono essere sicuri al cento per cento che, una volta che la rivoluzione araba decollerà anche nel Golfo, la popolazione saudita liberata si ricorderà dei veri amici.
La parte del leone ovviamente la fa la Turchia. Erdogan, fresco di riconferma elettorale, ha deciso di trasformare il proprio paese in una potenza regionale. I tempi in cui la Turchia doveva mendicare un posto a Bruxelles per vedersi però sbattere la porta in faccia sono quanto mai lontani. Ora è la Turchia a dettare legge in Medioriente, dalla Siria a Israele alla Libia, passando per il nuovo Egitto. L'Occidente impotente non può far altro che alzare la voce, ma i Paesi emergenti cominciano a sospettare che ormai il cane, che pure che abbaia, non morde più: ha perso i denti e non ha più neanche un soldo per comprarsi una dentiera.
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di Michele Paris
Di fronte a proteste e manifestazioni andate in scena in mezzo mondo, gli Stati Uniti hanno messo ancora una volta in mostra il loro aspetto più brutale quando, nella tarda serata di mercoledì, hanno portato a termine l’esecuzione di Troy Davis in un carcere della Georgia. Il 42enne detenuto di colore, nel braccio della morte da 22 anni, era stato condannato per un omicidio commesso nel 1989 in seguito ad procedimento legale a dir poco discutibile, durante il quale erano stati palesemente calpestati i suoi diritti di cittadino di un paese democratico.
Proclamatosi innocente fino all’ultimo, Davis è deceduto alle 23.08 ora locale, dopo che gli sono state somministrate le tre sostanze previste dalla procedura dell’iniezione letale. Poco prima di morire, il condannato ha guardato negli occhi i familiari della vittima presenti nella stanza, ribadendo la sua innocenza. “Non ho ucciso personalmente vostro figlio, padre, fratello”, sono state le ultime parole di Davis. “Quello che vi chiedo è che continuiate a fare chiarezza su questo caso, così da arrivare finalmente a trovare la verità”.
La sorte di Troy Davis era stata irrevocabilmente stabilita martedì scorso, quando la Commissione per la Grazia e la Libertà sulla Parola dello Stato della Georgia aveva respinto in maniera definitiva un appello dei suoi legali per fermare l’esecuzione e indire un nuovo processo. Negli ultimi due decenni, Davis era già stato ad un passo dalla morte, ma in tre occasioni erano giunte sospensioni dell’ultimo minuto per fare luce sulla sua presunta colpevolezza.
I dubbi sulla correttezza del procedimento a carico di Davis erano infatti numerosi, tanto che più di 600 mila persone avevano firmato una petizione per bloccare la sua condanna a morte, tra cui personalità come l’ex presidente Jimmy Carter, l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e 51 membri del Congresso americano.
Troy Davis era stato condannato nel 1991 per l’assassinio di Mark McPhail, poliziotto fuori servizio che stava svolgendo un secondo lavoro come guardia giurata all’epoca dei fatti. In una serata del 1989, McPhail era intervenuto per soccorrere un senzatetto vittima di un’aggressione in un parcheggio di un fast-food a Savannah, in Georgia, quando venne colpito da un’arma da fuoco al volto e al cuore.
I legami di Troy Davis con l’omicidio di McPhail sono sempre stati esili. L’arma del delitto non venne mai ritrovata, né furono rinvenute impronte digitali, tracce di DNA o macchie di sangue di Davis sulla scena del crimine. Inoltre, almeno tre giurati che durante il processo si espressero per la per la pena capitale avevano successivamente firmato dichiarazioni giurate nelle quali dicevano di nutrire dubbi sulla correttezza del verdetto e che Davis non doveva essere condannato a morte.
Soprattutto, però, com’è stato inutilmente ripetuto durante l’udienza di lunedì scorso davanti alla Commissione della Georgia che ha espresso il parere definitivo sulla sorte di Davis, sette dei nove testimoni dell’accusa durante il primo processo a suo carico avevano ritrattato le loro deposizioni. Le loro testimonianze erano infatti state estorte sotto minaccia della polizia. Una testimone, addirittura, aveva sostenuto di aver sentito un certo Sylvester “Redd” Coles - il primo testimone ad identificare Davis come l’assassino - confessare di aver ucciso McPhail. Un’ipotesi confermata anche dalle dichiarazioni giurate di altri testimoni.
Oltre a tutto ciò, va ricordato che tra il 1991 e il 1996, durante i procedimenti di appello, a Troy Davis venne negata l’assistenza di un legale, poiché lo stato della Georgia non prevede l’assegnazione di un avvocato d’ufficio per gli imputati che non se ne possono permettere uno. Com’è successo poi a molti altri condannati a morte, le opzioni di Davis erano state ridotte dall’entrata in vigore di una legge del 1996 - ATEDP (“Antiterrorism and Effective Death Penalty Act”) - che limita severamente la possibilità di un condannato a morte di appellarsi al circuito delle corti federali americane.
Nell’agosto del 2009, in ogni caso, la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ad una corte federale di rivedere il procedimento contro Troy Davis e di riconsiderare le varie testimonianze. Nel giugno successivo, la Corte Federale del distretto di Savannah, presieduta dal giudice William Moore, venne dunque convocata. La Corte ascoltò le dichiarazioni dei testimoni che accusavano la polizia di averli costretti a coinvolgere Davis. Il giudice Moore, tuttavia, pur ammettendo che le testimonianze sollevavano qualche dubbio sulla sua condanna, decise che le nuove prove emerse non erano sufficienti per aprire un nuovo processo.
Quest’anno, infine, i legali di Troy Davis si sono appellati nuovamente alla Corte Suprema, la quale nel marzo scorso si è però rifiutata di prendere in considerazione il caso, senza aggiungere alcuna motivazione. All’approssimarsi dell’appuntamento con il boia, l’ultima speranza di fermare l’ingranaggio della morte di fronte ad un’ingiustizia così palese era rappresentata dalla Commissione per la Grazia e la Libertà sulla parola della Georgia. In questo Stato, infatti, il governatore non ha la facoltà di fermare le condanne capitali.
L’esecuzione di Troy Davis nel carcere statale di Jackson era in realtà prevista per mercoledì alle ore 19, ma è stata rimandata di qualche ora in attesa di un ultimo pronunciamento della Corte Suprema di Washington. Il più alto tribunale del paese non è però riuscito a mettere assieme una maggioranza di cinque giudici con il coraggio di fermare un vergognoso atto di violenza sanzionata dallo Stato, limitandosi invece ad emette un comunicato di poche parole che negava un atto di clemenza per il condannato.
In precedenza, sempre nella giornata di mercoledì, i legali di Davis avevano provato, senza successo, di convincere la Commissione a rivedere la propria decisione. Nessun esito ha avuto anche la richiesta fatta alle autorità della Georgia di sottoporre Davis alla macchina della verità. Le varie associazioni a difesa dei diritti civili, che hanno assistito Davis nella sua battaglia, avevano inoltre provato a percorrere altre strade, chiedendo un intervento del pubblico ministero del processo originario e del procuratore distrettuale della Contea di Chatham.
Significativo è stato infine anche il silenzio e il rifiuto di intervenire per salvare Troy Davis di Barack Obama, presidente di un paese che si rende responsabile quotidianamente di assassini mirati, torture, detenzioni segrete e bombardamenti indiscriminati contro civili in paesi non in guerra con gli Stati Uniti. Era distratto da altro?
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di Mario Braconi
Mentre nei Territori le scuole e gli edifici del governo restano chiusi per le dimostrazioni a favore della “marcia” di Abbas alle Nazioni Unite, l’Amministrazione americana, per bocca del suo Presidente e della sua diplomazia, si sforza come può di freddare ogni entusiasmo. Nel suo discorso all’Assemblea Generale, il presidente americano ha ammonito: “Non vi sono scorciatoie per porre fine ad un conflitto che si è protratto per decenni; non si otterrà la pace con dichiarazioni o risoluzioni ONU; se fosse così facile, sarebbe già stato fatto”.
Un’interessante posizione, che stride però con le dichiarazioni fatte dallo stesso presidente all’Assemblea Generale del 2010: “Quando ci ritroveremo in questo stessa assise l’anno venturo, c’è la possibilità che avremo un accordo che possa condurre all’ingresso di un nuovo membro delle Nazioni Unite, uno stato di Palestina indipendente e sovrano, che vive in pace con Israele”.
Benché le parole di Obama - si sono affrettati a precisare i suoi - erano da considerarsi più un auspicio che un impegno concreto, è evidente che in questo momento esse costituiscono un segnale chiarissimo della distanza tra le buone intenzioni di ieri e il nulla di fatto di oggi, e un’ottima occasione per i Palestinesi, che hanno buon gioco a definire quella frase ristoratrice “la promessa di Obama”. In questo senso è abbastanza ironico l’atteggiamento degli Stati Uniti che, ancora ieri, sempre per bocca del loro Presidente, continuavano a sostenere l’ovvio, cioè che Israeliani e Palestinesi debbano organizzare colloqui per accordarsi sulle questioni che li dividono, sempre tragicamente le stesse da sempre: confini, sicurezza, confini e Gerusalemme. Mentre languono da anni i negoziati, di cui si sono arrogati unilateralmente il monopolio.
C’è però da segnalare un elemento nuovo, che da solo sembra dare ragione all’insistenza palestinese nell’incardinare la lotta presso le Nazioni Unite. A quanto sembra, lo scalpore causato dall’iniziativa palestinese è riuscita nell’eroico obiettivo di svegliare dal coma un Paese europeo, di solito interessato a dimostrare al mondo di avere a cuore i problemi del mondo arabo. Nicolas Sarkozy ha mostrato segni di vita politica: “I Palestinesi non devono aspettarsi di ottenere un’associazione piena alle Nazioni Unite come stato membro [cosa che tra l’altro è impedita dal veto americano ndr]” ha dichiarato il presidente francese, ma ha paventato il rischio di un’ondata di violenza in Medio Oriente se tale veto verrà effettivamente posto.
A parte questa dichiarazione inutile e imbelle, Sarkozy ha messo sul piatto un possibile piano che si articolerebbe nel modo seguente: approvazione dello stato di osservatore all’Assemblea Generale (e per questo i Palestinesi non hanno bisogno del suo permesso e del suo sostegno, avendo già una maggioranza certa dell’assise), inizio di nuovi colloqui entro un mese, sei mesi per discutere dei confini e giungere ad un “accordo definitivo” che dovrebbe concretizzarsi entro un anno.
Non è dato sapere se la proposta di Sarkozy sia una boutade dettata solo dalla sua mania di protagonismo, o se invece verrà sostenuta con la necessaria forza e coerenza: ma il solo fatto che sia saltata fuori come un coniglio dal cilindro fa pensare che forse Obama sia in errore quando dice che la strada per la pace in Medio Oriente non possa passare (anche) per i corridoi del Palazzo di Vetro.
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di Michele Paris
In un’apparizione televisiva dal Rose Garden della Casa Bianca, lunedì scorso Barack Obama ha presentato l’ennesimo piano per la riduzione del colossale debito pubblico statunitense. Il nuovo progetto del presidente democratico prevede questa volta una riduzione della spesa pari a 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio, da raggiungere per mezzo di modesti aumenti delle tasse per i redditi più alti e “riforme strutturali” dei popolari programmi sanitari pubblici Medicare e Medicaid.
Per la maggior parte dei media americani, quella che Obama ha inaugurato ufficialmente con l’intervento di lunedì è una nuova fase della sua presidenza. L’inquilino democratico della Casa Bianca sarebbe cioè diventato più combattivo da qualche tempo, meno disposto al compromesso con i repubblicani e ben deciso a battersi per misure finalmente d’impronta progressista.
Il presunto nuovo corso di Obama, in realtà, appare più che altro dettato da opportunismo politico. In un momento di grave crisi del paese, gli indici di gradimento del presidente sono crollati drasticamente. Così, di fronte ad una base democratica profondamente delusa dalle mancate promesse di cambiamento e con l’inizio della campagna per la rielezione alle porte, Obama e i suoi strateghi hanno deciso di esibire il consueto tono populista cui il partito ricorre puntualmente all’approssimarsi del voto.
La “manovra” disegnata da Obama e da uno staff di consiglieri economici rinnovato da poco verrà trasmessa alla speciale Commissione bipartisan del Congresso già incaricata di proporre entro la fine dell’anno misure per ridurre il debito di 1.500 miliardi di dollari. Questa commissione, composta da sei parlamentari democratici e altrettanti repubblicani, è stata istituita nell’ambito dell’accordo trovato lo scorso mese di agosto per l’innalzamento del tetto del deficit americano e le sue conclusioni dovranno essere votate dal Congresso a fine dicembre senza possibilità di emendamenti.
In maniera insolita, nel corso del suo intervento pubblico Obama ha minacciato di esercitare il potere di veto nel caso sul suo tavolo dovessero giungere provvedimenti approvati dal Congresso che contengono esclusivamente tagli alla spesa pubblica. “Non darò il mio appoggio a nessun piano che farà pagare la riduzione del nostro deficit alla maggioranza dei cittadini americani”, ha spiegato il presidente. “Metterò il veto su qualsiasi legge che comporterà modifiche per coloro che fanno affidamento su Medicare senza aumentare la quota di entrate provenienti dagli americani più ricchi e dalle corporation”.
In altre parole, esclusivamente per convenienza politica, Barack Obama sosterrà provvedimenti che devasteranno programmi pubblici che coprono le spese sanitarie di decine di milioni di americani solo se saranno accompagnati da misure poco più che simboliche destinate ad aumentare modestamente il carico fiscale per i redditi più elevati.
La stessa Casa Bianca, però, ha ammesso che le proprie iniziative per innalzare le tasse a carico dei privilegiati hanno ben poche probabilità di essere approvate al Congresso. Qui la resistenza dei repubblicani - in maggioranza alla Camera dei Rappresentanti - è infatti tale da far escludere per ora qualsiasi cedimento sulla questione fiscale, come ha ribadito in questi giorni lo speaker John Boehner.
Per Obama si tratta in ogni caso di mostrarsi almeno dalla parte della classe media e dei lavoratori, così da convincere soprattutto gli elettori indipendenti della sua volontà di trovare un compromesso equo con i repubblicani sulla questione del debito e scaricare su questi ultimi la responsabilità del mancato accordo.
Concretamente, il piano di Obama che, nelle parole di un membro dello staff presidenziale, prevede “parecchie sofferenze”, include tagli per 320 miliardi di dollari nel prossimo decennio a Medicare (248 miliardi) e Medicaid (72), i piani sanitari pubblici destinati rispettivamente agli anziani e ai più poveri.
Esclusi almeno per ora dalla scure della Casa Bianca sono invece gli interventi sul sistema pensionistico e l’innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni, anche se Obama ha fatto intendere che potrebbero esserci tagli da subito anche in questo ambito se i repubblicani si mostreranno disponibili ad accettare i modesti aumenti alle tasse previsti per i più ricchi.
I tagli nel settore della sanità si materializzeranno, tra l’altro, nell’aumento dei premi a carico dei beneficiari di Medicare, nella riduzione dei rimborsi destinati agli ospedali che curano i malati coperti dallo stesso programma per gli anziani, nel pagamento di una parte dei servizi erogati ai malati che ricevono assistenza a domicilio e nell’abbattimento degli stanziamenti federali su cui gli stati fanno affidamento per pagare i servizi garantiti da Medicaid.
Dei 4 mila miliardi, poi, 1.500 dovranno arrivare da quello che viene definito un aumento delle tasse per i redditi più alti. È bene sottolineare tuttavia che l’obiettivo finale di Obama è quello di ridurre l’aliquota per i “creatori di posti di lavoro” del settore privato, mentre i risparmi dovrebbero arrivare pressoché unicamente dalla soppressione di scappatoie fiscali che consentono alle corporation di pagare meno tasse e da un nuovo limite fissato alle deduzioni, di cui beneficiano peraltro anche lavoratori e classe media.
Altri mille miliardi in minori spese saranno possibili in seguito al relativo disimpegno dai conflitti in Iraq e Afghanistan. Tra le altre misure previste ci sono anche la riduzione dei sussidi al settore agricolo (31 miliardi), l’aumento del contributo versato dai dipendenti pubblici per le loro pensioni e per l’acquisto dei medicinali da parte dei veterani delle forze armate, una sovrattassa sui biglietti aerei per finanziare le misure di sicurezza anti-terrorismo negli aeroporti, la riduzione delle ore lavorate e del personale addetto al Servizio Postale USA.
Nonostante gli interventi proposti da Obama finiscano dunque per colpire in maniera eccessiva proprio i redditi più bassi, già penalizzati dalla persistente crisi economica e dalle misure di austerity implementate in questi mesi, il presidente ha tenuto a respingere fermamente l’assurda accusa di portare avanti una “guerra di classe” contro i ricchi, lanciatagli dallo speaker repubblicano della Camera, John Boehner.
In una dichiarazione al limite del patetico, il direttore dell’Ufficio della Casa Bianca per il Bilancio, Jacob J. Lew, ha infatti rassicurato che il presidente non intende “prendere di mira i ricchi”. Un’affermazione, questa, significativamente rilasciata poco dopo la presentazione di misure che produrranno un ulteriore aggravamento delle condizioni di vita di milioni di persone e che mostra ancora una volta quali siano i soli interessi a cui fa riferimento l’intera classe politica americana.