di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è concluso a Berlino l’ultimo appuntamento elettorale 2011 della Germania e la capitale ha riconfermato senza sorprese il terzo mandato al socialdemocratico Klaus Wowereit. A stupire è stato il partito dei Pirati, il movimento dell’informazione libera, che debutterà per la prima volta nel Parlamento regionale. Grande successo anche per i Verdi di Renate Kuenast, mentre i cristiano-democratici, il partito di Angela Merkel, guadagnano soltanto qualche punto rispetto al 2006. A farne le spese sono i Liberali, che non riescono a superare la soglia minima richiesta per essere rappresentati e la sconfitta di Berlino potrebbe essere quella decisiva per un partito che, a quanto pare, non ha più la credibilità per far parte di un Governo nazionale.

Nonostante recenti posizioni impopolari, Klaus Wowereit (SPD) è stato sin dall’inizio il grande favorito di queste elezioni. Già sindaco della città-stato di Berlino da un decennio, il leader socialdemocratico è stato tra i primi sostenitori dei progetti per l’ampliamento dell’autostrada A100 e per la costruzione dell’aeroporto Berlin Brandenburg International, due opere costose e inquinanti che non hanno incontrato il favore dei berlinesi e che avrebbero potuto mettere in discussione la sua riconferma nella capitale. Wowereit è riuscito comunque a mantenere la poltrona, seppur perdendo quasi 2 punti percentuali.

Durante l’ultimo mandato, i socialdemocratici hanno governato con Die Linke, il partito di estrema sinistra che, secondo le proiezioni, questa volta avrebbe conquistato l’11.5% degli elettori: risultato poco brillante che esclude matematicamente una coalizione di governo con l’SPD. A Wowereit rimangono due alternative: i Verdi o una “Grosse Koalition” con la CDU, il partito della Cancelliera, grande rivale da sempre. La scelta non è facile: Renate Kuenast, leader del partito degli ecologisti, ha dichiarato che un governo rosso-verde ci sarà soltanto a patto di un’interruzione del progetto A100 (ma Wowereit non sembra proprio del parere), mentre i cristiano-democratici condividono le decisioni dei socialdemocratici in ambito urbanistico, ma non a livello di politica interna, dove il disaccordo sembra insanabile.

Anche se, dopo i primi exit-pool, già qualcosa è cambiato. Sulla scia dei successi di questo super anno elettorale, i Verdi hanno ottenuto a Berlino il 18,5% dei voti, aumentando di quasi 5 punti percentuali rispetto al 2006. Le ultime interviste hanno svelato che i Verdi sono pronti a “valutare con calma una possibile coalizione [con l’SPD] per trovare un accordo”, perché la controversa autostrada A100 “non costituisce un impedimento”. Certo sarà difficile spiegarlo a tutti quei berlinesi che da mesi ormai manifestano sotto le bandiere del partito ecologista contro l’ampliamento della famigerata autostrada.

Non sembrano invece disposti a prendere in considerazione nessun tipo di alleanza il Piratenpartei, la vera sorpresa di queste elezioni. Con il 9% dei voti il partito dei Pirati si è guadagnato per la prima volta nella storia una posizione in Parlamento. I sondaggi li davano attorno al 10% già da alcune settimane, e il leader Andreas Baum, un ingegnere elettronico di 33 anni, aveva più volte espresso l’intenzione di far valere le proprie idee in senato contro i partiti più tradizionali. Il programma dei Pirati prevede la liberalizzazione dei diritti d’autore, la legalizzazione delle droghe leggere e una maggiore trasparenza in rete: un programma ridotto ma attuale nella sua provocazione e, a quanto pare, ha colpito al cuore una città giovane e alternativa come Berlino.

Bene i cristiano-democratici, che ottengono il 23,5% dei voti. Dopo le disfatte degli ultimi cinque appuntamenti legislativi di quest’anno, finalmente una buona notizia per il partito della Cancelliera Angela Merkel, che è riuscito a guadagnare due punti percentuali. A subire il vento della sconfitta, ancora una volta, sono invece i liberali, che non riescono a ottenere la percentuale necessaria a essere ammessi nel Parlamento berlinese. Con questa ennesima esclusione, i liberali rischiano di non essere più adatti al ruolo di forza di Governo a livello nazionale: se la Cancelliera vuole continuare a presiedere la Germania (e a dire la sua in Europa), certo dovrà inventarsi dei nuovi partner.

 

di Michele Paris

Nelle elezioni anticipate per il rinnovo del Parlamento danese di giovedì, la coalizione di governo di centro-destra è stata sconfitta di misura dall’opposizione di centro-sinistra. A guidare il piccolo paese scandinavo sarà la candidata premier del Partito Social Democratico, Helle Thorning-Schmidt, prima donna della storia a capo di un governo in Danimarca. L'affluenza alle urne è stata dell'87,7% ed ha raggiunto il suo livello più alto degli ultimi decenni. "Ce l'abbiamo fatta. Oggi abbiamo scritto una pagina di storia", ha affermato la 44enne Helle Thorning-Schmidt dinanzi ai suoi elettori.

Anche se il suo partito ha perso terreno e registrato il peggior risultato dal 1906, la vittoria del centro-sinistra è il frutto della capacità della Thorning-Schmidt di riunire nello stesso blocco dei partiti tanto diversi come i Rossi-Verdi dell'estrema sinistra e i liberali centristi del Partito Social-liberale, cosa che era fino ad oggi impensabile.

La coalizione di centro-sinistra - Blocco Rosso - ha raccolto poco più del 50 per cento dei consensi nel paese, tradottisi in un numero di seggi che i dati parziali indicano tra gli 89 e i 92 sui 179 totali. I sondaggi fino a poco tempo fa indicavano per l’opposizione un vantaggio molto più ampio, che si è però assottigliato notevolmente nelle ultime settimane.

Hanno fatto registrare importanti progressi il partito radicale e la Lista dell'Unità. E' soprattutto grazie al loro contributo, infatti, che il blocco di centro-sinistra ha potuto ottenere 89 seggi nel Folketing, contro gli 86 degli avversari di centro-destra.

Il blocco di centro destra - Liberali e Conservatori - ha conquistato tra gli 86 e gli 88 seggi. Il Partito Social Democratico, a conferma del modesto entusiasmo suscitato, ha fatto singolarmente peggio rispetto al voto del 2007, ottenendo infatti un seggio in meno (44). I Liberali del premier uscente, Lars Loekke Rasmussen, rimangono così il primo partito, con 47 seggi, ma scontano il crollo dei consensi subito dai conservatori e il ridimensionamento del Partito del Popolo Danese di estrema destra.

Le elezioni di ieri hanno messo fine a dieci anni di governo di centro-destra. Loekke Rasmusse era alla guida di un governo di minoranza, sostenuto dall’appoggio esterno del Partito Popolare Danese (DF) xenofobo e che ha prodotto alcune delle leggi più dure sul controllo dell’immigrazione in tutta Europa.

Il partito di estrema destra DF, guidato da Pia Kjaersgaard, ha fatto segnare un leggero passo indietro rispetto al voto di quattro anni, conquistando 3 seggi in meno (22). Questa formazione politica ha esercitato in questi anni una pesante influenza sulle scelte del governo e la sua vittoria più significativa è stata l’uscita della Danimarca dal trattato di Schengen lo scorso mese di maggio. Una misura concessa dal premier Loekke Rasmussen in cambio del sostegno ad un budget che prevede tagli per oltre 9 milioni di dollari nel prossimo decennio.

In campagna elettorale, la 44enne Helle Thorning-Schmidt aveva promesso di innalzare le tasse sulle banche danesi e sui redditi più altri, così da finanziare modesti incrementi della spesa pubblica. Il leader del centro-destra, invece, aveva messo in guardia dall’aumento del carico fiscale e della spesa pubblica in un periodo di crisi economica.

Le pressioni e il clima attuale in Europa renderanno in ogni caso improbabile un’estensione significativa del welfare danese, certo più generoso rispetto agli standard europei ma eroso notevolmente negli ultimi anni. Tanto più che la Danimarca è il paese scandinavo con l’economia maggiormente in affanno e il deficit di bilancio più elevato.

Anche sul fronte dell’immigrazione non ci saranno significativi cambiamenti rispetto al recente passato. La premier in pectore ha d’altra parte già comunicato che le rigide limitazioni agli ingressi in Danimarca adottate dal precedente governo rimarranno in vigore.

I media danesi hanno accolto con grande entusiasmo la prospettiva di avere una donna a capo del governo per la prima volta nella storia della Danimarca. "Vittoria di una donna!", "La prima", "La conquistatrice": i grandi giornali si esaltano per questa bionda 44enne, leader dei Socialdemocratici, che ha portato "il blocco rosso" al governo dopo dieci anni d'opposizione.

Questa bionda elegante - per il suo debole per il lusso gli avversari l’hanno stupidamente soprannominata Gucci-Helle - che "era troppo ben vestita per i socialdemocratici, troppo nuova per assurgere alla guida dello Stato, tropo fredda per conquistare il cuore della gente", diventa la prima donna premier del Paese, scrive il quotidiano Politiken.

Helle Thorning-Schmidt iniziera' immediatamente le consultazioni per la formazione del nuovo governo danese. Lo ha annunciato la stessa leader socialdemocratica danese che con la vittoria elettorale di ieri diventa il primo Premier donna del paese: "Vogliamo lavorare con tutti i partiti disposti a partecipare", ha dichiarato la Thorning-Schmidt, specificando che i negoziati potranno "durare tutto il tempo necessario" senza fissare scadenze.

Nella giornata di venerdì, quindi, l’ormai ex premier Loekke Rasmussen rassegnerà le proprie dimissioni di fronte alla regina Margherita II, proprio mentre saranno in corso i primi colloqui per la formazione del nuovo governo di centro-sinistra.

di Michele Paris

Con milioni di americani costretti a fare i conti con una crisi economica tutt’altro che superata e una disoccupazione dilagante, i livelli di povertà negli Stati Uniti continuano a far segnare numeri da primato. A confermarlo è stata martedì la pubblicazione di un agghiacciante rapporto dell’Ufficio del Censo USA che ha fissato alla cifra record di 46,2 milioni il numero di persone al di sotto della soglia povertà nella prima potenza economica del pianeta.

I dati resi noti dall’Ufficio delle Statistiche d’oltreoceano si riferiscono al 2010 e fotografano un quadro allarmante, con povertà in aumento, redditi in discesa e un’impennata nel numero di cittadini sprovvisti di copertura sanitaria. Nel complesso, le condizioni di vita degli americani sono peggiorate nel recente passato, nonostante la ricerca faccia riferimento ad un periodo abbondantemente successivo alla fine ufficiale della recessione negli Stati Uniti (giugno 2009).

Il tasso di povertà in America nel 2010 è salito al 15,1%, vale a dire il livello più alto dal 1993. Nel 2007 era invece del 12,5% e nel 2009 del 14,3%. Ciò si traduce in un numero di poveri pari appunto a 46,2 milioni, il numero più alto in assoluto dal 1959, quando il “Census Bureau” ha iniziato a compilare le statistiche. Questo numero corrisponde alle persone che vivono al di sotto della soglia ufficiale di povertà, fissata peraltro alla cifra irrisoria di circa 22 mila dollari l’anno per una famiglia di quattro componenti e di 11 mila dollari per i single.

Particolarmente preoccupante risulta la percentuale dei minori di 18 anni che vivono in povertà, passata dal 20,7% del 2009 al 22% del 2010 (16,4 milioni). Com’è facile immaginare, ad essere colpite in maniera più grave sono le minoranze, con gli afro-americani che soffrono del tasso di povertà più elevato (27,4% contro il 25,8% del 2009).

All’interno di questa fetta enorme della popolazione americana in affanno, l’Ufficio del Censo identifica poi gli americani che costituiscono la fascia di “estrema povertà”, coloro cioè che dispongono di redditi inferiori alla metà della soglia di povertà ufficiale (circa 11 mila dollari per un nucleo famigliare di quattro persone). I più poveri tra i poveri sono 20,5 milioni, pari al 6,5% della popolazione complessiva.

A risentire di questa situazione è anche il reddito medio annuo degli americani, sceso del 2,3% tra il 2009 e il 2010 (49.445 $). Dal 2007 il reddito medio reale è crollato del 6,4% e nel 2010 è risultato inferiore di oltre il 7 per cento rispetto a quello più alto mai registrato, nel 1999. Questo dato, tuttavia, non rende a sufficienza l’idea delle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze negli USA, dove un quinto degli americani incamera oltre la metà del reddito totale del paese.

Anche in questo caso le varie minoranze hanno subito effetti diversi: i bianchi hanno visto scendere i propri redditi in media del 5,5% tra il 2009 e il 2010, gli asiatici dell’8,9%, gli ispanici del 10,1% e gli afro-americani del 14,6%. Per quei fortunati – di sesso maschile – che risultano impiegati a tempo pieno, poi, il reddito reale medio, aggiustato per l’inflazione, nel 2010 è stato praticamente identico a quello registrato nel 1973. Il numero di americani sprovvisti di un’assicurazione sanitaria, infine, è schizzato a 49,9 milioni, con una crescita di quasi un milione rispetto al 2009.

La causa principale del quadro drammatico disegnato dal Censo americano è il persistente elevatissimo tasso di disoccupazione, di fatto sfruttato dalle aziende e dallo stesso governo per spingere verso il basso le retribuzioni e cancellare le rimanenti garanzie dei lavoratori. I dati ufficiali più recenti sui senza lavoro negli Stati Uniti indicano un livello di disoccupazione attestato al 9,1%.

L’aumento vertiginoso del numero di persone al di sotto della soglia di povertà in America non è la conseguenza accidentale di dinamiche incontrollabili, bensì il risultato di politiche implementate deliberatamente dalla classe politica - repubblicana e democratica - per accrescere i profitti delle grandi compagnie private. Un processo in atto da almeno tre decenni, negli USA come altrove, che ha prodotto un gigantesco trasferimento di ricchezza a favore di una ristretta cerchia al vertice della piramide sociale, tramite ingenti tagli alle tasse per le corporation e la deregolamentazione dei settori industriale e finanziario.

I dati contenuti nel rapporto dell’Ufficio del Censo USA contrastano infatti in maniera sconcertante con quelli che indicano profitti record per le multinazionali e i giganti della finanza di Wall Street, i quali continuano a beneficiare dell’infusione di migliaia di miliardi di dollari da parte del governo e della Federal Reserve.

Di fronte alla sofferenza così evidente di ampi strati della popolazione americana, è estremamente significativo che praticamente nessun politico di spicco, a cominciare dal presidente Obama, abbia commentato il rapporto del Censo. La risposta di Washington agli spaventosi livelli di povertà negli Stati Uniti consiste anzi in nuove devastanti misure di austerity, così da tagliare ulteriormente ciò che rimane della rete assistenziale pubblica per salvare il sistema e far pagare ai redditi più bassi le conseguenze della crisi.

di Bianca Cerri

Fortunatamente gli americani non hanno dovuto arrovellarsi sulla bandiera da esporre nel giardino di casa in occasione del decimo anniversario dell’11 settembre. Con ammirevole tempismo il governatore dello Stato di New York aveva fatto realizzare appositamente per l’occasione l’Official 9/11 flag, composta da un rettangolo azzurro con al centro la sagoma del Pentagono e le Torri Gemelle incastonate all’interno.

Il tutto contornato da 40 stelle color oro e dall’immancabile “We remember” a caratteri giganteschi nella parte inferiore. Durante la presentazione ufficiale tenutasi il 31 agosto nella sala centrale del Municipio di New York, Cuomo aveva spiegato che la frase era stata scelta affinché anche le future generazioni possano ricordare le eroiche vittime dell’11 settembre 2001.

In realtà, la bandiera ufficiale dell’11/9 è solo l’ultimo prodotto del “memorial merchandising” scaturito dalla tragedia del WTC che genera un fatturato di svariati miliardi di dollari. Tanto per dare un’idea, solo per visitare il memoriale l’ingresso costa 15 dollari che, moltiplicati per i circa nove milioni di turisti che ogni anno arrivano a Ground Zero, fanno una bella cifra. Per la solenne commemorazione del decimo anniversario il prezzo dei biglietti costava dieci dollari in più e a dividersi l’affare sono stati come sempre  il 9/11 Tribute Visitor Center e la Memorial&Museum Foundation, indipendenti l’uno dall’altra ma uniti nel combattere i tanti venditori ambulanti di souvenirs ispirati all’11 9 che gravitano attorno a Gound Zero. I comandi di polizia avevano del resto avuto l’ordine di punire severamente chiunque fosse stato scoperto a vendere oggetti commemorativi “non certificati”.

Bisogna fare una premessa: l’oggettistica della memoria ha una lunga storia alle spalle. Già nel 18 secolo, i ricchi giovani dell’aristocrazia europea che effettuavano il grand tour destinato a perfezionare la loro educazione tornavano a casa con frammenti di colonne e calcinacci vari sgraffignati nei siti archeologici da esporre in bella vista nel salotto di casa. Ma per quanto riguarda il catalogo delle perversioni merceologiche della nostra epoca, la produzione di articoli commemorativi legata all’11/9 merita veramente un capitolo a parte.

In ordine sparso ricordiamo: le calamite da frigorifero con la forma delle Torri Gemelle, l’album da colorare per bambini in cui al posto dei cagnolini e degli alberelli ci sono le immagini dell’attentato e la cattura di Bin Laden, scoperto dalle forze speciali mentre tenta inutilmente di nascondersi sotto il chador di una delle sue mogli; la targa automobilistica con i numeri 9-11-01 e la scritta “never forget”, la palla da golf con impressa l’immagine delle Torri Gemelle, il patch con il logo dei pompieri di New York e la scritta “non dimenticheremo i nostri eroi” da attaccare sui jeans, l’orsacchiotto bianco di peluche con le sagome delle due Torri impresse sul bavaglino sopra le quali campeggia la scritta September 11th, le monete da collezione coniate appositamente per commemorare la tragedia, la cravatta con i colori della bandiera USA e l’immagine delle due Torri ricamata nella parte inferiore, il distributore di caramelle bianco rosso e blu a forma di WTC, la slot machine che elargisce denaro solo se il giocatore azzecca la combinazione di tre immagini raffiguranti le torri Gemelle, ecc.

Per non parlare delle sfere di vetro al cui interno sono miniaturizzate le Torri immerse in un liquido trasparente. Muovendole si ottiene la classica “neve” artificiale generata dai corpuscoli bianchi. Altri modelli leggermente più costosi hanno all’interno un carillon con incisa la versione di New York, New York nella versione di Frank Sinatra o un meccanismo che genera automaticamente anziché una nevicata un pulviscolo che ricorda la polvere sprigionata dalle macerie. Sull’utilità di questo armamentario è meglio stendere un velo pietoso.

Una cosa è certa: a dieci anni dall’11 9 il cordoglio generale si è affievolito. Restano soltanto l’acredine di massa contro il terrorismo islamico che ha consentito al democratico Obama di completare lo scempio iniziato dal repubblicano Bush e la commercializzazione esasperata che ha trasformato una tragedia immane in una specie di  catalogo di merci bizzarre e pacchiane che sfidano la ragione.

C’è poi un lato ancora più oscuro dell’economia legata all’11 settembre ed è quello dell’indecorosa speculazione da parte di organizzazioni come la Croce Rossa, che si sono appropriate di fondi destinati alle famiglie delle vittime. Prima ancora che fossero spalate via le macerie da Ground Zero la CR  aveva già iniziato a lanciare accorati appelli attraverso le reti radiofoniche e televisive incitando gli americani a donare generosamente; ma dei circa 590 milioni di dollari raccolti ai famigliari delle vittime sono andate soltanto le briciole mentre su 39.000 galloni di sangue donati da anonimi cittadini solo 254 risultano essere stati messi a disposizione dei feriti. Tanto per citare alcuni precedenti: all’epoca dello tsunami i sopravvissuti furono costretti ad attendere mesi per ricevere solo una minima parte dei soldi raccolti a loro favore e durante la guerra di Corea i volontari rivendevano sigarette ai militari americani a prezzi esorbitanti approfittando della penuria di tabacco.

L’arrembaggio degli speculatori è continuato anche nel giorno del decimo anniversario. C’è chi ha pagato più di mille dollari per assistere all’inaugurazione del Memorial, mentre molti di coloro che dieci anni fa parteciparono ai soccorsi sono stati lasciati fuori per “mancanza di posti”. Almeno settemila persone sono passate attraverso i metal detector collocato all’ingresso del gigantesco complesso ornato da colossali fontane e circondato da 400 alberi.

L’area della rimembranza è situata accanto al museo che, in occasione del decimo anniversario, è stato arricchito con altri reperti rinvenuti nell’area di Ground Zero all’epoca della sciagura. La cernita dei pezzi da esporre al pubblico è stata alquanto laboriosa. I dirigenti del museo hanno infatti dovuto cercare tra migliaia di oggetti prima di trovare gli esemplari più impressionanti con i quali è stata attirata l’attenzione dei visitatori e che è servita ad aumentare la vendita dei biglietti d’ingresso.

Almeno da quanto è trapelato nei giorni scorsi dai giornali USA, tra i pezzi scelti ci sono state le scarpe coperte di sangue di una delle vittime, una bambola di pezza, un portafogli bruciacchiato con le carte di credito ancora negli scomparti. Sempre in occasione dell’inaugurazione, c’è stato anche un brindisi augurale con un vino fatto realizzare appositamente dalla Lieb Family Cellar, famosa azienda vinicola del New England. Al vino, che da qualche giorno è già stato messo in commercio al prezzo di 20 dollari la bottiglia in molti supermercati degli Stati Uniti, è stato dato il nome di 11 settembre “per onorare la memoria delle vittime”.

Il sommellier del Les Halles, un sofisticato ristorante di New York dove il 9/11 bianco va a ruba, assicura che si tratta di un ottimo prodotto dal gusto intenso e aromatico.  Tuttavia, chissà perché, l’idea di un brindisi con il vino dell’11 settembre fa venire la pelle d’oca. D’altronde, è anche vero che nella logica del capitalismo, qualunque cosa è lecita pur di generare profitto. Compreso strumentalizzare una tragedia costata la vita a tremila esseri umani

 

di Giuliano Luongo

Ormai con Gheddafi in fuga chissà dove, per i mass media la Libia - nonostante i rigurgiti endemici dei lealisti violenti - va sempre più a divenire un ameno paradiso gas-petrolifero per i democratici vincitori atlantisti. Mentre il mondo viene distratto da questo “gioioso” banchetto a base di risorse energetiche che vanno a rimpinguare le casse dell’occidente, sono molti gli eventi non proprio edificanti che vanno a sporcare l’immagine di combattenti per la libertà dei fautori della rivoluzione.

Uno dei fatti più oscuri, tanto rilevante quanto ignorato da gran parte dei mezzi di comunicazione, è quello del sequestro a Tripoli di Thierry Meyssan - giornalista francese freelance e fondatore del Réseau Voltaire - e di alcuni suoi colleghi da parte dell’esercito ribelle con l’appoggio di militari NATO. Dopo numerose peripezie, l’equipe di reporters è riuscita a mettersi in salvo grazie all’aiuto dei membri della Croce Rossa Internazionale, in data 29 agosto. Ebbene, se già di per sé l’evento non fosse sospetto, quanto dichiarato nei giorni scorsi all’IRIB dallo stesso Meyssan (e dal suo collega Julien Teil, anch’egli tra i sequestrati) contribuisce ad aprire numerosi altri spiragli per altrettanto numerose ombre sull’azione rivoluzionaria.

Il primo nodo da sciogliere riguarda i motivi del sequestro, del quale Meyssan spiega la dinamica. Più che un “sequestro”, Meyssan ha definito l’incidente come una sorta di stallo: durante l’assedio di Tripoli, Meyssan si era trovato bloccato all’interno dell’hotel Rixos assieme a dei colleghi di CNN e BBC più alcuni funzionari libici lealisti e due inviati americani (definiti da lui “una sorta di negoziatori”). L’albergo era praticamente assediato dall’armata rivoluzionaria e difeso dai volontari della Jamahiriya, intenti ad impedire l’entrata dei ribelli nell’albergo, temendo vittime civili innocenti.

La NATO sembrava alquanto interessata ai funzionari lealisti, ma non poteva bombardare vista la presenza di cittadini americani: ergo, il tutto rimaneva nelle mani dei soldati ribelli; non proprio dei giovani patrioti indipendenti, stando a quanto detto da molte testimonianze. Si è sospettato, infatti, che le truppe attaccanti l’albergo erano in maggioranza formate da militanti di Al-Qaida, ma guidati da ufficiali francesi e provenienti dal Qatar..

Per aggiungere ulteriore danno alla beffa, anche dall’interno provenivano numerose minacce per l’integrità fisica dei giornalisti del Réseau Voltaire, causa le scoperte fatte dallo stesso Meyssan durante il periodo libico. Il giornalista ha dichiarato di aver scoperto - pur non avendo più con sé le prove - la presenza di spie di CIA e Mossad tra le fila dei giornalisti responsabili della copertura mediatica dell’avanzata ribelle.

L’intervento mediatico sarebbe andato ben oltre i telegiornali faziosi: fonti vicine alla NATO, stando a Meyssan - che già in precedenza aveva denunciato gli eccessi di ribelli e Alleanza Atlantica - avrebbero ammesso l’uso di nastri audio registrati per scatenare il panico a Tripoli, mentre sembra concreta la pista della ricostruzione in studio della presa della Piazza Verde, girata “a tavolino” in Qatar, stile Capricorn One.

Grazie anche alle precisazioni degli americani, Meyssan e i suoi erano quasi certi che, in caso di presa dell’albergo da parte dei ribelli, per loro non ci sarebbe stato scampo visto il carnet di nozioni “antiamericane” ottenute. Teil ha ricordato quanto riportato da Donatella Rovera di Amnesty International, la quale ha sostenuto più volte la falsità dell’uso di mercenari da parte di Gheddafi.

Una volta tornato in patria, Meyssan è riuscito a mettere assieme e pubblicare online un interessante report sullo stato delle infiltrazioni di Al-Qaida in Libia. Stando a quanto scoperto dal giornalista, il responsabile dell’organizzazione dell’esercito anti-Gheddafi - nonché attuale governatore della Tripoli “libera” - risponde al nome di Abdelhakim Belhadj, lietamente impegnato da anni in politica come leader libico di Al-Qaida. Bene. Costui ricopre la carica di leader del LFIG (Gruppo Islamico Combattente in Libia) dal 2004: quest’organizzazione nasce ufficialmente nel 1995 come struttura organizzata dei jihadisti libici finanziati dalla CIA e addestrati nei compounds di Bin Laden.

Il LFIG, tra le sue recenti “apparizioni di rilievo”, fa contare quella del 2005 a Londra, assieme a dei rappresentanti delle fazioni islamiste libiche note come la Confraternita dei Senoussi e la Fratellanza Musulmana. Questo meeting, organizzato dalle agenzie d’intelligence occidentali, mirava sostanzialmente al raggiungimento di tre obiettivi: il rovesciamento di Gheddafi, il controllo della Libia per un anno (sotto la denominazione “Consiglio Nazionale di Transizione” ed il ripristino della monarchia costituzionale come nel ’51), più l’adozione dell’Islam come religione di stato.

Si noti comunque che Belhadj, come altri jihadisti libici, è stato in carcere in quanto noto collaboratore di Bin Laden fino all’inizio del 2011; eppure la sua presenza - come quella di altri noti jihadisti poco amici dell’occidente - non sembra sconcertare i leaders militari della NATO. A dirla tutta, ricordiamo anche che il generale Carter Ham (comandante dell’Africom) ha visto subentrare al suo posto la NATO ed i suoi ufficiali dopo aver espresso forte preoccupazione per la presenza di affiliati di Al-Qaida tra i ribelli. La NATO non è sembrata per nulla preoccupata dal fatto che Belhadj abbia fatto liberare numerosi membri della nota organizzazione terroristica per “supportare i combattenti per la libertà”.

Meyssan e la sua équipe hanno inoltre aperto un interessante scenario transnazionale coinvolgente anche l’Algeria: stando alle loro fonti, sono molti gli elementi che lasciano pensare che l’annunciato movimento rivoluzionario algerino che dovrebbe partire il 17 settembre sarà appoggiato dall’esterno dalla Libia “libera” più alcune ormai note altre influenze internazionali.

Sembra dunque che dopo aver supportato il terrorismo islamico negli anni ’80 a fini antisovietici e dopo tragedie e sberleffi militari subiti contro gli stessi terroristi di cui sopra, gli USA hanno deciso che dopotutto è meglio tenersi buona Al-Qaida ed hanno lasciato correre in questa occasione. Anche per questo, forse, è arrivato l’ok all’apertura di un ufficio di rappresentanza dei Talebani in Qatar.

Operazioni funzionali anche a vecchie logiche di politica di accaparramento delle risorse accanto al sempre amato containment, facendo fuori in un colpo solo un vecchio nemico nonché alleato tendenziale della Russia (Gheddafi, appunto), accaparrandosi allo stesso tempo un bel po’ di risorse energetiche e pavoneggiandosi davanti al mondo come i liberatori di una popolazione oppressa.

E probabilmente la stessa sceneggiatura prevista per l’Algeria. Rimane un unico problema: per l’ennesima volta nella storia, le varie potenze atlantiste sembrano dimenticare i rischi di giocare a Risiko “a grandezza naturale”: la strategia è sempre la stessa, quella di fare clamorose mosse politico mediatiche senza minimamente pensare al concetto di conseguenze a medio-lungo termine. Ma sguinzagliare terroristi di Al-Qaida per tutto il nord Africa è come impugnare un boomerang.

 


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