di Michele Paris

Con un’altra eclatante operazione nella capitale afgana, nella serata di martedì le forze ribelli che si battono contro l’occupazione occidentale nel paese centro-asiatico hanno portato a termine l’ennesimo attentato ai danni di una delle più autorevoli personalità del panorama politico locale. A cadere vittima della violenza talebana - anche se l’attentato non è stato ancora rivendicato ufficialmente - è stato questa volta l’ex presidente Burhanuddin Rabbani, attuale numero uno dell’Alto Consiglio per la Pace, incaricato precisamente di promuovere il processo di riconciliazione con gli “studenti del Corano”.

L’attentatore - del quale è stato diffuso solo il nome, Esmatullah - è risultato essere un messaggero talebano che godeva della fiducia dell’entourage di Rabbani, con cui era in contatto da almeno cinque mesi. Nella giornata di martedì, Esmatullah avrebbe contattato Rahmatullah Wahidyar, ex vice-ministro nel regime talebano e anch’egli membro dell’Alto Consiglio per la Pace, perché in possesso di un messaggio urgente da recapitare a Rabbani da parte della “Shura di Quetta”, il gruppo dirigente talebano con sede nell’omonima città del Pakistan.

Rabbani era da poco rientrato da una visita in Iran e, informato da Wahidyar, ha acconsentito a ricevere Esmatullah nella propria abitazione. Appena entrato nello studio dell’ex presidente afgano senza essere perquisito, l’attentatore si è fatto saltare facendo detonare l’esplosivo che nascondeva nel suo turbante. Oltre ad uccidere il 71enne Rabbani, l’esplosione ha ferito seriamente altre quattro persone presenti, tra cui lo stesso Wahidyar e un terzo membro dell’Alto Consiglio coinvolto nei colloqui di pace, Masoom Stanekzai. Il presidente afgano, Hamid Karzai, ha espresso il proprio cordoglio per la morte di Rabbani ed ha interrotto la sua trasferta alle Nazioni Unite per rientrare immediatamente in patria.

Quest’ultimo episodio conferma l’irrisoria facilità con cui gli “insorti” sono in grado di penetrare anche le aree di Kabul ritenute più sicure. L’attentato giunge infatti a pochi giorni da uno spettacolare attacco condotto dai Talebani nella capitale e che ha sollevato più di un dubbio sulla presenza di infiltrati tra le forze di sicurezza afgane che dovrebbero prendere in mano il controllo del paese una volta che le forze di occupazione NATO se ne saranno andate.

Solo negli ultimi tre mesi, poi, altre due personalità afgane di spicco erano state bersaglio di attentati fatali con modalità simili. A luglio, il potente fratellastro del presidente, Ahmed Wali Karzai, era stato ucciso nel proprio studio di Kandahar da una guardia del corpo, mentre pochi giorni più tardi un altro alleato del presidente, l’ex governatore della provincia di Oruzgan, Jan Mohammed Khan, sarebbe finito vittima di un attentatore introdottosi nella sua abitazione.

La morte di Rabbani rischia di infliggere un colpo devastante alle velleità di riconciliazione con i Talebani di Karzai e di Washington. Non solo l’ex presidente era considerato uno dei pochi uomini politici con l’esperienza e l’autorevolezza necessarie per cercare di convincere i Talebani a deporre le armi, ma la sua uccisione riporta a galla anche tutti i malumori diffusi in ampi strati della classe politica afgana per un complicato e improbabile processo di pace.

Numerosi politici - soprattutto di etnia diversa da quella Pashtun, a cui appartengono i Talebani - non hanno infatti esitato a manifestare pubblicamente tutta la loro contrarietà alla reintegrazione degli esponenti del precedente regime. “È tempo che il presidente Karzai apra gli occhi - ha dichiarato l’ex candidato alla presidenza Abdullah Abdullah in un’intervista - queste sono le persone che Karzai ha definito cari fratelli. Sono loro i responsabili di quanto accaduto”.

Burhanuddin Rabbani aveva ricoperto la carica di presidente dell’Afghanistan tra il 1992 e il 1996 durante la guerra civile che ha lacerato il paese dopo la partenza dei sovietici, per poi aprire la strada alla presa del potere da parte dei Talebani. Negli anni Ottanta, Rabbani aveva partecipato alla resistenza contro l’occupazione sovietica, creando uno dei tanti gruppi guerriglieri anti-comunisti sostenuti dagli USA e dall’Occidente operanti dal Pakistan (Jamiat-e-Islami).

Deposto dai Talebani nel 1996, Rabbani era diventato uno dei principali leader dell’Alleanza del Nord, composta per lo più da combattenti Tagiki - alla cui etnia apparteneva - e Uzbeki, che avrebbe appoggiato l’invasione americana nel 2001. Una volta rovesciato il regime talebano, Rabbani poté tornare alla politica attiva a Kabul, promettendo fedeltà al presidente Karzai. Una fedeltà che gli è costata cara.

di Eugenio Roscini Vitali

Il primo prodotto del piano di cooperazione militare sottoscritto il 4 settembre scorso dai ministri della Difesa di Grecia ed Israele è l’approvazione da parte del Parlamento greco dell’acquisto di 400 kit di conversione SPICE (Smart Precise Impact and Cost Effective) 1000 e 2000, con equipaggiamenti per la trasformazione delle bombe a caduta della serie Mark-80 in armamenti guidati di precisione con una percentuale di acquisizione dell’obbiettivo pari al 95%.

Il kit, che nel caso delle MK-84/BLU-109B verrebbe installato su ordigni del peso nominale di oltre 900 kg capaci di penetrare corazze di metallo di 38 cm o colate di cemento armato di oltre 3 metri di spessore, verrà fornito all'Hellenic Air Force (HAF) dalla Rafael Advanced Defense Systems, industria israeliana produttrice di tecnologia high-tech per sistemi d’arma destinati al mercato degli armamenti e ad applicazioni spaziali.

L’operazione, il cui costo totale è calcolato in 155 milioni di dollari, rientra nel memorandum di intesa siglato lo scorso anno dal primo ministro greco George Papandreou e dall’omologo israeliano Benjamin Netanyahu. La bozza del contratto, finalizzato durante la visita a Gerusalemme del ministri della Difesa greco, Panos Beglitis, risale all’8 febbraio scorso, ma è dal 2005 che la Grecia mostra interesse per questo tipo di tecnologia e i primi contatto con la Rafael risalgono all’estate del 2009.

Per alcuni analisti la ragione della cooperazione militare va ricercata nel ruolo economico che Israele potrebbe svolgere nelle crisi finanziaria greca, ma l’annuncio della volontà israeliana di rafforzare i legami militari con Atene risale all’agosto 2010, dopo l'incidente della Freedom Flotilla e la rottura diplomatica tra Ankara e Tel Aviv. E’ in quella stessa estate che a Creta l’Hellenic Air Force e l’Israel Air Force (IAF) dettero vita ad un’esercitazione congiunta, con Atene che mise a disposizione dei piloti israeliani le batterie missilistiche russe S-300 perché potessero sviluppare un adeguato addestramento ai metodi di distruzione degli stessi sistemi di difesa aerea che Mosca era in procinto di vendere alla Repubblica Islamica e che aveva già fornito alla Siria.

Stessa cosa nel 2008, quando i bombardieri israeliani erano stati autorizzati ad entrare nello spazio aereo greco per effettuare missioni di addestramento a lungo raggio e di rifornimento in volo; in quel caso veniva sfruttata l’identica distanza che separa lo Stato ebraico dall’Iran e dalla Grecia (1.900 km) per preparare un attacco ai siti nucleari dello Stato sciita.

Sul piano strategico-militare gli effetti della rinvigorita cooperazione greco-israeliana trovano il primo banco di prova nelle acque a largo della Repubblica di Cipro, nella Zona Economica Esclusiva (Zee), dove la compagnia texana Noble Energy ha posizionata la piattaforma per trivellazioni petrolifere Homer Ferrington. Dopo aver condotto ricerche a largo di Ashdod, nell’area del giacimento israeliano off-shore noto come Noa, la Homer Ferrington sta infatti iniziando una fase di prospezione nel settore greco-cipriota denominato Blocco 12.

Il trasferimento della piattaforma, che dovrebbe cominciare le trivellazioni nei prossimi giorni, è stato monitorato dalla marina e dall’aeronautica militare turca, impegnate nell’esercitazione “Operazione Barbarossa”, un impegno di risorse militari gestito dal Comando navale di Izmir e al quale stanno assistendo, a dovuta distanza, la Sesta Flotta USA e le componenti navali degli Stati europei membri della NATO.

Com'era prevedibile, la Turchia non gradisce quello che, indubbiamente, appare come un accordo tra Atene e Tel Aviv destinato a rimettere in discussione gli equilibri dell’area. Ankara afferma che Cipro ed Israele non hanno alcun diritto a condurre ricerche nelle rispettive Zee e che le prospezioni condotte dal governo di Nicosia rappresentano un ostacolo per la continuazione dei negoziati per la riunificazione dell'isola.

Secondo le autorità turche una parte degli eventuali proventi derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti del Blocco 12  spetterebbe  ai ciprioti che vivono nel settore dell’isola occupata militarmente dalla Turchia dal 1974 e se questo non dovesse avvenire Ankara sarebbe pronta a stipulare un accordo con la Repubblica turca di Cipro del Nord per condurre prospezioni nel tratto di mare a nord dell'isola.

E’ dal 14 settembre scorso che la Difesa turca segue con particolare apprensione gli spostamenti della Homer Ferrington e, secondo Tel Aviv, in questa fase le navi di Ankara sarebbero spinte a meno di 80 chilometri dalla acque territoriali israeliane. A questo si aggiunge il fatto che la Grecia ha già protestato per la presenza della marina militare turca nelle vicinanze dell’isola greca di Kastellorizo, dove si suppone stesse scortando la nave norvegese Bergen Surveyor, imbarcazione per ricerche geologiche che attualmente naviga tra Cipro e il golfo di Antalya.

Il rischio di un incidente è quindi elevato, soprattutto da quando i vertici politici del paese membro della NATO hanno autorizzato la marina ad avvicinare le navi israeliane fino ad una distanza di 100 metri e a prendere tutte le misure necessarie a disabilitarne i sistemi d’arma. La decisione di monitorare da vicino la Homer Ferringoton e di pattugliare con una massiccia presenza navale il Mediterraneo orientale deriverebbero comunque dallo scarso numero di aeromobile a pilotaggio remoto a disposizione. Il problema deriva soprattutto dalla decisione americana di  negare i Predator ad un paese che minaccia Israele e  c’è poi la questione degli Heron israeliani acquistati prima della crisi del 2010 e della decisione di espellere il personale tecnico che li gestiva.

Per ora nel settore dei velivoli senza pilota (UAV) l’aviazione militare turca può contare solo sui droni di produzione nazionale, gli Anka della Turkish Aerospace Industries (TAI), un velivolo che secondo gli israeliani ha lamentato problemi di quota e trasmissione dati in tempo reale durante la caccia ai guerriglieri del PKK tra le montagne Kurdistan turco. Per quanto riguarda gli Heron israeliani il dubbio è legato all’immediata capacità dei turchi di rimpiazzare i tecnici della Israel Aerospace Industries espulsi lo scorso anno e alla possibilità di mantenere in linea di volo un adeguato livello di efficienza. Secondo le ultime informazioni, del lotto di dieci velivoli acquistati nel 2008  i turchi ne avrebbe la metà; cinque sarebbero stati inviati in Israele per la manutenzione e mai più tornati indietro; due non sarebbero operativi e tre avrebbero gravi problemi tecnici al sistema di propulsione Rotax 914.

 

 

di Fabrizio Casari

Alpha 66, l’organizzazione terroristica cubano-americana con sede a Miami, da ora potrà svolgere le sue attività anche a Madrid, dove il governo della Comunità Autonoma della capitale - diretto dall’esponente ultrareazionaria del Partito Popular, Esperanza Aguirre -gli ha permesso di aprire i suoi uffici. Una scelta sconcertante quella della Aguirre, perché la storia di Alpha 66 è tristemente nota per essere una storia di terrorismo.

Il gruppo paramilitare nasce, con l’aiuto della CIA, dopo la fallita invasione della Baia dei Porci nel 1962 e, in quasi 50 anni, si è reso responsabile di numerosi attentati terroristici a Cuba. Cominciò nel 1963 con un attacco ad un albergo di studenti a Tararà, quindici km fuori L’Avana, e proseguì con minacce alle ambasciate cubane in Messico, Ecuador, Brasile e Canada, uccisioni di pescatori, attacchi a imbarcazioni, bombe negli alberghi, tentativi di assassinio di Fidel Castro. Uno dei suoi capi, Andrès Nazario, è stato ripetutamente vincolato al narcotraffico: il terrore ha bisogno di quattrini.

Ebbene, questa specchiata organizzazione criminale, che si addestra alla guerra nelle everglades di Miami sotto l’occhio compiaciuto delle autorità Usa, ha ora i suoi uffici in una capitale europea grazie al PP. E’ vero che le posizioni del Partito popolare spagnolo nei confronti di Cuba non sono un mistero, dal momento che il suo leader (quello vero, non quello fittizio che si presenta agli elettori) Josè Maria Aznar, da sempre è il principale terminale europeo dei finanziamenti erogati dalla Fondazione Nazionale Cubano Americana (FNCA), cioé il catalizzatore pubblico delle diverse sigle armate di stanza in Florida che dirigono l’attività terroristica contro l’isola caraibica.

Non é storia di oggi. Durante tutta la durata del suo mandato (1996-2004) Aznar e il suo PP offrirono ogni sorta di appoggio pubblico a terroristi e fiancheggiatori cubano americani, mentre sul piano politico e diplomatico, con le pressioni politiche sulla Ue, portarono l’Europa alla “posizione comune” contro Cuba. Una delle idiozie più famose della diplomazia europea che è stata sonoramente ignorata da tutti, salvo ricevere l’applauso convinto degli Usa.

Il legame personale di Aznar con la FNCA è del resto universalmente noto. Nel 1996, da premier spagnolo, appoggiò con forza l’acquisto della grande corporazione spagnola Sintel da parte della MasTecInternational, la società di Jorge Mas Canosa, allora presidente della FNCA. Fino a quel momento la Sintel era in piena prosperità, con 21 filiali in tutto il mondo. Ma Aznar doveva restituire favori a Miami e la vendita venne effettuata con modalità ultrafavorevoli per Mas Canosa. Diverse testimonianze, tra le quali quelle degli eredi del defunto faccendiere cubanoamericano, evidenziano come si sia poi trattato di una frode completa ai danni della Sintel, dal momento che Mas Canosa liquidò la società spagnola con una serie di manovre finanziarie attuate tramite società anonime residenti nei paradisi fiscali e nelle banche di Lussemburgo, Haiti, Messico, Isole vergini, Porto Rico, Svizzera e Stati Uniti. La Sintel dichiarò fallimento e decine di migliaia di lavoratori spagnoli furono licenziati.

Una storia quindi da sempre torbida quella tra il vanesio leader della destra spagnola e il variegato insieme di mafiosi e terroristi cubano americani con sede a Miami. Non a caso nelle sue campagne elettorali Aznar non ha mai mancato l’appuntamento della Florida. E non certo perché vi risiedano un numero significativo di elettori con diritto al voto in Spagna, ma per raccogliere i fondi che le organizzazioni terroristiche anticubane generosamente gli consegnavano. Si riuniva con Jorge Mas Canosa, il defunto faccendiere e terrorista che fondò (su richiesta di Ronald Reagan) la FNCA e, in questo modo, dava un'autorevolezza "europea" a Mas Canosa, che la riteneva necessaria per forzare ulteriormente le pressioni della comunità cubanoamericana verso la Casa Bianca. Per questo il PP ha sempre permesso ad ogni elemento del variegato mondo del terrorismo anticubano di trovare udienza e rappresentanza nel paese iberico. Denaro in cambio di interlocuzione politica. Un modo per ricambiare le mazzette e per sostenere in forma attiva il legame con la famiglia Bush, che per i gusanos di Miami era e resta la principale sponda politica e finanziaria.

Sui legami tra la famiglia Bush e il terrorismo cubanoamericano ci si potrebbe dilungare con dovizia di particolari. Nato quando Bush padre era Direttore della CIA e proseguito quando divenne Vice-presidente Usa, dove diede in mano ai cubanoamericani parte dell'organizzazione della guerra contro il Nicaragua, si consolidò definitivamente in una campagna elettorale del 2001. Andando indietro con la memoria si potrà agevolmente ricordare come George W. Bush venne eletto Presidente dopo una notte di black-out elettorale che trasformò la maggioranza dei voti per Al Gore in maggioranza per Bush. Come tutti sanno, la FNCA fu la regista dell’operazione.

D’altra parte, il comune sentire della famiglia Bush con il terrorismo anticubano era pari a quello con le monarchie del Golfo: affari e passione ideale si sono sempre coniugate nell’epopea della famiglia dei petrolieri texani. A significare i legami che si sono tramandati di erede in erede, basta ricordare il perdono presidenziale, nel 1990, da parte di George Bush a Orlando Bosh, che con il suo compare Luis Posada Carriles, fu l’organizzatore di decine di attentati contro Cuba e non solo, il più grave dei quali fu la collocazione a bordo dell’aereo della Cubana de Aviaciòn che esplose sui cieli delle Barbados con un saldo di circa ottanta morti.

Per non essere da meno, il figlio, George W. Bush, in un raro momento di sobrietà, il 20 Marzo del 2003 invitò alla Casa Bianca il leader di Alpha 66, Diaz Rodriguez. Ad accompagnare Rodriguez c’era un altro esponente di Alpha 66, Jesus Penalver Mazorra, che il 12 Dicembre del 1995 era stato arrestato dalla polizia in California perché trovato in possesso di un vero e proprio arsenale; ma, guarda caso, non venne condannato. Un po’ come successe pochi anni orsono a Luis Posada Carriles, membro di Alpha 66, definito dalle organizzazioni per i diritti umani Usa il “bin Ladin delle Americhe”. Benché richiesta la sua estradizione da Cuba e Venezuela, dove gli sono imputati uccisioni e atti terroristici (tra tutti, quella dell’italiano Fabio di Celmo, ucciso da una bomba fatta collocare da Posada Carriles nell’Hotel Copacabana a L’Avana, della quale Posada si è autoaccusato ndr) Posada Carriles circola libero per Miami. Perché?

Perché arrestato e processato, dopo aver fatto intendere che avrebbe potuto raccontare qualcosa di sconveniente per gli USA, venne solo condannato (e quindi liberato) per essere entrato illegalmente negli Usa. Proveniva da Panama, Posada Carriles, dove era stato arrestato e si trovava in attesa di giudizio per aver organizzato un attentato al tritolo contro Fidel Castro in visita all’Università di Panama City. Ma era stato liberato con un decreto d’urgenza dalla ex-presidente Mireya Moscoso, a sua volta riparata a Miami per sfuggire alla giustizia panamense dopo aver saccheggiato le casse del paese. La liberazione di Posada fu il visto per gli Usa per la ex-presidente di Panama.

E, sempre per quanto riguarda i rapporti tra la famiglia Bush e il terrorismo cubano-americano, c'é un altro episodio significativo da citare. Non fosse abbastanza grave e imbarazzante che due terroristi fossero stati ospiti della Casa Bianca due mesi prima, il 2 Giugno del 2005 George W. Bush inviò una lettera pubblica di ringraziamento ad Alpha 66, confermando l’impegno al loro fianco e dicendosi interessato a conoscere le strategie del gruppo paramilitare. Lo stesso ardore é stato confermato anche da suo fratello Jeb, che non mai ha perso occasione per gridare ai quattro venti la sua passione per le organizzazioni terroristico-mafiose anticubane residenti a Miami. Senza il loro appoggio, non sarebbe mai diventato Governatore della Florida.

Per quanto riguarda la Spagna, che ha fatto dell’ostilità verso Cuba e Venezuela l’unico elemento significativo della sua politica verso il continente latinoamericano, non si può non cogliere il nesso tra l’atteggiamento di politica estera e quello del suo mainstream, con El Pais in testa. El Pais, infatti, è divenuto uno dei capisaldi della campagna diffamatoria e menzognera contro l’isola. Una versione iberica del Miami Herald, insomma, che ha trascinato in un triste epilogo quella che un tempo fu una testata degna di attenzione per tutti coloro interessati alla politica estera in generale e all'America Latina in particolare.

La notizia dell'autorizzazione ad aprire un ufficio di Alpha 66 a Madrid non ha avuto una grande eco nella stampa spagnola e, ovviamente, nessun accenno ne ha fatto El Pais. Eppure qualche domanda poteva essere posta. Ad ogni modo,il fatto che il governo cubano - con il quale la Spagna mantiene intense relazioni diplomatiche - consideri Alpha 66 un’organizzazione terroristica, non muove nemmeno un dubbio a Madrid. Sarebbe curioso vedere le reazioni in caso di reciprocità. Che ne direbbero a Madrid se all’Avana aprisse un ufficio l’Eta?

Vedremo se l’esito del prossimo voto in Spagna premierà - come si pronostica - il Partito Popolare. Ma nel dubbio circa l’esito del voto, almeno una certezza c’è: ancora una volta, la campagna elettorale del Partito Popolare, assodata la sua genuflessa disponibilità verso le organizzazioni di Miami, vedrà il consueto, significativo apporto in dollari proveniente dalla Florida. Sporchi o no di sangue, sempre dollari sono.

 

 

di Carlo Musilli

Ci ha pensato a lungo, ma alla fine Barack Obama si è ricordato di essere un democratico. E incredibilmente, dopo mesi passati a questionare con i Repubblicani, ha lanciato la sfida agli avversari sul terreno più incandescente: la politica fiscale, le innominabili "taxes". Il Presidente americano ha annunciato un piano da 4.400 miliardi di dollari in dieci anni per abbattere il deficit. Punta di diamante della nuova strategia è la cosiddetta "Buffett-rule", la regola di Buffett, che prevede di alzare le tasse ai super ricchi per equipararle a quelle della classe media. I redditi superiori al milione di dollari l'anno verrebbero tassati con un'aliquota minima del 35%, come avviene per i comuni mortali, i lavoratori dipendenti. Attualmente, invece, il prelievo sulle rendite finanziarie è fermo a un vergognoso 15%.

Nonostante lo sdegno dei conservatori pseudo-liberisti, la nuova legge non avrebbe nulla di socialista. Anzi, riporterebbe negli Stati Uniti un principio elementare d'equità fiscale smarrito sotto le amministrazioni repubblicane, quello della progressività delle imposte (inscritto nella Costituzione italiana all'articolo 53). Tanto più che a proporre la nuova misura è stato Warren Buffett, mega miliardario americano che per quattrini è secondo solo a Bill Gates. Non esattamente un trotzkista o un precario di Detroit.

Il principio è talmente semplice da risultare ovvio: "Se sei così ricco devi pagare perlomeno l'aliquota della tua segretaria". Parola di Warren, che quest'estate ha combattuto un'insolita battaglia contro i suoi stessi interessi dalle colonne del New York Times. "Voglio pagare più tasse!", scriveva il magnate illuminato poco più di un mese fa, lasciando a bocca aperta colleghi e amici paperoni.

Quanto al mercato interno, la nuova misura non sconvolgerebbe affatto gli assetti dell'economia americana, perché colpirebbe soltanto lo 0,3% dei contribuenti, vale a dire 450mila delle 144 milioni di dichiarazioni dei redditi registrate nel 2010. Non ha quindi senso sostenere, come fanno i conservatori, che un prelievo aggiuntivo sui capitali più gonfi possa provocare una contrazione degli investimenti e quindi ripercuotersi negativamente sul lavoro. Anche perché il gettito della "Buffett-tax" sarà destinato a finanziare il programma per l'occupazione presentato la settimana scorsa da Obama (447 miliardi di dollari da spartire fra scuola, infrastrutture e sgravi fiscali per chi assume disoccupati).

Non c'è alcuna ragione socio-economica che sconsigli di proseguire su questa strada, se non quella di voler tutelare ciecamente gli interessi di una minoranza privilegiata a discapito della collettività. Purtroppo per gli americani, sembra proprio questa la ratio che da qualche anno tiene insieme il Partito Repubblicano. Deviati da un concetto distorto di capitalismo secondo cui chi è ricco ha diritto a diventare ricchissimo e chi è povero ha il dovere di pagare, poco più di un mese fa i conservatori hanno quasi provocato il default del loro Paese pur di non toccare i privilegi acquisiti dall'elite. La drammatica farsa sull'innalzamento del tetto del debito è andata avanti per settimane proprio perché i Repubblicani non volevano sentir parlare di tasse ai ricchi.

 A questo punto viene da chiedersi: cosa é cambiato fra i primi di agosto e la fine di settembre? Assolutamente niente. Sotto questo profilo gli americani sono stati causa del proprio male. Votando in maggioranza per l'opposizione alle elezioni di medio termine dello scorso novembre, gli elettori Usa hanno consegnato ai Repubblicani il controllo della Camera, vale a dire il potere di veto sulle proposte di riforma avanzate dai Democratici.

Questo significa che le nuove iniziative di Obama, pur riempiendo i cuori di speranza, in realtà sono velleitarie. O meglio, fanno parte di una precisa strategia politica. A Washington sanno tutti benissimo che il Congresso non approverà mai nulla che assomigli neanche lontanamente alla Buffett-rule. E' vero, da qualche giorno è al lavoro una commissione bipartisan che entro novembre dovrà trovare un accordo per ridurre il deficit, ma "le nuove tasse non sono un'opzione sul tavolo", ha spiegato il repubblicano John Boehner, presidente della Camera.

Quando però arriveranno i momenti decisivi della campagna elettorale, difficilmente la destra potrà continuare a proporsi come paladina degli interessi e dei valori americani contro il presunto "socialismo di Obama". Il Presidente sta strappando la maschera ai suoi avversari. A questo serve, in fondo, la regola di Buffett.

 

di Mario Braconi

Isabel Kershner, del New York Times, racconta in presa diretta come sta vivendo la gente del campo profughi di Kalandia il rally dell’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite; quello che, come dice l’analista politico Khalil Shikaki, rappresenta “il compromesso tra quanti [tra i palestinesi] sono pronti ad azioni drammatiche e quelli che invece si accontentano dello status quo, per quanto drammatico”.

La gente di Kalandia, situata tra Gerusalemme e Ramallah, appare tiepidamente favorevole all’iniziativa di Mahmud Abbas. Pur essendo consapevoli dei possibili contraccolpi (in particolare del possibile taglio del sostegno finanziario americano) le persone sentite dalla Kershner restano generalmente convinte che “qualche cosa bisognava fare”; in fondo, come sostiene Selwa Yassin del villaggio di Eyn Yabrud, “qualsiasi cosa accada, sarà sempre meglio che perdere del tutto la Palestina”.

Abbas, per sostenere la sua campagna “Palestina 194” (ovvero Palestina centonovantaquattresimo Stato delle Nazioni Unite), ha messo a punto una strategia accorta, che si potrebbe riassumere così: massima esposizione a New York e profilo basso a casa. “Niente scontri, niente caos, dal lato nostro” ha riferito ai giornalisti la scorsa settimana. “Le nostre istruzioni alla popolazione sono nette: non andate ai posti di blocco, non cercate l’attrito con i soldati israeliani, se sono loro ad entrare nelle nostre città, non reagite” ha proseguito.

L’attenzione in questo momento è tutta sulla non violenza: non a caso, per dare maggior credibilità alla campagna è stato reclutato Abdallah Abu Rahama. Oltre a fare il maestro, Abu Rahma è stato coordinatore del Comitato Popolare di Bil’in contro il Muro, che si opponeva alla costruzione di una “barriera di sicurezza” che tagliava in due il suo villaggio (Bil’in). Per la cronaca, a forza di proteste (e di carte bollate), a fine giugno di quest’anno il muro è stato rimosso e riposizionato come richiesto dalla Suprema Corte israeliana (il sito ufficiale di IDF ha l’impudenza di far notare che l’operazione di ricollocamento della barriera e la risistemazione degli olivi che vi si trovano sono costati parecchi soldi al contribuente israeliano...).

A fine dicembre del 2009 Abu Rahama è stato arrestato dagli Israeliani con l’accusa di possesso di pallottole di M16, di fumogeni e granate, che “l’imputato e i suoi sodali hanno usato per una esposizione che mostrava alla gente i mezzi impiegati dalla forze di sicurezza israeliane”. Abu Rhama ha confermato di aver esposto gli ordigni esplosi per una piccola mostra, il cui obiettivo era documentare i metodi muscolari con cui IDF reprime le proteste dei palestinesi.

L’obiettivo peraltro non è stato mai segreto, anche se Abu Rhama ha sempre negato che tra gli oggetti raccolti vi fossero proiettili di M16. Quest’ultima accusa, sempre secondo Abu Rahma, proverrebbe da uno dei tanti giovani arrestati dall’esercito in concomitanza con le contestazioni della gente di Bil’in.

Non sempre le imputazioni che piovono sui personaggi in vista dei movimenti di sollevazione contro gli abusi perpetrati da IDF si rivelano fondate. Racconta Amira Hass su Haaretz che una corte militare ha a suo tempo scagionato un altro attivista di Bil’in, Mohammed Khatib, dall’accusa di lancio di pietre: non poteva fare altro, anche perché se Khatib fosse riuscito a lanciare pietre a Bil’in dalla località estera dove si trovava il giorno in cui secondo l’accusa avrebbe consumato il reato, ci si sarebbe trovati di fronte ad un fenomeno paranormale.

In ogni caso, a dicembre 2009 fece scalpore l’arresto di Abu Rahma, divenuto presto uno dei simboli della rabbia del popolo palestinese contro il “muro di sicurezza” a West Bank: del resto, nessuno poteva immaginare che il possesso di munizioni esplose (da altri) potesse essere una buona ragione per finire in galera. L’arcivescovo premio Nobel per la pace (1984) Desmond Tutu ha avuto modo di conoscere Abu Rahma nel corso di una sua visita nei Territori nell’estate del 2009, riportandone un’impressione molto favorevole: “Siamo colpiti dalla dedizione di Abu Rahma e di Khatib all’azione politica pacifica e dal loro successo nell’azione di sfida contro il muro che arbitrariamente separa la gente di Bil’in dai loro olivi”, si legge nei memorandum della delegazione di leader internazionali di cui faceva parte anche l’arcivescovo sudafricano.

Tutu condannò apertamente l’arresto di Abu Rhama, chiedendo alle autorità israeliane il suo immediato rilascio. Questo purtroppo non ha impedito al maestro di Bil’in di passare 15 mesi dietro le sbarre: egli è stato liberato solo il 15 marzo di quest’anno.

Oggi Abu Rahma, nella sua veste di “testimonial” di "Palestine 194", vorrebbe portare quante più persone nelle piazze: “Stiamo cercando di somigliare alla primavera araba”, ha detto. Un’esplosione di violenza sarebbe deleteria per i palestinesi: oltre alle ovvie azioni repressive israeliane, il rischio, qui, è di rafforzare Hamas.

Sullo sfondo resta il più prosaico ma non meno importante tema del denaro americano: se cessasse di affluire nelle casse dell’Autorità Palestinese, la paralisi sarebbe più che certa. Secondo Kershner, i palestinesi sembrano in generale orientati ad abbracciare la resistenza non violenta, dopo due Intifada che non hanno portato grossi dividendi politici. Resta però la preoccupazione: poiché portare moltitudini nelle piazze potrebbe scatenare forze incontrollabili. La speranza è che prevalga il buonsenso.


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