di Michele Paris

Le elezioni presidenziali tenutesi sabato scorso sull’isola di Taiwan hanno assegnato la vittoria al candidato dei nazionalisti del Kuomintang (KMT), Ma Ying-jeou. Il presidente in carica si è imposto con un margine superiore a quello previsto alla vigilia sulla rivale del Partito Democratico Progressista (DPP), Tsai Ing-wen. L’esito del voto ha fatto trarre un sospiro di sollievo a Pechino e a Washington, da dove più o meno apertamente si auspicava una conferma di Ma e della sua politica di distensione nei confronti della Cina, così da evitare l’apertura di un nuovo fronte nella contesa sempre più aspra tra le due superpotenze nel continente asiatico.

Quello che si annunciava come un “testa a testa” tra i due principali candidati alla guida del paese si è risolto dunque in un successo piuttosto agevole di Ma Ying-jeou, il quale ha raccolto il 51,6% dei consensi, vale a dire circa 800 mila voti in più rispetto alla leader dell’opposizione, fermatasi al 45,6%. Un terzo candidato di centro-destra, James Soong, ha ricevuto appena il 2,8% dei suffragi, senza riuscire ad attrarre una parte consistente del voto conservatore deluso dal presidente uscente.

Nonostante la vittoria, Ma Ying-jeou ha visto un sensibile calo dei consensi rispetto al 2008, quando ottenne il 58,5% dopo i due mandati del presidente DPP, Chen Shui-bian, caratterizzati da crescenti tensioni con Pechino. Oltre alle presidenziali, sabato scorso a Taiwan si è votato anche per il rinnovo del Parlamento, con il KMT che ha conquistato 64 seggi su 113, perdendo la supermaggioranza dei due terzi di cui disponeva.

I rapporti con la Cina sono stati al centro della campagna elettorale taiwanese. Tsai Ing-wen aveva puntato su un appello populista che faceva leva sulle crescenti disparità economiche nel paese e sulla perdita di posti di lavoro causata dalla delocalizzazione di molte aziende locali verso la Cina grazie alla politica perseguita da Ma. Favorevole all’indipendenza totale dalla madrepatria, il DPP aveva promesso di rivedere il cosiddetto “Consenso 1992”, l’accordo che il Partito Comunista Cinese e il KMT avevano raggiunto in quell’anno e con il quale accettavano il principio di una sola Cina. Per entrambi, cioè, Taiwan è parte integrante della Cina, della quale però entrambi continuano a considerarsi il governo legittimo.

Con questa peculiare soluzione, Taipei e Pechino hanno costruito stretti legami economici, a partire soprattutto dall’ascesa al potere di Ma nel 2008. Allo stesso tempo, Taiwan ha potuto così mantenere la propria autonomia politica dalla Cina, grazie ad un equilibrio che rischiava di essere messo a repentaglio da un’eventuale successo elettorale di Tsai Ing-wen. A prevalere tra gli elettori sembrano essere stati perciò i timori di un possibile nuovo deterioramento dei rapporti con Pechino con un governo DPP. Pechino da parte sua, continua a considerare l’isola una provincia ribelle e minaccia di scatenare una guerra nel caso Taipei dovesse dichiarare la propria indipendenza.

Dopo la rivoluzione cinese del 1949, il Kuomintang sconfitto fuggì a Taiwan, dove mantenne significativamente la denominazione “Repubblica di Cina”. Da allora, il regime del KMT ha avuto il pieno appoggio degli Stati Uniti, i quali anzi fino al 1972 lo riconoscevano come l’unico governo legittimo di tutta la Cina. Il riavvicinamento al governo comunista portò però al riconoscimento da parte di Washington della sovranità di Pechino su tutta la Cina, compresa Taiwan, anche se il sostegno economico e militare a Taipei prosegue tuttora. Il DPP, bandito fino agli anni Ottanta, è diventato il principale partito di opposizione nel 1987, quando a Taiwan venne revocata la legge marziale ed ebbe inizio il percorso verso un sistema multipartitico.

Oggi la Cina è diventata ormai il principale partner commerciale di Taiwan. Nel 2010 il governo guidato da Ma ha siglato un importante accordo di cooperazione economica con Pechino che ha fatto lievitare gli scambi commerciali e gli investimenti tra i due paesi. Nel 2008, invece, erano stati inaugurati i primi collegamenti diretti, favorendo in particolare il flusso turistico verso Taiwan dove milioni di visitatori cinesi contribuiscono annualmente con circa 3 miliardi di dollari alla crescita economica dell’isola.

La politica di Ma ha trovato il consenso delle grandi aziende di Taiwan, agevolate dalla disponibilità di manodopera a basso costo in Cina, dove hanno avuto accesso negli ultimi anni. Per questo, nelle settimane precedenti il voto, i vertici di queste compagnie attive nella madrepatria avevano incoraggiato i loro dipendenti taiwanesi a recarsi sull’isola per votare a favore del Kuomintang. Secondo i resoconti dei media, circa 200 mila taiwanesi residenti in Cina hanno partecipato alle elezioni di sabato scorso e le spese per il viaggio di molti di essi sarebbero state pagate interamente dalle loro aziende.

La sconfitta del Partito Democratico Progressista è dovuta in parte anche al venir meno del sostegno della sua tradizionale base elettorale, rappresentata dai proprietari agricoli e dalle piccole aziende. Entrambi i settori hanno infatti beneficiato dell’accordo di cooperazione economica del 2010 che ha abbattuto le tariffe doganali di centinaia di prodotti destinati alla Cina, dando un grande impulso alle esportazioni taiwanesi. Gli scambi commerciali con Pechino nel 2011 hanno fatto registrare un saldo positivo per Taiwan pari a 78,8 miliardi di dollari, mentre si stima che senza il suddetto accordo di cooperazione il disavanzo per Taipei sarebbe stato di circa 10 miliardi.

Ma Ying-jeou ha inoltre capitalizzato l’appoggio di Washington per il Kuomintang. Nonostante l’amministrazione Obama fin dal 2009 abbia intrapreso una politica aggressiva nei confronti della Cina, l’atteggiamento americano su Taiwan rimane estremamente cauto. Pechino attribuisce d’altra parte un interesse vitale alla questione dell’isola, sulla quale tiene puntati più di mille missili balistici. Gli Stati Uniti, da parte loro, sarebbero obbligati ad intervenire in difesa di Taiwan in caso di aggressione militare.

Vista la delicatezza della situazione, non è sorprendente che la visita della candidata alla presidenza per il DPP a Washington lo scorso settembre non abbia convinto la Casa Bianca che una sua eventuale vittoria avrebbe garantito la stessa stabilità nei rapporti con Pechino che ha contraddistinto il primo mandato di Ma Ying-jeou.

Il risultato elettorale, in ogni caso, conferma la diffidenza e i dubbi che rimangono tra l’elettorato di Taiwan nei confronti della Cina e che peseranno sulla politica del presidente nei prossimi quattro anni. Le difficoltà che attendono il KMT derivano anche dalle crescenti tensioni sociali nel paese, dove a beneficiare della crescita economica innescata dalla partnership con Pechino sono state soprattutto le aziende private e i grandi interessi economici, a scapito di lavoratori e classe media. A conferma di un certo malcontento, l’affluenza alle urne è stata la più bassa tra le cinque elezioni presidenziali tenute nella storia di Taiwan (74%).

I prossimi passi nel riavvicinamento tra i due paesi promesso dal presidente rischiano di scontrarsi con una certa opposizione anche in Cina. Le aziende pubbliche cinesi si oppongono infatti alla cancellazione dei dazi doganali per le importazioni da Taiwan, così come le compagnie finanziarie sembrano temere la concorrenza delle banche dell’isola. Ma, infine, dovrà fare i conti a breve con la nuova leadership che si installerà a Pechino durante il 2012 e i cui orientamenti saranno tutti da verificare.

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