di Michele Paris

In occasione del primo anniversario dello scoppio della rivolta, in questi giorni migliaia di manifestanti sono nuovamente scesi nelle piazze del Bahrain per protestare contro la repressione spietata messa in atto dalla monarchia alleata degli Stati Uniti. I dimostranti, accolti ancora una volta con il pugno di ferro delle forze di sicurezza, continuano a chiedere la democratizzazione del regime sunnita, al cui vertice siede il sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa, e la fine delle discriminazioni contro la maggioranza sciita che rappresenta circa i due terzi della popolazione del Bahrain.

Nella giornata di lunedì sono stati registrati i primi duri scontri con la polizia dopo che gruppi di manifestanti nella capitale, Manama, avevano deciso di uscire dal percorso previsto per una dimostrazione approvata dal regime e organizzata dall’opposizione ufficiale, guidata dal partito sciita Al Wefaq. Immediatamente, sono seguite cariche delle forze di sicurezza, le quali hanno sparato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la folla, mentre sono stati messi sotto assedio molti quartieri e villaggi sciiti in tutto il paese.

Il giorno successivo, a un anno esatto dall’inizio della sollevazione, la repressione si è ulteriormente intensificata. Le strade di Manama sono state occupate da veicoli blindati, poliziotti e militari, ben decisi a impedire l’accesso dei manifestanti al Pearl Roundabout (Rotonda delle Perle), il luogo simbolo della rivolta dove lo scorso anno il regime fece abbattere un monumento rappresentante una gigantesca perla come gesto di sfida verso gli oppositori.

Le operazioni nelle strade si sono accompagnate a detenzioni preventive e irruzioni armate nelle abitazioni di numerosi critici della monarchia. Due attivisti statunitensi, inoltre, sono stati arrestati e prontamente rimpatriati. L’ONG Bahrain Center for Human Rights ha documentato un centinaio di arresti tra i manifestanti solo negli ultimi giorni, così come svariate ferite causate da armi da fuoco.

Nonostante una nuova preoccupante escalation in questi giorni, la repressione del dissenso in Bahrain prosegue senza soste, e nel pressoché totale silenzio dei media occidentali, da ormai quasi un anno. Dopo un mese di proteste ispirate ai fatti di Tunisia ed Egitto, alle quali aveva partecipato un numero enorme di partecipanti in proporzione alle ridotte dimensioni del paese, il regime della famiglia Khalifa a Marzo decise di soffocare nel sangue la rivolta con il contributo decisivo di truppe provenienti dalla vicina Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dal Kuwait.

L’intervento di militari stranieri per reprimere il movimento popolare che chiedeva riforme democratiche era stato con ogni probabilità appoggiato dagli Stati Uniti. Per Washington, il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, anche perché ospita il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.

Questo stesso intervento, anzi, pare fosse stato concordato direttamente da Washington con l’Arabia Saudita, in cambio dell’impegno da parte di Riyadh di giungere ad un voto favorevole all’intervento NATO in Libia presso la Lega Araba.

Anche per l’Arabia Saudita, d’altra parte, la stabilità del vicino Bahrain sotto il controllo dell’attuale monarchia assoluta è di importanza vitale. Lo sconvolgimento degli equilibri in questo paese comporterebbe infatti una pericolosa espansione dell’influenza iraniana nella regione e, inevitabilmente, il contagio della rivolta alle già inquiete province saudite a maggioranza sciita che ospitano la gran parte delle risorse petrolifere del regno.

Negli scontri seguiti all’esplosione della rabbia popolare in Bahrain, in ogni caso, sono stati uccisi almeno 60 manifestanti, un numero considerevole per un paese che conta poco più di 1,2 milioni di abitanti, di cui oltre la metà stranieri. La repressione del regime si è concretizzata anche in arresti di massa, sparizioni, torture, licenziamenti indiscriminati per coloro che avevano partecipato alle proteste, chiusura dei pochi media indipendenti del paese, processi e pesanti condanne per giornalisti e dissidenti. Uno dei casi che più hanno scosso l’opinione pubblica internazionale è stato il processo davanti ad un tribunale militare di una cinquantina di medici e operatori sanitari, accusati di aver cospirato contro la monarchia solo perché avevano prestato soccorso ai manifestanti feriti dalle forze di sicurezza.

Oltre ad una serie di provvedimenti di facciata, il sovrano del Bahrain già lo scorso mese di giugno aveva creato una speciale commissione d’inchiesta, presieduta dal giurista egiziano esperto di crimini di guerra, Mahmoud Cherif Bassiouni, fondamentalmente con l’obiettivo di occultare le responsabilità e i crimini del regime nella repressione della rivolta. Anche se il rapporto finale della commissione aveva riscontrato violenze ed abusi vari, questi ultimi erano stati considerati episodi isolati, mentre piena fiducia venne assegnata alla road map del regime per pacificare il paese.

La famiglia Khalifa ha potuto procedere al soffocamento delle proteste in Bahrain principalmente grazie al sostegno degli alleati arabi e dell’Occidente, da dove le condanne della repressione, quando sono arrivate, sono risultate essere blande e generiche, nonché seguite subito dall’appoggio a quello che è stato propagandato come un piano di riforme da parte del regime.

Gli Stati Uniti e i loro alleati, in realtà, non solo hanno approvato la dura risposta della casa regnante alle richieste di democrazia dei propri sudditi, ma hanno anche fornito supporto materiale alla repressione stessa. Secondo quanto riportato da Amnesty International, ad esempio, il governo britannico ha recentemente autorizzato la vendita al Bahrain di gas lacrimogeni e altri equipaggiamenti da utilizzare contro le proteste di piazza. In precedenza, nell’estate dello scorso anno, Londra aveva anche dato il via libera alla vendita di armi al regime per un valore di due milioni di dollari.

Ancora più coinvolti sono poi gli USA, da dove a partire dal 2000 sono partite forniture di armamenti destinati al Bahrain per 1,4 miliardi di dollari. Attualmente fermo al Congresso è poi un nuovo contratto di vendita di 53 milioni di dollari che ha incontrato le proteste di parecchie organizzazioni per i diritti civili.

Come se non bastasse, un cittadino inglese, l’ex poliziotto di Scotland Yard, John Yates, è stato assunto dal regime per istruire le forze di sicurezza sui metodi di repressione dei disordini. Secondo quanto riportato dal network russo RT, infine, un altro consulente della polizia del regno risulterebbe essere un cittadino americano già a capo della polizia di Philadelphia.

La doppiezza dell’atteggiamento occidentale nei confronti della Primavera Araba è stata dunque smascherata in maniera evidente proprio con le vicende del Bahrain. L’eventuale appoggio di Washington e dei governi europei alle rivolte popolari scoppiate in questi mesi non dipende infatti da un improbabile scrupolo di natura democratica, bensì esclusivamente dalla necessità di preservare i propri interessi strategici.

A conferma di ciò, vi è ad esempio l’allerta emesso lunedì dal governo inglese per mettere in guardia da possibili minacce terroristiche in Bahrain. La presa di posizione di Londra sposa la tesi del regime che, dopo aver accusato senza alcuna prova Teheran di alimentare la rivolta nel paese, ha attribuito gli scontri di questi giorni all’opera di terroristi ed estremisti. È superfluo ricordare che quest’ultima tesi è sostenuta, con più di una ragione, anche da Bashar al-Assad per spiegare i disordini in corso in Siria, ma è ovviamente del tutto respinta dall’Occidente.

Mentre regimi sgraditi come quello siriano, e ancor prima quello di Gheddafi in Libia, sono il bersaglio di un’incessante propaganda o di aggressioni militari per provocarne la caduta, altri vengono invece premiati per la fedeltà agli interessi dei loro sponsor, indifferentemente dalla loro natura sanguinaria e anti-democratica.

Nel caso del Bahrain, infatti, gli Stati Uniti in questi mesi hanno accolto a Washington con tutti gli onori del caso membri della famiglia reale, mentre proprio la settimana scorsa l’assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente, Jeffrey Feltman, è stato ospite della famiglia Khalifa a Manama. Oltretutto, mentre è in corso una durissima repressione contro il dissenso interno, il Bahrain, in quanto membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo assieme alle altre dittature della regione, sta giocando anche un ruolo fondamentale nella Lega Araba per aprire la strada ad un intervento militare che favorisca il cambio di regime in Siria. Il tutto, come sempre, per ragioni rigorosamente umanitarie.

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