di Michele Paris

Le elezioni speciali andate in scena domenica scorsa in Myanmar per l’assegnazione di alcune decine di seggi parlamentari, secondo i dati non ufficiali hanno premiato largamente la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) di Aung San Suu Kyi. La stessa icona della lotta democratica nella ex Birmania avrà la possibilità di entrare nella Camera bassa dell’Assemblea legislativa a fianco dei rappresentanti di una giunta militare contro cui, fino a pochi mesi fa, ha combattuto strenuamente e che l’ha privata della libertà per la maggior parte degli ultimi due decenni.

Anche se per i risultati definitivi sarà necessario attendere ancora qualche giorno, già poco dopo la chiusura delle urne la stessa LND aveva annunciato il successo in almeno 43 dei 44 seggi per i quali aveva presentato propri candidati. Lunedì, poi, anche i media del regime hanno confermato sostanzialmente questi dati, assegnando 40 seggi all’LND, mentre negli altri cinque i risultati sarebbero ancora incerti.

Nelle elezioni suppletive di domenica erano in palio 45 seggi, vale a dire circa il 7% dei 664 totali che compongono i due rami del parlamento birmano. I candidati della Lega Nazionale per la Democrazia avrebbero prevalso anche in quattro distretti della capitale, Naypyidaw, dove vivono soprattutto militari e impiegati ministeriali. Aung San Suu Kyi ha trionfato invece nel distretto rurale di Kawhmu a sud della città principale, Yangon, e per lei ora si parla addirittura di un possibile incarico ministeriale.

Per la prima volta dal 1990, quando l’LND vinse a valanga le elezioni ma i militari impedirono a San Suu Kyi di formare un governo, in questi giorni migliaia di persone sono scese nelle strade per festeggiare l’esito di un voto, mostrando a tutto il mondo il fortissimo desiderio di cambiamento diffuso nel paese dopo cinque decenni di dittatura.

Il voto è stato seguito dai commenti positivi dei governi occidentali. Una nota ufficiale della Casa Bianca, ad esempio, ha definito la tornata elettorale “un passo importante nella trasformazione democratica della Birmania”. La numero uno della diplomazia europea, Catherine Ashton si è a sua volta congratulata con il governo e il popolo del Myanmar per le modalità con cui si sono svolte le elezioni.

Alla vigilia del voto, San Suu Kyi e i portavoce del suo partito avevano denunciato intimidazioni ai danni dei loro sostenitori, mentre domenica sono stati segnalate alcune decine di brogli. Queste pratiche, tuttavia, risultano insignificanti per gli standard del Myanmar e non sono state coordinate con i vertici del regime, poiché è stato proprio quest’ultimo a volere l’ingresso del premio Nobel per la Pace birmano e dell’LND nella vita politica del paese in risposta alle richieste dell’Occidente per aprire un percorso di riconciliazione. Per la prima volta, così, il voto è stato monitorato da varie delegazioni di osservatori stranieri, tra cui quelle inviate dall’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale), dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.

Secondo la tesi sostenuta dai principali media occidentali, il voto di tre giorni fa in Myanmar e la partecipazione dell’LND sono solo le più recenti di una serie di riforme intraprese dal regime per allentare il controllo totalitario sulla vita politica e l’economia del paese. Il processo di transizione era iniziato con le elezioni farsa del 2010 - boicottate dall’LND che fu perciò costretta a sciogliersi - in seguito alle quali la giunta militare ha ceduto il potere ad un governo nominalmente civile.

Sotto la guida del nuovo presidente, nonché ex primo ministro, generale Thein Sein, sono stati poi liberati centinaia di prigionieri politici, eliminate alcune restrizioni alla libertà di stampa e, soprattutto, adottate misure per aprire il paese del sud-est asiatico alla penetrazione del capitale estero. Come ha ricordato il Wall Street Journal, solo pochi giorni fa il governo birmano si era mosso per liberalizzare il cambio della valuta nazionale (kyat), in precedenza tenuta ad un livello artificialmente alto. Il provvedimento contribuirà ad attrarre maggiori investimenti esteri da compagnie impazienti di fare affari in un paese autoritario dove sarà disponibile una vasta manodopera a basso costo.

Le cosiddette riforme democratiche in corso in Myanmar, a ben vedere, rispondono piuttosto ad un disegno del regime per svincolarsi dalla dipendenza pressoché esclusiva dalla Cina, soprattutto in ambito economico, riequilibrando la propria politica estera grazie ad un certo riavvicinamento all’Occidente.

La Cina, oltre ad avere preso frequentemente le parti della giunta militare in ambito internazionale, ha investito massicciamente in progetti di sviluppo nella ex Birmania, così da assicurarsi un rapporto privilegiato con un paese che dispone di importanti risorse naturali e che, soprattutto, è situato in una posizione strategica per gli interessi di Pechino. Affacciato sull’Oceano Indiano, il Myanmar costituisce infatti un punto di transito fondamentale per le importazioni energetiche cinesi dal Medio Oriente, consentendo di evitare la rotta obbligata che passa attraverso lo Stretto di Malacca, potenzialmente a rischio di blocco da parte dei militari statunitensi di stanza nell’area in caso di crisi.

La possibilità di limitare l’espansione dell’influenza cinese nella regione, assieme alla prospettiva di aprire un nuovo mercato per il proprio business, ha convinto l’Occidente a raccogliere i segnali di disponibilità provenienti dal Myanmar. Prima di aprire un qualche dialogo era però necessario ottenere qualcosa in cambio per convincere l’opinione pubblica internazionale della serietà del processo di trasformazione democratica intrapreso dal regime.

In quest’ottica è stata fondamentale la riabilitazione di Aung San Suu Kyi la quale, rappresentando quei settori filo-occidentali della borghesia birmana emarginati dal regime militare e desiderosi di beneficiare dell’apertura del paese agli investimenti esteri, si è dimostrata pronta a raccogliere l’invito del nuovo governo e a partecipare alla competizione elettorale di domenica scorsa.

Dopo le prime “riforme” di questi mesi, il dibattito in Occidente sul Myanmar si sposterà con ogni probabilità nelle prossime settimana sull’opportunità di eliminare le sanzioni economiche e commerciali che vari paesi (USA, UE, Australia e Canada) hanno applicato negli anni scorsi a causa delle regolari violazioni dei diritti umani da parte della giunta militare.

L’Unione Europea, secondo fonti citate lunedì dal Wall Street Journal, dovrebbe discutere delle sanzioni in un meeting in programma il 23 aprile. All’ordine del giorno potrebbe esserci la soppressione di alcune limitazioni minori agli scambi commerciali con il Myanmar, mentre ancora lontana rimane la cancellazione di tutte le sanzioni, così come dell’embargo sulla vendita di armi.

Il risultato del voto di domenica, secondo alcuni commentatori, avrebbe generato un certo panico tra i vertici del regime in vista del voto per il rinnovo dell’intero Parlamento nel 2015. In realtà, il regime è ben consapevole del malcontento che pervade la popolazione e si aspettava un voto molto positivo per il partito di Aung San Suu Kyi. Le divisioni all’interno dell’élite di potere circa la direzione intrapresa dal governo, in ogni caso, è probabile che esistano, anche se sembrano riguardare più che altro l’opportunità di sganciarsi da una Cina che continuerà comunque ad avere un ruolo di spicco nella vita del paese per scommettere sul riavvicinamento agli Stati Uniti e ai loro alleati.

Un dilemma simile travaglia d’altra parte le classi dirigenti di quasi tutti i paesi del sud-est asiatico, i quali si trovano a fare i conti con una dipendenza economica sempre più marcata con Pechino e le pressioni o i legami politici e militari tradizionalmente coltivati con Washington in un frangente storico che vede il ritorno prepotente degli USA in Estremo Oriente in funzione anti-cinese.

Per quanto riguarda il Myanmar, infine, nonostante sia innegabile una certa apertura del paese, i cambiamenti di questi mesi sono in gran parte di facciata. Il partito politico espressione della ex giunta militare (Partito Unione Solidarietà e Sviluppo, USDP), infatti, detiene tuttora il monopolio del potere, così che il ruolo dell’LND di San Suu Kyi sarà tutt’al più quello di mediare tra il regime e l’Occidente. Repressione e violazioni dei diritti umani continuano inoltre ad essere documentate quotidianamente, soprattutto nelle regioni settentrionali popolate da inquiete minoranze etniche che da decenni si battono contro il governo centrale.

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