di Rosa Ana De Santis

Continua la caccia al visionario Joseph Kony, anche con l’appoggio degli Stati Uniti. La cattura del capo della guerra intestina che flagella il paese da troppi anni, in modo particolare le zone del Nord e il distretto di Gulu, potrebbe però non rappresentare la fine del conflitto e la pacificazione del paese. Tutti coloro che, anche bambini, sono stati catturati e obbligati a far parte della milizia santa LRA, sono ormai considerati nemici dal resto della popolazione e vivono in uno stato di isolamento e discriminazione.

Tantissimi i combattenti e i cani sciolti che, anche una volta catturato il capo massimo, proseguirebbero, sotto l’egida simbolica dell’esercito ribelle, razzie e saccheggi, mantenendo il potere del terrore nel paese.

Solo per 13 mila ex-sequestrati dall’Lra a cui è stata garantita l’amnistia, gli altri si arrangiano. Gli uomini lavorano come autisti o agricoltori di sussistenza, le donne vendono alcolici o fanno le domestiche. Numerose le testimonianze di ragazzi e ragazze che, rapiti per anni dalle truppe di Kony, costretti a razziare e combattere e le donne a prostituirsi, una volta liberati o fuggiti hanno faticato a reintegrarsi, ma non solo per gli aspetti traumatici, anche per la difficoltà di reinserirsi nella società. La voce di questi protagonisti invita a una sorta di amnistia generale anche per Kony e i suoi fedelissimi.

Il governo ugandese ha previsto l’amnistia a condizione della resa e una sola volta, pertanto quanti sono ritornati nell’esercito santo hanno perduto questa possibilità. C’è da dire però che molti di quanti all’apparenza sono tornati nell’LRA, sono stati spesso cooptati se non rapiti. E’ previsto inoltre che, in casi speciali, il Ministro degli Affari Esteri possa negare l’amnistia.

Sembra piuttosto plausibile che questo sarà il caso giuridico che riguarderà Kony e chi come lui ha condotto le azioni più sanguinarie e ha ordito tutti i piani di distruzione intestina del paese e della sua gente dal lontano 1985, da quando è iniziata la contrapposizione al governo del Presidente monarca Yoweri Museveni per il riscatto della marginalizzazione del nord Uganda sull’ispirazione millenaristica dei dieci comandamenti.

L’atteggiamento delle vittime sacrificate da Kony ricorda molto, nell’atteggiamento e nella sostanza, quanto accaduto in Sudafrica alla fine del massacro dell’apartheid. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione consentì a molti afrikaners colpevoli di ottenere l’amnistia; per condurre il paese ad una rinascita democratica nella nonviolenza si procedette - almeno è questa l’immagine che è rimasta al mondo - con un eccessivo tasso di clemenza e indulgenza.

Il tribunale fu non solo il momento della legge e della pena, ma anche quello delle confessioni e delle testimonianze. L’Uganda, nelle sue pagine dolorose ma molto diverse da quelle del segregazionismo sudafricano, sembra volersi avviare allo stesso epilogo per volontà delle stesse vittime.

Una normalizzazione, un portato culturale del forte cristianesimo di confessione anglicana e di altre chiese protestanti diffuse a tappeto nei luoghi più remoti dell’Uganda, una pietà troppo grande per chi si aspetterebbe giustizia e un modo troppo debole per dare un nuovo corso di storia al paese. O semplicemente un atteggiamento verso la vita e il male che affonda in radici troppo lontane da noi.

Chi negozia la propria dignità a partire da oggi e domani, tratta il passato come una morte perché del resto è solo perduto. Forse questo è l’unico modo che un continente ridotto in schiavitù ha di sopravvivere al proprio passato e, nello stesso tempo, l’unico per non riscattarsi mai abbastanza.

 

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