di Michele Paris

Dal suo ritiro natalizio alle Hawaii, l’ultimo giorno del 2011 il presidente Obama ha posto la propria firma su un nuovo pacchetto di sanzioni economiche nei confronti dell’Iran che contiene le misure più dure e provocatorie finora adottate dagli Stati Uniti nel tentativo di rovesciare il regime di Teheran con il pretesto della questione nucleare. A quello che viene considerato come un vero e proprio atto di guerra, la Repubblica Islamica ha subito risposto con una serie di annunci bellicosi che confermano come l’ulteriore innalzamento delle tensioni tra i due paesi rischi di scatenare una nuova devastante guerra in Medio Oriente.

La legge che colpisce la già fragile economia dell’Iran era stata inserita dal Congresso nel bilancio da 662 miliardi di dollari del Pentagono e prevede misure punitive per le istituzioni finanziarie che intrattengono rapporti d’affari con la Banca Markazi, cioè la banca centrale iraniana. Le nuove sanzioni intendono colpire il settore chiave dell’economia di questo paese, quello dell’export petrolifero, la cui gestione finanziaria è affidata appunto alla banca centrale. In sostanza, chiunque decidesse di continuare ad intrattenere rapporti con la Banca Markazi potrebbe essere escluso interamente dal sistema economico americano.

La Casa Bianca potrà applicare la legge con una certa flessibilità, più che altro per cercare di evitare un’eccessiva impennata del prezzo del greggio e i conseguenti effetti negativi sull’economia mondiale. Secondo il testo del provvedimento, infatti, il presidente potrà decidere su eventuali eccezioni nel caso dovesse causare rischi per l’economia o per la sicurezza nazionale americana. In ogni caso, le disposizioni più penalizzanti per l’Iran - come quelle che colpiscono le forniture di petrolio iraniano destinate a governi stranieri - entreranno in vigore non prima di sei mesi, mentre le altre saranno operative in 60 giorni, tra cui quelle relative agli scambi di prodotti petroliferi gestiti da banche private.

Fino a poche settimana fa, la Casa Bianca appariva in realtà contraria a qualsiasi misura volta a colpire la banca centrale iraniana. Quando però il Congresso ha deciso di forzare la mano approvando le nuove sanzioni, Obama ha ritenuto inopportuno mostrare segni di debolezza nel pieno della campagna elettorale per la rielezione alla presidenza. Per fronteggiare gli attacchi già sferrati da quasi tutti i candidati alla nomination repubblicana sul fronte dei rapporti con l’Iran, l’amministrazione democratica ha anzi annunciato che sono già allo studio ulteriori sanzioni per il prossimo futuro.

Comprensibilmente, questa sorta di embargo sul petrolio è stata accolta con rabbia a Teheran, da dove ancora prima della firma definitiva di Obama era arrivata la minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz, il tratto di mare che collega il Golfo Persico con quello di Oman e da cui transita quotidianamente un quinto delle forniture mondiali di greggio (circa 17 milioni di barili). Alla minaccia iraniana gli Stati Uniti hanno a loro volta prospettato la possibilità di intraprendere contro la Repubblica Islamica azioni militari punitive, incoraggiate più o meno apertamente dalla gran parte della stampa d’oltreoceano, pronta come sempre a sottolineare la presunta pericolosità e il potenziale destabilizzante del regime iraniano.

Anche senza considerare le guerre di aggressione scatenate contro Afghanistan, Iraq e Libia, a ben vedere, sono piuttosto gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente ad essersi resi protagonisti di ripetute provocazioni nei confronti dell’Iran. Basti pensare - solo per limitarsi ad alcuni degli episodi noti pubblicamente - ai tentativi di sabotaggio tramite l’istallazione di virus (Stuxnet e altri) nei sistemi informatici che gestiscono il programma nucleare iraniano, alle esplosioni presso installazioni missilistiche, agli assassini mirati di scienziati e accademici attivi in ambito nucleare o, ancora, all’utilizzo di droni per sorvolare illegalmente lo spazio aereo iraniano.

I segnali di apertura da parte di Teheran per risolvere la questione del nucleare sono stati inoltre puntualmente ignorati dagli Stati Uniti. L’ultimo in ordine di tempo è proprio del 31 dicembre scorso, quando il capo dei negoziatori iraniani per il nucleare, Saeed Jalili, ha notificato formalmente al cosiddetto gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) la propria richiesta di aprire un nuovo round di colloqui, dopo che l’ultimo, andato in scena a Istanbul nel gennaio 2010, si era concluso con un nulla di fatto.

Gli effetti delle ripetute sanzioni internazionali stanno d’altra parte avendo pesanti conseguenze sull’economia dell’Iran. La situazione per Teheran rischia addirittura di peggiorare da qui a qualche settimana, dal momento che l’Unione Europea - al cui interno alcuni paesi sono i principali destinatari del petrolio iraniano - sta valutando anch’essa la possibilità di bloccare l’acquisto del greggio estratto nel territorio della Repubblica Islamica.

In questo scenario, un regime messo sempre più alle corde ha lanciato negli ultimi giorni anche segnali meno pacifici, che verranno sfruttati da Washington per aumentare le pressioni su Teheran. Nella giornata di domenica, la marina iraniana ha testato un missile terra-aria di medio raggio nel corso di un’esercitazione militare iniziata il 24 dicembre scorso nelle acque internazionali dello Stretto di Hormuz. Il giorno successivo è stata la volta poi di altri missili “Qader” a lunga gittata. Sempre il primo gennaio, infine, l’agenzia nucleare iraniana ha annunciato di aver prodotto per la prima volta del combustibile nucleare - il cui acquisto sul mercato internazionale è vietato all’Iran a causa delle sanzioni - che verrà utilizzato a scopo medico e per la produzione di energia.

Come noto, gli Stati Uniti continuano ad accusare Teheran di voler giungere alla costruzione di un’arma nucleare. Per rafforzare la propria tesi, Washington può contare sulla collaborazione dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) e del suo docile direttore, Yukiya Amano, ben disposti e fabbricare dubbie prove dell’esistenza di un programma nucleare a scopi militari in Iran, come quelle contenute nel rapporto pubblicato lo scorso novembre e basato quasi esclusivamente su informazioni fornite dalle agenzie d’intelligence occidentali e di Israele.

L’atteggiamento di Washington verso l’Iran ha come vero obiettivo il cambio di regime a Teheran e si inserisce in una strategia tesa ad allargare l’influenza americana in tutto il Medio Oriente, a scapito principalmente di Russia e Cina. Il tentativo di scardinare l’asse anti-americano, di cui la Repubblica Islamica rappresenta il pilastro principale, passa poi anche attraverso la Siria e l’Iraq.

Per quanto riguarda la Siria, gli USA sono in prima linea per provocare la caduta del regime di Assad (principale alleato dell’Iran nel mondo arabo) e sostituirlo con un nuovo governo sunnita meglio disposto verso i propri interessi e quelli degli alleati nella regione (Arabia Saudita, Turchia, Giordania). In Iraq, invece, gli Stati Uniti si stanno adoperando per sganciare da Teheran il governo guidato dal premier sciita Maliki, cercando di promuovere i rappresentanti della minoranza sunnita nel paese che fu di Saddam Hussein.

Parallelamente, l’accerchiamento dell’Iran prosegue con lo spiegamento di truppe americane smobilitate dall’Iraq nelle varie autocrazie sunnite del Golfo Persico, la cui militarizzazione procede senza soste grazie alle forniture di armamenti a stelle e strisce. Della scorsa settimana è ad esempio la conferma da parte dell’amministrazione Obama della vendita di armi all’Arabia Saudita per il valore di 30 miliardi di dollari.

Una politica, quella statunitense in Medio Oriente, che rischia così ancora una volta di destabilizzare l’intera area e di innescare un conflitto internazionale dalle conseguenze catastrofiche.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Inviare sms di auguri nelle prime ore del nuovo anno, se non allo scoccare della mezzanotte stessa, fa parte ormai delle consuetudini moderne. O meglio, è un’abitudine che ha quasi sostituito ogni altro tipo di scambio di auguri. Perché Capodanno è una di quelle notti in cui è d’obbligo essere chissà dove a festeggiare in allegria, e condividere un attimo di divertimento o un momento di gioia con chi non si trova accanto a noi è diventato uno dei tratti fondamentali di questa ricorrenza.

E allora, come tutti gli anni, ci si trova a combattere con linee intasate e messaggi che partono e arrivano in ritardo, o - nella peggiore delle ipotesi - che non arriveranno mai. Ma poco importa, perché la condivisione virtuale di un momento piacevole fa parte ormai del nostro stile di vita ed esprime il tipo di rapporti umani verso cui tende la società contemporanea, una sorta di essere sempre vicini e presenti, ma in maniera poco impegnativa. E a volte, forse, non ci si rende conto delle enormi proporzioni che il fenomeno sta assumendo.

Un sondaggio condotto in Germania da Bitkom, l'associazione delle aziende telematiche, ha rivelato che, per la notte di San Silvestro, il 39% dei tedeschi è ricorso ai classici messaggini di auguri di buon anno, sms che sono stati inviati a cavallo della mezzanotte.

A sfidare il far west delle linee intasate con chiamate vocali è stato invece il 71% dei cittadini, mentre soltanto il 35% si è affidato al buon vecchio metodo dei biglietti di auguri cartacei: meno live, ma più impegnativi e di sostanza. C’è stato anche un buon 14% che si è accontentato di postare i propri “sentiti” auguri in social network e blog, mentre il 9% ha utilizzato opzioni particolari dai propri cellulari, quali app, mms e così via.

Ma a intimidire le società telefoniche tedesche (e i pensatori di tutto il mondo) non sono state le sopraindicate percentuali, bensì il numero di sms che i tedeschi  hanno fatto circolare la notte di San Silvestro. In un recente articolo, il quotidiano Sueddeutsche Zeitung aveva prospettato per la sola notte di San Silvestro un traffico di ben 310 milioni di messaggi, solo in Germania, per una popolazione di quasi 82 milioni di cittadini.

Un numero spaventoso, che apre gli occhi sull’entità reale del fenomeno: stimare il numero esatto di sms inviati in tutto il mondo è difficile, se non impossibile, ma partendo dal dato del paese teutonico ci si può fare un’idea.  Miliardi e miliardi di sms spediti in una sola notte: una difficoltà estrema per le compagnie telefoniche e un terno al lotto per gli utenti.

Ed è proprio a questo punto che si tocca l’apice dell’assurdità: nella nota che accompagna il suo studio, Bitkom offriva agli utenti dei consigli per evitare la panne dell’ora di punta e del traffico della mezzanotte 2011/ 2012.

Consigli che, inutile dirlo, tolgono ogni poesia a quel tanto ostentato bisogno di condividere virtualmente un momento di gioia, svelandolo in tutto il suo convenzionalismo. Innanzitutto Bitkom suggeriva di preparare in anticipo dei modelli di sms, di salvarli nella memoria del cellulare e di inviarli poco prima della mezzanotte ai propri cari.

Se un modello può andare bene per più destinatari, allora l’associazione invita a prepararsi delle liste di amici o parenti per velocizzare anche il processo d’invio multiplo: basta cliccare un pulsante per inviarne diversi.

Ma l’accorgimento più significativo veniva dato a chi non vuole l’impiccio di interrompere i festeggiamenti allo scoccare della mezzanotte: diversi gestori di posta elettronica virtuale offrono la possibilità di programmare l’invio di sms in anticipo. Sms, quindi, programmati, slegati dall’attimo e dalla condivisione e che diventano pura abitudine e conformismo.

Avranno seguito i consigli? Inutile interrogarsi: tali consigli, purtroppo, riproducono in maniera indiretta la vera realtà del fenomeno. Perché i messaggini di Capodanno raggiungono i destinatari designati senza particolare impegno emotivo. Danno l’illusione di un’amicizia, di un amore, di un sentimento sincero laddove, in realtà, non c’è che un obbligo di forma.

L’importanza di un rapporto si misura sull’effettiva vicinanza in un momento di puro piacere come il Capodanno, perché il contatto fisico presuppone anche un impegno vero, mentre l’invio di un sms ha la stessa sostanza di un rapporto coltivato via facebook: intenso sì, ma senza vincoli concreti perché può non interferire con la realtà.

E allora non ci resta che prendere atto di un’usanza, quella degli sms di Capodanno, che va a inserirsi tra i convenevoli virtuali e quasi obbligati. Gli auguri di Capodanno esprimono il bisogno di essere sempre presenti e vicini a qualcuno senza mettersi in gioco davvero. Miliardi e miliardi di sms per un’abitudine che assomiglia, sempre di più a una farsa.

 

di Michele Paris

La deriva autoritaria seguita al trionfo elettorale del partito di centro-destra Fidesz in Ungheria ha fatto segnare una nuova tappa nei giorni precedenti il Natale. Una serie di misure anti-democratiche è stata infatti approvata dal Parlamento di Budapest, dove il partito del premier Victor Orbán detiene un’ampia maggioranza che negli ultimi mesi gli ha permesso di ampliare i poteri dell’esecutivo in maniera preoccupante, nonostante le proteste interne e delle istituzioni europee.

Venerdì scorso il Parlamento ungherese ha licenziato una nuova legge elettorale che espande il sistema maggioritario, a detta degli osservatori favorendo il partito Fidesz che già dispone di una maggioranza di due terzi dopo le elezioni dell’aprile 2010. Il voto della scorsa settimana è stato boicottato dall’opposizione socialista (MSZP) e dai verdi (LMP), mentre all’esterno dell’aula andavano in scena manifestazioni per cercare di bloccare la legiferazione. Nel corso degli scontri con la polizia sono finiti in manette anche alcuni parlamentari dell’opposizione, tra cui il due volte ex primo ministro socialista Ferenc Gyurcsany.

Nella stessa sessione precedente il Natale, è stata approvata anche una drastica restrizione dei tempi di intervento concessi durante i dibattiti ai parlamentari dell’opposizione - i quali avranno ora solo 15 minuti a disposizione - così come la nomina di nuovi giudici della Corte Costituzionale scelti dall’esecutivo. Il più alto tribunale ungherese ha recentemente bocciato alcune parti delle leggi volute da Fidesz, come quella sul controllo dei media e le modifiche al codice civile, ma le sue competenze - già ristrette in materia di bilancio - saranno ulteriormente ridotte con l’entrata in vigore della nuova costituzione il primo gennaio 2012, peraltro approvata senza un solo voto dell’opposizione.

Tra le altre più recenti iniziative del governo di Orbán va ricordata anche quella che poco meno di due settimane fa ha revocato la concessione delle frequenze radiofoniche ad una stazione allineata con l’opposizione, Klubradio, per concederle ad un’altra vicina all’esecutivo. Quest’ultima misura s’inserisce all’interno di una strategia ben precisa, tesa a porre sotto il controllo del governo le stazioni radio e quelle televisive, sia pubbliche che private.

Sul fronte economico, è stata poi fissata in Costituzione la tassa ad aliquota fissa (flat tax) del 16 per cento che potrà essere modificata solo con il voto dei due terzi dei membri del Parlamento, legando le mani ai futuri governi. In precedenza, un’altra modifica alla Costituzione aveva stabilito l’obbligo del pareggio di bilancio, a partire però dal 2016 e non dal 2012 come chiedeva l’Unione Europea

Lo scontro più duro con Bruxelles riguarda tuttavia una nuova legge tuttora in discussione a Budapest e che riguarda la Banca Centrale ungherese. Il gabinetto di Victor Orbán intende infatti ridurne notevolmente l’autonomia, espandendo l’influenza dell’esecutivo sulla politica monetaria per mezzo di nuove nomine di rappresentanti del governo ai vertici della stessa Banca Centrale. Il rifiuto da parte del governo ungherese di ritirare questa proposta di legge ha spinto l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale a congelare le discussioni in corso con Budapest per l’erogazione di un nuovo prestito del FMI.

L’Ungheria sta d’altra parte facendo i conti con una situazione economica a dir poco complicata. I redimenti dei suoi bond hanno toccato i livelli più alti dal 2009, quando il paese fu salvato dal default proprio grazie ad un’infusione di denaro del Fondo Monetario. Le previsioni per il prossimo anno, inoltre, sono anche peggiori, con l’inflazione che salirà oltre il 5 per cento e la disoccupazione al 12 per cento, mentre scenderanno sensibilmente le entrate fiscali e il PIL.

Questo scenario ha già causato una rapida caduta dei livelli di popolarità del partito Fidesz di governo, il quale lo scorso anno aveva potuto approfittare della diffusa avversione nel paese verso i socialisti. Oltre al partito del premier Orbán, a raccogliere ampi consensi tra l’elettorato ungherese era stata anche la formazione di estrema destra anti-semita, Jobbik, che aveva conquistato quasi il 17 per cento dei voti e 47 seggi in parlamento. Con un partito socialista screditato, appare probabile dunque che a beneficiare del possibile declino di Fidesz nei prossimi appuntamenti elettorali sarà proprio Jobbik.

La svolta autoritaria e anti-democratica intrapresa dal governo ungherese in questi mesi, come già anticipato, ha destato le preoccupazioni della comunità internazionale. Oltre alle autorità europee, a protestare nei confronti di Budapest è stata, solo qualche giorno fa, anche il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, la quale ha indirizzato una lettera al primo ministro Orbán esprimendo i timori di Washington per l’erosione delle libertà democratiche in Ungheria. Niente di più.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Stresstest, un termine particolarmente versatile che ha raccontato, negli ultimi dodici mesi, le tensioni presenti in numerosi ambiti della nostra società, e per questo largamente adoperato dai media. Tanto presente nella comunicazione quotidiana, in realtà, che i tedeschi hanno deciso di eleggerlo “parola dell’anno 2011”. Stresstest si potrebbe forse tradurre, in italiano, “test di resistenza allo stress” e indica un processo che ha perseguitato nel 2011 banche, governi e centrali nucleari di tutto il mondo, queste ultime alla luce della catastrofe di Fukushiima. E la Germania è ora pronta a scommetterci: il termine ha un futuro ed entrerà a far parte del linguaggio quotidiano dei cittadini.

Nato nel 1971 come semplice concorso, l’elezione della “parola dell’anno” è diventata ormai una tradizione per tutti i filologi tedeschi e non solo. Un gruppo di linguisti della Gesellschaft für deutsche Sprache, la Società per la Lingua Tedesca con sede a Wiesbaden, si riunisce nell’ultimo mese di ogni anno per scegliere, tra centinaia di proposte, la parola che più ha segnato il discorso pubblico e mediatico dell’anno in corso: lo scopo è identificare la parola che più caratterizza l’anno e che ha più possibilità di essere utilizzata anche in futuro. E’ la rivista Sprache und Literatur in Wissenschaft und Unterricht a pubblicarne poi i risultati, in un breve articolo in cui vengono commentate tutte le parole più significative dell’anno.

La parola stresstest è stata selezionata qeust’anno, in particolare, per la sua versatilità. Nato come termine medico, nel 2011 stresstest è stato utilizzato per le banche e ha acquistato notorietà alla luce della profonda crisi economica che ha accompagnato i mercati. Nonostante gli istituti bancari si sottopongano periodicamente a stresstest, quest’anno la loro resistenza è stata messa veramente alla prova in una situazione di tensione e crisi costante e i risultati dei test hanno spesso occupato le prime pagine dei giornali. Da notizia di nicchia, gli stresstest delle banche sono entrati a far parte dell’informazione di massa.

I media non si sono tuttavia risparmiati, nel 2011, di utilizzare il termine stresstest anche in campo politico. La Germania si riferisce ai numerosi appuntamenti elettorali che l’hanno segnata, sei in tutto: si tratta delle elezioni regionali, che hanno messo a dura, durissima prova, il Governo Merkel, alla stregua di veri e propri stresstest, una misura della capacità di resistenza della coalizione cristianodemocratica- liberale. Anche se, in realtà, ad essere messi alla prova nel 2011 sono stati molti governi sparsi in tutto il mondo: a partire dai Paesi arabi, coinvolti nella spirale di cambiamento che ha dato origine alla primavera araba, per finire con quelli europei, messi in discussione dalla crisi economica. E molti di questi governi, ora lo sappiamo, non hanno retto ai test, a partire dal nostro.

Così come le centrali nucleari, sottoposte ovunque a stresstest concreti e mediatici dopo la catastrofe di Fukushiima: come in Germania, dove le centrali nucleari non sono sopravissute alla prova mediatica, o in Italia, dove i cittadini, interpellati da un referendum, hanno detto No. Altrove, invece, hanno prevalso i risultati più o meno attendibili degli stresstest concreti. E il nucleare ancora c’è.

Il 2011 sarà quindi un anno ricordato per le tensioni che ha messo a dura prova la capacità di resistenza di molte istituzioni, scommettono i linguisti tedeschi, e per i test preventivi condotti in questo ambito. La scelta non è stata delle più semplici, hanno comunque spiegato i giuristi: nella top ten tedesca delle parole dell’anno ci sono molti termini prettamente riferiti alla crisi economica, mentre al terzo posto c’è arabellion, in riferimento alle ribellioni- rivoluzioni arabe.

Da segnalare, in particolare, la proposta guttenbergen, anch’essa fra i primi dieci, dal cognome dell’ex-ministro della Difesa tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg, dimessosi lo scorso marzo per aver copiato la tesi di laurea. Il verbo guttenbergen indicherebbe proprio l’atto del copiare, o del portare a termine un compito con mezzi poco leciti. I giuristi assicurano che il termine è molto usato dai più giovani: forse più simpatico e interessante di stresstest, ma non abbastanza versatile, purtroppo, per essere inserito nei vocabolari di lingua tedesca.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Non c'è verso, ai boliviani il Big Mac proprio non piace: preferiscono l'empanada. Dopo quattordici anni di attività e massicce quanto inutili campagne pubblicitarie, la multinazionale americana getta la spugna e chiude i suoi otto fast food a La Paz e nel resto della Bolivia. Ma la Bolivia è in buona compagnia. Altri sette Paesi dovranno dire addio alle insegne del McDonald's, a quanto pare senza molti rimpianti.

Il piano di ristrutturazione globale della multinazionale prevede la chiusura di tutti i punti vendita con bassi profitti. Anche se gli otto ristoranti boliviani, su un totale di trentatremila punti vendita nel mondo e 58 milioni di clienti al giorno, non sono un grosso giro d'affari, la ritirata ha un grande valore simbolico.

Secondo il sito “Hispanically Speaking News,” il settore marketing del colosso alimentare è stato preso talmente alla sprovvista, che ha deciso di girare un documentario sulla chiusura del loro ultimo fast food a La Paz (lo potete vedere su Youtube, dal titolo “Why did McDonald’s Bolivia go Bankrupt” ndr).

Nel documentario, cuochi, sociologi, nutrizionisti e educatori danno la loro versione dei fatti, spiegando come i boliviani non siano contrari agli hamburger di per sé. È proprio il concetto di fast food che non prende. Per i boliviani, un pasto deve essere preparato con amore e dedizione, un minimo rispetto per l'igiene, ma soprattutto deve essere ben cotto e a base di ingredienti genuini. In breve, il contrario del Big Mac!

Dopo che il divertente documentario SuperSize Me nel 2004 ha mostrato la pericolosità di una dieta a base di McDonald's, non si possono più ignorare i gravissimi rischi alla salute. Se ti strafoghi di hamburger e patatine per un mese, sei praticamente spacciato. Alla faccia dei salutisti e delle campagne per salvare la dieta mediterranea, in questo caso è invece il mercato a decidere.

Il fatto curioso del fallimento boliviano è che le preoccupazioni legate alla salute non sembrano essere alla base della debacle. Più semplicemente, pare che ai boliviani il Big Mac proprio non vada giù: l'intero concetto di “fast food” lì non interessa a nessuno. Del resto la Bolivia ha una storia indigena marcata anche sotto il profilo alimentare dalla quale non sembra proprio voglia recedere. Meglio mangiarsi una bella empanada calda con tutta calma e meno pericoli per la salute.

In Italia, McDonald's arriva nel 1985 e all'inizio non ha vita facile. Solo dopo aver rilevato la concorrente Burghy, la multinazionale americana riesce ad espandersi e ora conta su circa quattrocento fast food, in continua espansione. Sembra strano che nella patria mondiale dei buongustai, più che in Bolivia, il Big Mac sia così amato. De gustibus...


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