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di Michele Paris
Il giudizio che i leader delle principali potenze occidentali sembrano avere del loro alleato israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahu, non appare molto differente da quello condiviso dalla gran parte dell’opinione pubblica mondiale. Questo è ciò che si è appreso da una conversazione privata tra Sarkozy e Obama, ascoltata accidentalmente da una manciata di giornalisti francesi accorsi a Cannes in occasione del G-20. A rendere di pubblico dominio lo scambio di battute che avrebbe dovuto rimanere riservato tra i presidenti di Francia e Stati Uniti è stato il sito web transalpino Arrêt sur Images.
Giovedì scorso i due leader, al termine di una conferenza stampa congiunta nella località della Costa Azzurra, si sono ritirati in una stanza per un breve faccia a faccia lontano dai microfoni. Sicuri di non essere ascoltati, Sarkozy e Obama hanno così iniziato a parlare liberamente della questione israelo-palestinese.
I loro microfoni, però, erano rimasti aperti per errore e una mezza dozzina di giornalisti francesi, che indossava ancora le cuffie per la traduzione simultanea delle parole appena pronunciate da Obama, ha potuto seguire l’interessante colloquio tra i due presidenti.
Per cominciare, l’inquilino della Casa Bianca ha rimproverato Sarkozy per il recente voto favorevole della Francia sull’ammissione della Palestina all’UNESCO senza aver prima avvertito Washington. Da questo argomento, i due hanno sono poi passati a discutere del premier israeliano Netanyahu. A proposito di quest’ultimo, Sarkozy avrebbe rivelato a Obama: “Non lo posso più sopportare. È un bugiardo”.
Allo sfogo del numero uno dell’Eliseo, il presidente americano, con una certa dose di comprensione, ha risposto: “Tu non ne puoi più di lui, ma io devo averci a che fare tutti i giorni!”. Successivamente, Obama ha chiesto a Sarkozy di provare a convincere l’Autorità Palestinese a rallentare il passo sulla questione della richiesta di entrare a far parte delle Nazioni Unite, a cui gli USA si oppongono fermamente.
Questi commenti dei due leader non sono stati subito riportati dalla stampa d’oltralpe, poiché pare che i giornalisti presenti - facendo appello ad un dubbio scrupolo di natura deontologica - si fossero accordati per tenerli segreti. La conversazione, secondo quanto scritto da Arrêt sur Images, sarebbe proseguita per circa tre minuti prima che gli organizzatori del G-20 si accorgessero del disguido tecnico.
Anche se è risaputo che i reali punti di vista dei politici raramente corrispondono a quanto sostengono pubblicamente, il malinteso che a Cannes ha coinvolto Barack Obama e Nicolas Sarkozy contribuisce a rivelare come entrambi siano ben consapevoli del ruolo destabilizzante per la pace in Medio Oriente del premier Netanyahu e del suo governo di estrema destra, nonostante Washington e Parigi continuino ad essere - per convinzione o necessità politica - strenui alleati di Israele.
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di Mario Braconi
Tutto inizia quando i genitori di Menachem Zivotofsky, un incolpevole ragazzino americano, hanno sentito una curiosa quanto irrinunciabile necessità: papà Zivotofsky, infatti, sul passaporto del figlio, alla voce “luogo di nascita” non ha ritenuto giusto che dovesse figurare semplicemente la città in cui è nato il figlio, ovvero Gerusalemme. Accanto al dato certo (la città natale di Menachem) ci dovrebbe infatti essere la politicamente urticante specifica “Israele”. Zivotofsky, per carità, è libero di ritenere che Gerusalemme sia Israele, e in effetti questo è quanto stabilisce la legge israeliana. Sfortunatamente, però, lo status di capitale non è riconosciuto internazionalmente, e men che meno dall’Autorità Palestinese, che anzi considera Gerusalemme la capitale del futuro stato palestinese - per il momento esistente solo davanti all’UNESCO.
Non è un caso se tutte le ambasciate estere presso Israele, a differenza dei consolati, hanno sede a Tel Aviv. Anche se la questione sollevata da Zivotofsky è chiaramente il capriccio di un fanatico convinto che un (impossibile) riconoscimento formalistico possa cancellare i drammi della lotta decennale tra due popoli, bisogna riconoscere che la sua provocazione è stata pianificata in modo accurato. E che essa, al di là della sua futilità sostanziale, ha portato alla luce un potenziale conflitto di poteri tra Congresso ed Esecutivo, e ha costretto i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti a (tentare di) dirimere la questione.
Il Dipartimento di Stato riconosce ai circa 50.000 americani nati a Gerusalemme la facoltà di specificare nel proprio passaporto il luogo di nascita come “Gerusalemme”, ma proibisce di specificare nei documenti anche “Israele”, perché la compresenza dei due nomi su un documento emesso da un’entità statale americana configurerebbe una fattispecie in cui gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come città israeliana. Ciò equivarrebbe alla rottura della “neutralità” americana in merito alla questione, uno dei capisaldi della sua politica estera in Medio Oriente. A complicare le cose c’è un documento approvato dal Congresso nel 2002, e che dunque è divenuto operativo in corrispondenza della data di nascita del piccolo Zivotofsky.
Nella “Policy Ufficiale riguardo a Gerusalemme Capitale d’Israele”, infatti, il Congresso richiese al Dipartimento di Stato di consentire a quanti ne facessero richiesta perché nati a Gerusalemme di poter scrivere “Gerusalemme, Israele”. Non solo: il documento sollecitava l’allora presidente George W. Bush a spostare la sede diplomatica statunitense da Tel Aviv alla Città Santa, quale “riconoscimento della sovranità israeliana di fatto su tutta la città”.
Bush firmò la legge, non essendo possibile bloccarla con un veto, specificando però in una nota datata 30 settembre 2002 che le disposizioni in essa contenute costituivano una limitazione indebita ai poteri concessi al Presidente dalla Costituzione: il Presidente non accetta il primato di una legge che “interferisce in modo inaccettabile con l’autorità del Presidente di condurre gli affari esteri e supervisionare il potere esecutivo in modo univoco […] La posizione degli Stati Uniti su Gerusalemme non è cambiata”.
Obama la pensa in modo molto simile: secondo l’attuale presidente, la politica estera è affare del Governo e il Congresso non ha il potere di alterare le decisioni del Presidente e del suo governo. Ma Zivotofsky ha citato l’attuale Segretario di Stato Hillary Clinton, chiedendole di assoggettarsi a quanto stabilito nella legge del 2002. I tribunali ordinari hanno rigettato la richiesta dell’appellante, in quanto a loro dire non titolati a entrare nel merito di questioni afferenti al potere esecutivo; inoltre il nodo appariva ai giudici ordinari più di tipo politico che giuridico.
Nella (comprensibile) inerzia del Segretario di Stato, che ovviamente non ha mai dato retta all’avvocato di Zivotofsky, è stata interpellata la Corte Suprema. Purtroppo, però, i giudici non hanno le idee chiare su come dirimere la questione, che in effetti, apre un importante interrogativo: chi ha veramente l’ultima parola sulle questioni estere, il potere legislativo o quello esecutivo?
Il giudice Donald Verrilli, sostenitore del primato dell’Esecutivo, ha citato il caso di George Washington, che, quando si trattò di riconoscere il governo rivoluzionario francese, prese la sua decisione consultandosi con i colleghi del governo, e non si curò nemmeno di mandare una nota per informare il Congresso. Sembra proprio che la questione israelo-palestinese non cessi di creare divisioni e conflitti, da una parte e dall’altra dell’Oceano. La magra consolazione è che, almeno nel caso Zivotofsky, si tratta di solo di una guerra di carte bollate.
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di Michele Paris
In attesa della pubblicazione ufficiale del rapporto sul programma nucleare iraniano da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), alcune indiscrezioni sui contenuti sono già apparse in questi giorni sulla stampa di mezzo mondo. Secondo i rapporti di intelligence pervenuti all’agenzia delle Nazioni Uniti con sede a Vienna, la Repubblica Islamica avrebbe ormai acquisito le capacità per costruire un ordigno nucleare, anche se non esiste prova che il governo di Teheran sia effettivamente incamminato su questa strada.
L’ottenimento dei vari componenti e del know-how necessari a creare in tempi relativamente brevi un’arma di questo genere è il risultato delle ricerche sul nucleare che l’Iran avrebbe portato avanti in questi ultimi anni. Questa tesi, se confermata, smentirebbe clamorosamente le precedenti conclusioni dell’intelligence americana, presentate nel 2007 dall’amministrazione Bush, nelle quali si sosteneva che l’Iran aveva abbandonato la ricerca sul nucleare a scopi militari nel 2003 in seguito alle pressioni della comunità internazionale.
Il rapporto dell’AIEA sarà reso noto in maniera ufficiale non prima di mercoledì, ma fonti anonime hanno già fornito alla stampa gran parte del suo contenuto. Le difficoltà che l’Iran ha incontrato nel condurre i propri test, spiegano diplomatici e funzionari a conoscenza dello studio, sarebbero state superate anche grazie all’assistenza di tecnici stranieri. In particolare, il rapporto cita Vyacheslav Danilenko, ex scienziato sovietico, reclutato negli anni Novanta da Teheran per sviluppare un complesso meccanismo necessario per giungere alla realizzazione di un’arma nucleare. Agli sforzi iraniani avrebbero contribuito anche i tecnici nordcoreani e il padre del nucleare pakistano, Abdul Qadeer Khan.
Uno degli indizi decisivi contenuti nell’atto d’accusa dell’AIEA contro l’Iran sarebbe l’attività di ricerca su armamenti nucleari condotta presso la base militare di Parchin. In passato, le autorità iraniane avevano ammesso di lavorare a procedimenti legati all’ambito militare a Parchin, anche se limitati però alle armi convenzionali. Un’affermazione quest’ultima confermata dagli stessi ispettori AIEA ammessi all’interno dell’impianto. Ora, tuttavia, la agenzie di intelligence occidentali sostengono che negli ultimi anni le cose sono cambiate drasticamente a Parchin.
Per gli Stati Uniti, l’imminente rapporto dell’AIEA conferma dunque la pericolosità dell’Iran, anche se i vertici di questo paese non avrebbero ancora preso la decisione definitiva di indirizzare verso la costruzione di armi atomiche gli sforzi fatti dalla ricerca. Come fa notare il New York Times, in ogni caso, il quadro è tutt’altro che completo e le restrizioni imposte da Teheran agli ispettori AIEA in questi anni – anche in seguito alle intimidazioni occidentali – rendono il vero stato del programma nucleare iraniano di difficile lettura.
Come previsto, la risposta dell’Iran al rapporto sono state molto dure. Il ministro degli Esteri ed ex negoziatore sul nucleare, Ali Akbar Salehi, ha affermato che “la controversia sul nostro programma nucleare è al cento per cento politica” e che l’AIEA “è sottoposta alle pressioni delle potenze straniere”. Secondo Salehi, l’Iran avrebbe già risposto all’agenzia con un proprio rapporto di 117 pagine, mentre le accuse rivolte al suo paese si basano su informazioni false, come già accaduto con la denuncia delle armi di distruzione di massa attribuite al regime di Saddam Hussein, sfruttata per lanciare l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Che i documenti in possesso dell’AIEA siano manipolati non è d’altra parte da escludere a priori, dal momento che fanno riferimento a rapporti di intelligence di Stati Uniti, Israele e altri paesi europei, i quali da tempo si adoperano più o meno apertamente per rovesciare il regime di Teheran. L’Iran, da parte sua, ha sempre sostenuto invece che il proprio programma nucleare è solo ad uso civile e in questo senso agisce in piena legittimità, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione.
Le anticipazioni dell’AIEA erano state precedute da una nuova escalation di minacce verso della Repubblica Islamica, provenienti soprattutto da USA e Israele. A far dubitare dell’imparzialità delle conclusioni dell’agenzia di Vienna era stato anche un recente viaggio a Washington del suo direttore, il filo-americano Yukia Amano, il quale aveva incontrato alla Casa Bianca alcuni esponenti del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. I leader iraniani avevano puntato il dito contro questa visita inopportuna che sarebbe servita, a loro dire, a coordinare gli attacchi verbali contro Teheran in vista appunto della pubblicazione del rapporto AIEA.
Le accuse e le pressioni americane sull’Iran sembrano volte a raccogliere sufficiente consenso nella comunità internazionale per imporre una nuova serie di sanzioni contro Teheran. Dal 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato quattro volte per applicare sanzioni contro l’Iran, l’ultima delle quali nel giugno 2010. Eventuali nuove misure andrebbero ora a toccare il cruciale settore del petrolio e del gas naturale. Anche per questo motivo, appare però molto difficile che Cina e Russia - le quali hanno forti interessi nel settore energetico iraniano - possano dare il proprio assenso a nuove sanzioni, limitando così l’iniziativa occidentale a sanzioni unilaterali. A conferma dell’opposizione di Mosca e Pechino ai piani di Washington, i due governi hanno rilasciato un insolito comunicato unitario in risposta al rapporto AIEA, nel quale si afferma che “Russia e Cina sono dell’idea che un simile documento serve soltanto a mettere in un angolo l’Iran”.
Se la strada delle sanzioni appare ufficialmente quella preferita dall’Occidente e da Israele, l’opzione militare è nuovamente tornata in primo piano nelle ultime settimane. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Yediot Aharonot il 28 ottobre scorso, il premier Netanyahu e il ministro della Difesa, Ehud Barak, avrebbero cercato in tutti i modi di persuadere il proprio gabinetto, così come i settori più riluttanti delle forze armate e dell’intelligence, della necessità di un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane.
In un’intervista alla BBC un paio di giorni fa, lo stesso Barak – esponente di spicco del governo di un paese che possiede centinaia di armi nucleari non dichiarate – ha ribadito di “non poter sottovalutare la natura della minaccia iraniana alla stabilità dell’intera regione”. Sempre domenica, da Israele è intervenuto anche il presidente Shimon Peres, presunta colomba nonché premio Nobel per la Pace, il quale al quotidiano Israel HaYom ha ammesso che “siamo sempre più vicini ad un attacco militare contro l’Iran piuttosto che a una soluzione diplomatica”.
Alla retorica si aggiungono alcune manovre militari di Israele che indicano la preparazione di un blitz militare. Settimana scorsa Tel Aviv ha infatti testato un missile balistico a lungo raggio con il potenziale di colpire il territorio iraniano. Inoltre, da una base NATO in Sardegna è andata in scena un’esercitazione con aerei da guerra israeliani per missioni a lungo raggio. Infine, nel week-end appena trascorso l’assistente al Segretario di Stato USA per gli affari militari, Andrew Shapiro, ha annunciato un’altra esercitazione congiunta dei due paesi per testare le capacità di Israele di far fronte ad un attacco missilistico simile a quello che scatenerebbe l’Iran in caso di aggressione.
Se la stampa ufficiale negli Stati Uniti continua a scrivere degli scrupoli della Casa Bianca e dei timori per un’azione unilaterale israeliana contro l’Iran, in realtà le vedute dei due alleati appaiono pressoché identiche. Non solo, anche le altre principali potenze occidentali sono pronte a prendere parte ad un eventuale attacco militare, come ha rivelato ad esempio un’inchiesta del Guardian la settimana scorsa a proposito dei piani bellici britannici in vista di un conflitto con Teheran.
In ultima analisi, a ben vedere, i timori occidentali e di Israele nei confronti dell’Iran poco o nulla hanno a che fare con la questione del nucleare. Per Tel Aviv gli effetti della Primavera Araba hanno prodotto effetti a di poco sgraditi, come il rovesciamento di regimi compiacenti - a cominciare da quello di Hosni Mubarak in Egitto - e l’esplosione di proteste e manifestazioni anti-governative senza precedenti all’interno dei propri confini. In una tradizione provocatoria ampiamente consolidata, un’aggressione militare contro l’Iran rappresenterebbe perciò un modo per distogliere l’attenzione dai problemi interni e per riguadagnare terreno sullo scacchiere mediorientale.
Per gli Stati Uniti, invece, il nuovo innalzamento dei toni nei confronti di Teheran coincide con l’ammissione del sostanziale fallimento delle missioni in Iraq (dove buona parte delle truppe abbandoneranno un paese sempre più sotto l’influenza iraniana entro la fine dell’anno) e in Afghanistan – dove il disimpegno USA è previsto per il 2014 – e la necessità di mantenere la propria supremazia in un’area cruciale del pianeta.
Ben consapevoli delle disastrose conseguenze che un nuovo conflitto in Medio Oriente scatenerebbe nella regione e non solo, i governi di Stati Uniti e Israele sono pronti nondimeno ad accettarne il rischio pur di difendere i propri interessi strategici. Il rapporto dell’AIEA sul programma nucleare di Teheran, in questo scenario, non è altro che una parte della propaganda orchestrata per convincere l’opinione pubblica dell’inevitabilità della soluzione militare per risolvere definitivamente il “problema” iraniano.
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di Fabrizio Casari
Il Comandante Daniel Ortega sarà ancora per cinque anni il presidente del Nicaragua. Con il 63% dei voti, infatti, il leader del Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional ha stravinto le elezioni celebratesi ieri. Obbedendo quindi ai pronostici elettorali e, soprattutto, agli interessi popolari, tre milioni e ottocentomila nicaraguensi, chiamati a scegliere il Presidente della Repubblica, i 90 deputati che formeranno il nuovo Parlamento nazionale e i venti deputati da inviare al Parlamento centroamericano, hanno deposto nelle urne elettorali un messaggio chiaro e forte, un concetto semplice quanto inequivocabile: il Nicaragua ha bisogno dei sandinisti.
L’opposizione, coerentemente con gli standard di decenza che la contraddistingue, non riconosce la vittoria dei sandinisti. La ragione è semplice: riconoscere la vittoria di Ortega, per le dimensioni che presenta, significa la rottamazione implicita della destra nicaraguense, mai nella storia così minoritaria nel paese. Gli Stati Uniti corrono in soccorso dei loro soci: si dicono preoccupati del voto in Nicaragua e ammiccano alle accuse della destra contro immaginifici “brogli”, che sono l’esito di liti nate in una decina di seggi organizzate proprio dai rappresentanti liberali, allo scopo di tentare di opacizzare quella che si sapeva sarebbe stata una vittoria schiacciante quanto cristallina.
In parte la lagnanza si deve al fatto che l’ambasciata Usa a Managua aveva preteso di poter svolgere un ruolo da “osservatore” nei seggi; la pretesa - assurda data l’impossibilità per rappresentanti di governi di svolgere il ruolo di osservatori al di fuori degli organismi internazionali deputati - era stata appunto respinta da Samuel Santos, il Ministro degli Esteri del Nicaragua, che ha definito la pretesa statunitense “ una intromissione negli affari interni del Nicaragua”.
Ma la preoccupazione statunitense non ha nulla a che vedere con la regolarità del voto che la stessa Unione Europea e l’Organizzazione degli Stati Americani hanno certificato, limitandosi a riferire di difficoltà incontrate in una ventina di seggi: né potrebbero avere qualche fondamento le presunte attenzioni di Washington per le regole democratiche, visti i precedenti nella regione, dove proprio gli Usa hanno ispirato e organizzato, diretto e coperto politicamente il colpo di Stato di Micheletti ai danni del legittimo Presidente Zelaya. Per inciso, il giubilo della destra nicaraguense per Micheletti ha raccontato bene le aspirazioni nascoste del blocco reazionario dell'intero emisfero. La preoccupazione degli Usa per il voto nicaraguense, però, è tutta politica, di fronte ad un altro quinquennio sandinista che rafforza il blocco democratico e progressista latino-americano e, più in particolare, l’unità tra Cuba, Nicaragua, Venezuela, Bolivia ed Ecuador che preoccupa non poco la Casa Bianca.
La dimensione schiacciante della vittoria di Daniel Ortega indica come il voto sia stato, prima ancora che una scelta ideologica, la certificazione di un gradimento generale per quanto prodotto da cinque anni di buon governo. Senza particolare furore ideologico, depennato in buona parte dalla nuova era del FSLN, il governo di Daniel Ortega ha ottenuto successi importanti nel panorama sociale ed economico del disastrato paese centroamericano, rimettendo la politica alla direzione del paese e i mercanti in veste subordinata alla politica.
Una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto mostrato dai governi liberali succedutisi per 16 anni con politiche furono dirette soprattutto alla distruzione delle riforme sociali ed economiche promosse dalla Rivoluzione nella decada sandinista. Lo spettacolo offerto dai governi di Violeta Chamorro (1990), Arnoldo Aleman (1996) ed Enrique Bolanos (2001) hanno avuto, infatti, un’identica linea la cui origine era l’obbedienza cieca al Washington consensus e la cui fine era quella di riportare indietro le lancette dell’evoluzione sociale del Paese.
Il sostegno internazionale di cui godettero fu immenso, così come i prestiti e le moratorie internazionali sui debiti contratti (quello con l’Italia, tra gli altri): al Nicaragua giunsero più dollari che all’insieme dei paesi centroamericani. Ma ciò, in luogo di favorire una crescita economica di un paese che usciva sfiancato dalla guerra, portò il Nicaragua allo stesso livello di indici economici di Haiti, il più povero dell’emisfero.
Un paese letteralmente sull’orlo dell’abisso, precipitato in tutti i suoi indicatori economici e sociali grazie alle politiche neoliberiste dell’oligarchia locale, che per diciassette anni tornò a svolgere il ruolo che ebbe durante la dittatura di Somoza: protettorato degli Usa, riserva naturale per le esigenze industriali del gigante del nord che, a sua volta, premiava con denaro e prebende i suoi funzionari locali travestiti da leader politici. Il prezzo lo pagava la popolazione che, in un paese il cui reddito procapite del 78% della popolazione era di due dollari al giorno, doveva pagarsi istruzione e salute.
Nel 2006, con il ritorno di Daniel e del FSLN al governo, è iniziato il processo di recupero dell’economia nazionale con il ribaltamento delle linee-guida nell’indirizzo dei flussi di spesa. Daniel ereditò un paese dove erano ricomparse malattie endemiche, analfabetismo, disoccupazione (sfiorava il 54% della popolazione lavorativa), dove l’indice di nutrizione arrivava a sfiorare il record di Haiti e dove la somministrazione di energia elettrica era a capriccio della multinazionale proprietaria degli impianti.
Cinque anni dopo la vittoria dei sandinisti, la maggioranza dei nicaraguensi vivono decisamente meglio: oggi l'istruzione e la salute sono completamente gratuite; l'analfabetismo si é ridotto dal 32 al 4%; gli investimenti sono raddoppiati e i salari decuplicati; ottantamila contadine sono diventate produttrici di carne e latte e 217.000 donne hanno ricevuto crediti senza interessi, così come 481.000 produttori agricoli hanno ottenuto crediti agevolati. 152.000 impiegati pubblici ricevono 35 dollari di buoni-pasto in aggiunta al salario e lo Stato ha steso una rete di commercio al dettaglio dove acquistare prodotti a prezzi controllati. Questi i risultati di cinque anni di governo sandinista e la ragione della vittoria elettorale.
In sostanza, Daniel Ortega ha saputo dare forma a quanto dall’opposizione proponeva, mettendo fine alla precarietà energetica e integrando nel suo programma di governo le rivendicazioni dei settori popolari, come la redistribuzione della terra, l’ampliamento del welfare attraverso il programma “fame zero” (mutuato dal brasiliano Lula) la salute e l’istruzione gratuite, riuscendo - attraverso progetti sociali il cui obiettivo è stato la ridistribuzione della ricchezza, pur nel quadro delle possibilità offerte dal recupero economico - a far salire i gradini della scala sociale ai più svantaggiati, offrendo così rappresentazione politica alle vittime di diciassette anni di turbo capitalismo in un paese che, a malapena, avrebbe sopportato un capitalismo light. Una ricetta semplice quella del Comandante-Presidente: includere gli esclusi, limitare lo strapotere dei poderosi.
Una Nicaragua diversa, che ha scommesso sull’integrazione latinoamericana in chiave progressista e che, nel contempo, ha saputo offrire garanzie agli investitori e agli organismi finanziari internazionali che, seppure a condizioni molto diverse da quelle vigenti con i governi precedenti neoliberisti, hanno potuto contribuire efficacemente al finanziamento della nuova economia nicaraguense.
L’opposizione, arricchitasi di qualche decimale in virtù dei traditori dell’antico FSLN, passati armi e bagagli con i nemici storici contro i quali pur avevano combattuto, è arrivata al voto divisa, argomentando solo l’ineleggibilità di Ortega al terzo mandato ma senza nessuna proposta che non fosse la riproposizione degli interessi storici e famelici delle famiglie latifondiste che compongono la burguesia compradora nicaraguense.
Questa generale percezione del suo livello politico e la memoria storica recente hanno quindi determinato il risultato di liberali e soci: quattro partiti variamente denominati che, insieme, non hanno raggiunto il 31% dei voti. Inoltre, la composizione del prossimo Parlamento non favorirà certo il suo rafforzamento politico: se i dati verranno confermati, la destra avrà a disposizione circa 27 deputati contro i 58 sandinisti. Il governo Ortega, godendo della maggioranza assoluta nell’Asamblea Nacional, avrà quindi il cammino spianato per proseguire con l’opera di riassetto equilibrato del paese.
D’altra parte, l’alta voracità con la quale l’opposizione di questi anni si è sempre caratterizzata, non consentiva la ricerca di un candidato unitario antisandinista; ma il risultato complessivo ottenuto indica più e meglio di qualunque analisi cosa i nicaraguensi pensino della combriccola. Mentre il 63% dei voti a favore di Daniel indica come il Frente Sandinista e il Nicaragua siano ancora, trentadue anni dopo l’entrata liberatrice a Managua, cuore e gambe dello stesso corpo. La vittoria di Daniel Ortega riafferma che la ricostruzione del paese andrà avanti. Il Nicaragua celebra ora la sua festa, alla quale tutti gli umili sono invitati. E’ di rigore l’abito rosso e nero.
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di Eugenio Roscini Vitali
Nei prossimi mesi Israele darà il via alla produzione di 60 velivoli senza pilota a controllo remoto (UAV) in Azerbaigian; l'accordo, annunciato l'estate scorsa, rientra in un piano di cooperazione economico-militare nel quale potrebbe anche rientrare la fornitura di uno dei satelliti spia progettati e costruiti dalla Israel Aerospace Industries (IAI ). La partnership prevede la realizzazione di due tipi di droni, gli Orbiter 2M e gli Aerostar; il 30% dei componenti dell'intero stock verrà prodotto dall'industria azera e gran parte dell'assemblaggio dovrebbe essere fatto nel Paese caucasico. Dopo 16 votazioni e un lungo braccio di ferro con la Slovenia, il 24 ottobre scorso l'Azerbaigian è diventato il quinto membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu per il biennio 2012-2013.
Lo Stato ebraico ha riconosciuto l'indipendenza dell'Azerbaigian il 25 dicembre 1991 e intrattiene rapporti diplomatici con Baku dal 7 aprile 1992, dagli anni della sanguinosa Guerra per il Nagorno-Karabakh. Sul fronte della lotta al terrorismo e della difesa i due paesi cooperano in numerosi progetti: l'ex repubblica sovietica ha sempre mostrato grande interesse nei riguardi delle tecnologie militari legata al settore intelligence e dall'ottobre 2001 il Mossad collabora con i servizi segreti azeri contro le organizzazioni dell'estremismo islamico presenti nella regione, primo fra tutti il gruppo radicale Hizb ut-Tahrir, setta diventata partito combattente semiclandestino che identifica Israele come "un'entità illegale da cancellare". Nel campo aerospaziale l'israeliana Elta Systems Ltd, azienda della difesa impegnata nel settore dell'elettronica, si affida all'industria azera per la costruzione di alcune componenti del satellitare TecSAR, sistema di ricognizione ad alta risoluzione dotato di un radar ad apertura sintetica e in grado di fotografare in ogni condizione meteorologica oggetti grandi fino a 10 centimetri.
Iniziate nei primi anni Novanta, le relazioni tra Israele e Azerbaigian si sono rafforzate nell'agosto del 1997, con la visita a Baku del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. In ambito militare la collaborazione industriale ha dato vita ad un vero e proprio sodalizio che ha permesso l'ammodernamento dei mezzi e degli armamenti in dotazione all'esercito e all'aviazione azera; un'apertura che ha indotto alcune aziende israeliane a spostare parte della produzioni in Azerbaigian, con l'Aeronautics Defense Systems Ltd (Nets - Integrated Avionics Systems) che nel 2009 ha aperto nei pressi di Baku un'industria dedicata alla produzioni di sistemi per la difesa e componenti per droni.
Nel giugno dello stesso anno il ministero della Difesa dell'Azerbaigian ha inoltre negoziato con Israele la produzione di un velivolo corazzato per il trasporto truppe (Apc), il Namer, sviluppato dalla General Dinamys sullo scafo del carro armato Merkava Mark IV e dotato di sistemi di navigazione avanzati capaci di operare anche in presenza di dispositivi in grado di disturbare (jamming) i ricevitori satellitari GPS.
Sono anni che Russia, Armenia e Iran guardano con diffidenza al rapporto di collaborazione che lega Tel Aviv e Baku e per Mosca e Teheran la partnership militare per la co-produzione di droni sta diventando un vero problema. I 60 Orbiter 2M e Aerostar dovrebbero essere pronti per la fine dell’anno e una parte sarebbe destinata all’aviazione del Paese caucasico. L’Orbiter 2M è un velivolo di piccole dimensioni prodotto negli stabilimenti della Azad System, con 5 ore di autonomia a circa 5.000 metri di altitudine; Aerostar è un UAV tattico con capacità offensiva e 12 ore di autonomia a 10.000 metri di una quota operativa.
Il mese scorso il ministro dell'Industria per la Difesa azera, Yavar Jamalov, ha inoltre parlato dell'avvenuta acquisizione di 10 Hermes 450, droni prodotti dall'azienda israeliana Ebit System con oltre 20 ore di autonomia e una quota di servizio di 5.000 metri, dotati del radar GabbianoT20 sviluppato dall'italiana Selex Galileo (Finmeccanica) e di 2 serbatoi esterni che possono essere sostituiti da altrettanti missili aria-terra Hellfire o Spike.
La partnership tra l’Azerbaigian e Israele non è vista di buon occhio neanche da Ankara, alleato naturale del Paese caucasico. Recentemente il sottosegretario turco alle Industrie per la Difesa, Murat Bayar, ha cercato di persuadere le autorità azere a non continuare ogni forma di collaborazione con lo Stato ebraico; in cambio avrebbe proposto la costruzione di una fabbrica in Azerbaigian e la fornitura dei droni ANKA, velivoli prodotti dalla Turkish Aerospace Industries (TAI) che lamentano però una scarsa esperienza operativa e non sono ancora in grado di competere con quelli israeliani.
L’alleanza tra Tel Aviva e Baku preoccupa anche le autorità della Repubblica del Nagorno Karabach, la regione contesa tra Armenia e Azerbaigian e teatro di una sanguinosa guerra che tra il 1991 e il 1994 ha causato più di 30 mila morti e circa un milione di profughi. Il 12 settembre scorso un drone di fabbricazione israeliana in forza all'aeronautica azera è precipitato sul distretto di Martuni; a Stepanakert giurano che ad abbattere il velivolo sia stata la contraerea dell’enclave armeno, ma non è improbabile che a colpire il velivolo sia stata un’unità della difesa aerea russa rischierata ad ovest del lago Sevan.
Grazie alle stazioni radar installate sulle coste azere del Mar Caspio e all’utilizzo degli UAV a lungo raggio - sul piatto ci sarebbe anche l’acquisizione di basi per il rischieramento dei più potenti Hermes 900 - Israele sarebbe ora in grado di sorvegliare in modo costante gran parte dell’Iran settentrionale, una presenza che Teheran cercherà di contrastare con i rivelatori Avtobaza ELINT (Electronic Signals Intelligence System), apparati mobili di produzione russa utilizzati per il radar jamming e l’identificazione di attacchi aria-terra. Con un raggio di 150 chilometri e una capacità d’identificazione contemporanea di 60 target, l’Avtobaza fa parte di un sistemi di difesa aerea più ampio che la Russia potrebbe consegnare entro breve tempo e che andrà a coprire l’area del Golfo Persico e la zone dell’Iran settentrionale che si affaccia sul Mar Caspio.
Il Cremlino assicura che gli armamenti venduti alla Repubblica islamica sono di tipo difensivo e che la Russia non sta violando l’embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Riferendosi alla Avtobaza, un capo dipartimento del Ministero della Difesa russo, Konstantin Biryulin, ha dichiarato che non si sta parlando di caccia, sottomarini o dei missili S-300 PMU1, per i quali ha già revocato la fornitura, ma della sicurezza di uno Stato sovrano. L’affermazione di Biryulin sembra comunque un messaggio rivolto a chi avesse l’intenzione di lanciare contro l’Iran o la Siria operazioni simili a quella che in Libia ha rovesciato il regime del Colonnello Muammar Gheddafi.