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di Michele Paris
Mentre i “ribelli” libici settimana scorsa facevano il loro ingresso a Tripoli grazie ai massicci bombardamenti NATO contro le forze fedeli a Muammar Gheddafi, una nuova serie di documenti riservati veniva pubblicata da Wikileaks, molti dei quali riguardanti proprio i rapporti tra gli Stati Uniti e il regime del rais. Un rapporto quello tra Washington e Tripoli fondato fino a pochi mesi fa su una stretta collaborazione tra i rispettivi governi, nonostante i dubbi di fondo mai completamente dissipati circa l’affidabilità del colonnello.
Tra i più accesi sostenitori dell’aggressione contro la Libia negli Stati Uniti spicca il senatore dell’Arizona John McCain, già sfidante repubblicano di Barack Obama durante le presidenziali del 2008. Il veterano della guerra in Vietnam, nel corso di varie interviste ai media d’oltreoceano in questi mesi, ha descritto Gheddafi come “uno dei più sanguinari dittatori sulla terra”, mentre ha più volte criticato l’amministrazione Obama per non essere intervenuta in maniera ancora più aggressiva, così da rovesciare rapidamente il regime libico.
Lo stesso McCain, in realtà, poco più di due anni fa sedeva in una tenda a Tripoli discutendo della partnership tra USA e Libia con lo stesso Gheddafi e il figlio Muatassim, promettendo di adoperarsi per far giungere all’allora alleato nordafricano gli armamenti desiderati.
Il suddetto incontro ad alto livello nella capitale libica - andato in scena il 14 agosto 2009 - è descritto in un cablo confidenziale redatto dall’ambasciata americana a Tripoli cinque giorni più tardi. Oltre a John McCain, facevano parte della trasferta in Libia, tra gli altri, anche i senatori repubblicani Lindsey Graham (Sud Carolina) e Susan Collins (Maine) e l’indipendente ex democratico Joe Lieberman (Connecticut).
In un’atmosfera estremamente cordiale, McCain ribadiva l’eccellente stato delle relazioni tra i due paesi, sottolineando il “drastico cambiamento nei rapporti avvenuto negli ultimi cinque anni”. Da parte sua, il senatore Lieberman elogiava il mantenimento della promessa fatta da Gheddafi di abbandonare il programma per la produzione di armi di distruzione di massa e di rinunciare all’appoggio al terrorismo internazionale. Lo stesso candidato alla vice-presidenza USA nel 2000 descriveva la Libia come un importante alleato nella lotta al terrore, affermando che i “nemici comuni rendono un’amicizia più solida”.
I “nemici comuni” di cui parlava Lieberman altro non sono che i gruppi integralisti islamici tenuti a bada dal regime di Gheddafi e i cui affiliati fanno parte oggi delle forze “ribelli” sostenute dall’Occidente. La presenza nel governo di transizione di militanti libici è testimoniata dalla riluttanza di alcuni paesi a riconoscerlo come rappresentante legittimo della Libia, come ad esempio l’Algeria. In una recente intervista alla Reuters, una fonte interna al governo algerino ha infatti rivelato che alcuni militanti islamici consegnati da Algeri a Gheddafi sarebbero fuggiti per unirsi ai “ribelli”. A detta dello stesso anonimo funzionario algerino, uno di questi islamici sarebbe addirittura apparso su Al Jazeera mentre “parlava in nome del governo di transizione” di Bengasi.
Sempre nel corso dello stesso meeting, Muatassim Gheddafi, allora consigliere del padre per la sicurezza nazionale, esprimeva a sua volta soddisfazione per la visita degli autorevoli politici americani, pur lamentando la mancanza di “garanzie relative alla sicurezza” del suo paese da parte degli Stati Uniti. La richiesta, già fatta il precedente mese di aprile al Segretario di Stato, Hillary Clinton, riguardava principalmente la fornitura di armamenti americani “letali e non letali”, per i quali McCain affermava di volersi impegnare in prima persona per accelerare i tempi di consegna, sia presso il Congresso che con il numero uno del Pentagono, Robert Gates.
La collaborazione tra i due paesi comprendeva anche l’addestramento di personale libico nelle accademie militari americane. La formazione garantita da Washington agli ufficiali di Gheddafi s’inseriva nella partnership costruita con la Libia in funzione anti-terroristica dopo lo sdoganamento del regime da parte dell’amministrazione Bush. Il ruolo di Tripoli in nord Africa, senza scrupolo alcuno per i metodi repressivi del rais, era appunto quello di soffocare le cellule legate ad Al-Qaeda, come conferma un altro cablo del febbraio 2009, nel quale l’ambasciata americana elogiava Gheddafi per aver “smantellato una rete in Libia orientale che inviava volontari a combattere in Algeria e in Iraq” e stava progettando attacchi terroristici in Libia.
In un cablo dell’aprile 2009 si parla poi dei preparativi per una imminente visita a Washington di Muatassim Gheddafi che sarebbe stata l’occasione per “incontrare il potenziale futuro leader della Libia”. Il ruolo del quinto figlio del rais all’interno dell’apparato della sicurezza del regime risultava di importanza cruciale e il suo appoggio veniva perciò valutato indispensabile dal governo americano per promuovere a Tripoli i propri interessi.
L’apprezzamento del governo americano per il regime di Gheddafi riguardava anche le aperture fatte negli ultimi anni al capitale straniero. Un documento del 10 febbraio 2009 ricorda come la “Libia ha approvato numerose leggi e regolamentazioni tese a migliorare l’ambiente degli affari e per attrarre investimenti esteri”. Gli sforzi, tuttavia, sembravano avere solo un “modesto successo”, anche se le compagnie internazionali stavano tornando a fare affari in Libia, soprattutto dopo la soppressione delle sanzioni ONU nel 2003.
Le opportunità a disposizione delle compagnie energetiche e di costruzioni in Libia sono al centro di molti altri cablogrammi trasmessi al Dipartimento di Stato dall’ambasciata USA a Tripoli. In alcuni di essi emerge però anche una certa persistente diffidenza nei confronti di Gheddafi, mai visto fino in fondo come un serio partner per l’Occidente.
A suscitare preoccupazioni non sono mai state in ogni caso le violazioni dei diritti umani o il soffocamento del dissenso, bensì la minaccia di estrarre condizioni meno favorevoli alle compagnie occidentali operanti nel paese nordafricano - come quelle, descritte in un cablo del 26 ottobre 2007, imposte all’ENI in occasione dell’estensione delle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio che stavano per scadere - o i rapporti sempre più stretti che Gheddafi stava coltivando con Russia e Cina.
Questi ed altri documenti già pubblicati nei mesi scorsi da Wikileaks contribuiscono dunque a smascherare le pretese dei governi coinvolti nel rovesciamento del regime di Tripoli di agire per la promozione della democrazia e per proteggere i civili. Da Washington a Londra, da Parigi a Roma, fino a pochi mesi fa si faceva a gara per corteggiare il dittatore Gheddafi e il suo entourage, nel tentativo di garantire alle proprie corporation lucrosi affari e l’accesso a quelle ingenti risorse petrolifere libiche che queste ultime si apprestano ora a spartirsi sotto la supervisione di un regime più docile verso gli interessi occidentali.
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di Eugenio Roscini Vitali
Nel Neghev occidentale il cessate il fuoco unilaterale annunciato nella notte di giovedì dai jihadisti della Striscia di Gaza non è durato che poche ore: ad interropere la fragile tregua è stato un missile Grad BM21 esploso alle prime ore dell’alba in un’area disabitata a sud di Ashkelon, la città portuale situata lungo la costa mediterranea di Israele; altri sei Grad sono poi caduti nelle vicinanze di Ofakim e Sderot e sulla periferia di Be’er Sheva dove l’esplosione ha causato la morte di un civile di trent'anni e il ferimento di altri otto, due dei quali in modo grave.
Tra mercoledì e giovedì sera le fazioni combattenti palestinesi avevano forzato la mano colpendo con almeno 38 razzi Qassam e proiettili di mortaio pestato le zone agricole dei consigli regionali di Eshkol e Sha’ar HaNegev, attacchi nei quali era rimasta ferimento una bambina di nove mesi e che avevano prodotto ingenti danni alle strutture del valico di frontiera di Erez. Durante la successiva azione israeliana gli F15 dell’IAF(Israel Air Forces) avrebbero poi bombardato le rampe di lancio di Al-Maghazi e Beit Lehiya ed ucciso due membri delle Brigate Al-Quds, braccio armato del Movimento per la Jihad islamica in Palestina.
Dallo scorso week-end sarebbero almeno 26 le vittime palestinesi delle operazioni aeree israeliane: tra loro Abu Awad An-Nayrab, personaggio di spicco delle Brigate Al-Quds; Moataz Qouriqa, responsabile del braccio armato della Jihad islamica, colpito a morte nel campo profughi di Al-Bureij insieme al fratello Munzer e al figlio di 5 anni; Samed Muti Abed, esponente dei Comitati di Resistenza popolare e tra i principali organizzatori del blitz a nord di Eilat. Dal 18 agosto scorso, giorno del triplice attentato, sul sud dello Stato ebraico sarebbero caduti più di 150 razzi, un’offensiva alla quale Israele ha risposto con un massiccio utilizzo del sistema di difesa antimissile Iron Dome e con non meno di 60 sortite aeree.
Giorno dopo giorno la Striscia di Gaza ha subito i bombardamenti dei caccia e dei droni israeliani: colpiti i centri abitati di Khan Younis, Beit Lahiya, Beit Hanoun e Rafah; centrati il campo profughi di Al-Maghazi, Al-Bureij e Al-Nuseirat e i quartieri centrali della stessa Gaza City. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani (PCHR), tra gli abitanti di Gaza ci sarebbero anche otto persone rimaste vittime dal così detto “fuoco amico”: tre uomini, tre donne e due bambini feriti dai razzi jihadisti caduti per errore sui villaggi di Deir Al-Balah e al-Shouka e sui nei quartieri orientali di Al-Shuja'ya e Al-Toffah a Gaza City.
Concordato domenica 21 agosto dai rappresentanti di Hamas e Israele, il primo cessate il fuoco era stato subito disatteso dal lancio di sedici razzi sparati dai miliziani delle Brigate Al-Quds sulle zone periferiche di Eshkol, Sderot, Ashkelon e Be’er Sheba. La seconda tregua, alla quale avrebbero dovuto aderire tutti i gruppi armati della Striscia di Gaza, era stata invece il risultato di un’iniziativa unilaterale della Jihad islamica, lo stesso gruppo che a meno di 48 ore dall’ultima violazione ha deciso di riproporre un nuovo cessate il fuoco. In un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa Ma’an il leader del movimento jihadista a Gaza ha dichiarato che l’escalation del conflitto non potrebbe che danneggiare la popolazione della Striscia e mettere a rischio la vita dei stessi leader delle fazioni armate.
Dawood Shibab è infatti convinto che tra gli obbiettivi israeliani c’è quello di decapitare i vertici delle organizzazioni combattenti; ipotesi avvalorata da un reportage pubblicato dal quotidiano Al-Ahram nel quale si parla di un piano che sarebbe dovuto scattare in seguito agli attentati del 18 agosto scorso e di una mediazione egiziana per impedire l’assassinio dello stesso primo ministro Ismayl Haniyeh.
A poco più di una settimana dagli attacchi a nord di Eilat, il Cairo e Tel Aviv hanno concordato un aumento della presenza militare egiziana nel deserto del Sinai. Diventata la sponda logistica delle formazioni armate che operano a Gaza, la penisola è in gran parte controllata dai trafficanti e dalle bande armate, cresciute soprattutto grazie alla presenza di decine di jihadisti scappati dalle prigioni egiziane durante la rivolta contro Mubarak. Le frange più dure avrebbero dato vita al movimento Al-Shabab Al-Islam, gruppo salafita vicino alle posizioni di Al-Quaeda, ma nel Sinai si parla della presenza di personaggi storici del terrorismo internazionale come Rafa’i Ahmed Taha, Alì Abu Faris e Ramzi Mahmoud Al Munafi, ex dottore di Bin Laden.
Per combattere il contrabbando di armi e la nebulosa collaborazione che lega questi gruppi alle formazioni palestinesi, l’esercito egiziano starebbe addirittura negoziando con i capi delle tredici tribù beduine che abitano la penisola. In cambio di un accordo che prevede la protezione del confine con Israele il Cairo sarebbe pronto ad offrire armi, addestramento e il pagamento di un assegno mensile. Due le tribù che avrebbero già aderito: la Sawarkas, che ha il controllo dell’area che dalla Philadelphi Route arriva fino alle coste mediterranee del Sinai, e la Tiyaha, che dal posto di confine di Nitzana si addentra fino alla zona centrale della penisola.
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di Michele Paris
Come annunciato da settimane, l’accusa di stupro nei confronti dell’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, è stata archiviata definitivamente martedì dietro richiesta della stessa procura di Manhattan che aveva istruito il caso. Il crollo dell’impianto accusatorio ha messo in luce le carenze di un’indagine condotta in maniera affrettata e, soprattutto, ha rivelato le distorsioni del sistema giudiziario americano in un caso con profonde implicazioni politiche.
L’ex ministro delle Finanze francese, come è noto, era stato arrestato il 14 maggio scorso mentre era a bordo di un aereo dell’Air France in partenza dall’aeroporto Kennedy di New York. La polizia della metropoli americana si era attivata prontamente in seguito alla denuncia di una dipendente di un lussuoso hotel appartenente alla catena francese Sofitel. La donna, la 33enne immigrata dalla Guinea Nafissatou Diallo, aveva sostenuto che, dopo essere entrata nella suite dell’importante economista e uomo politico transalpino per effettuare le pulizie che le erano state assegnate, era stata costretta ad un rapporto sessuale contro la sua volontà.
L’indagine sulla condotta di Strauss-Kahn era stata affidata all’intraprendente procuratore distrettuale di Manhattan, Cyrus Vance jr., il quale aveva puntato tutte le sue carte unicamente sulla testimonianza dell’accusatrice. Su queste basi, l’allora numero uno del FMI era stato sottoposto all’umiliazione della cosiddetta “perp walk” – ovvero l’apparizione pubblica dell’arrestato in manette a beneficio dei media – per essere poi incarcerato e, almeno in un primo momento, vedersi negata la libertà su cauzione.
La clamorosa sventura giudiziaria dell’esponente di spicco del Partito Socialista francese era stata immediatamente sfruttata dalla maggior parte dei media americani, a cominciare dal New York Times, per orchestrare una vergognosa campagna diffamatoria nei suoi confronti. Senza alcun riguardo per la presunzione di innocenza e il diritto dell’accusato ad un trattamento equo ed imparziale, Strauss-Kahn è stato dichiarato sommariamente colpevole dalla stampa e dalle televisioni d’oltreoceano, nonostante non vi fossero testimoni a supportare la tesi della presunta vittima e la ricostruzione della vicenda avesse da subito suscitato più di una perplessità.
Sul fronte politico, la grave accusa era stata subito utilizzata per esercitare enormi pressioni su Strauss-Kahn affinché lasciasse la guida del Fondo Monetario Internazionale. Allo stesso tempo, il polverone suscitato dal caso fece sfumare ogni sua possibilità di continuare a perseguire la candidatura alla presidenza francese, per la quale appariva favorito su Nicolas Sarkozy.
Pur essendo al vertice di un’istituzione responsabile dell’applicazione forzata delle ricette neo-liberali ai paesi in difficoltà finanziarie, Strauss-Kahn appariva attestato su posizioni relativamente meno radicali rispetto a Washington e all’oligarchia finanziaria americana. Non a caso, infatti, dopo il suo arresto le richieste più insistenti di dimissioni furono proprio quelle provenienti dalla Casa Bianca, da dove sarebbe più tardi arrivato il pieno sostegno alla candidatura per la direzione del FMI di un’altra personalità di primo piano del panorama politico francese, la più gradita Christine Lagarde, ex ministro delle Finanze di Sarkozy.
Al di là delle responsabilità di Dominique Strauss-Kahn nei fatti avvenuti nella stanza del Sofitel di New York, l’intero caso ha assunto i contorni di una vera e propria esecuzione politica, portata a termine, come fin troppo spesso è accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti e altrove, grazie alla manipolazione di vere o presunte accuse legate al comportamento sessuale del personaggio pubblico di turno.
Di fronte al giudice della Corte Suprema dello stato di New York, Michael J. Obus, l’ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan, pur confermando l’avvenuto rapporto sessuale tra Strauss-Kahn e la sua accusatrice, ha dovuto ammettere la totale assenza di prove di un possibile stupro, al di là della sola testimonianza della donna stessa. Già a partire dal mese di giugno, la credibilità di quest’ultima era stata messa seriamente in discussione da una serie di circostanze. Tuttavia, per svariate settimane la procura aveva cercato di salvare in qualche modo il caso e la faccia di fronte all’opinione pubblica, dopo che le accuse della donna guineana erano state ritenute della massima solidità.
Dagli stessi documenti del procedimento con cui è stata chiesta l’archiviazione emerge la condotta discutibile della procura. All’iniziale completa fiducia nella testimonianza di Nafissatou Diallo ha fatto seguito l’inevitabile ammissione di ritrovarsi in una “situazione nella quale… la credibilità dell’accusatrice non avrebbe potuto sostenere il più semplice dei riscontri”. Infatti, prosegue il documento ufficiale, durante gli interrogatori con gli uomini della procura, “[l’accusatrice] non ha detto la verità, sia sulle questioni di rilievo che su quelle di minore importanza, sia su quelle riguardanti il suo passato che su quelle relative alle circostanze della vicenda”.
L’ammissione di responsabilità della procura di Manhattan non spiega in ogni caso i motivi per cui l’attendibilità dell’accusatrice e unica testimone del presunto stupro non sia stata verificata da subito con maggiore scrupolo. La donna, ad esempio, diede ben tre versioni differenti del suo comportamento dopo l’incontro nella suite di Strauss-Kahn, giungendo successivamente addirittura a negare di aver fornito una delle tre ricostruzioni dei fatti. Secondo i procuratori incaricati del caso è risultato perciò “difficile accertare quello che accadde realmente in quel periodo di tempo così critico [dopo il presunto stupro]”, tanto che essi stessi finirono per non avere più “alcuna fiducia circa la volontà dell’accusatrice di dire la verità nel caso fosse stata chiamata a testimoniare durante il processo”.
Ugualmente determinante per le sorti del procedimento è stato poi il racconto contraddittorio fatto dall’accusatrice sullo stupro di gruppo a cui sarebbe stata sottoposta in Guinea. Sotto pressione, la donna ha alla fine ammesso di aver mentito e di essersi inventata questo episodio in occasione della sua richiesta di asilo per entrare negli Stati Uniti. Per la procura è sembrato di “estrema rilevanza” il fatto che, “in un caso di stupro, l’accusatrice abbia fornito una testimonianza falsa su un differente caso di violenza sessuale”.
La donna, inoltre, avrebbe fornito numerose altre false dichiarazioni, tra cui la spiegazione di alcuni versamenti bancari pari a decine di migliaia di dollari fatti a suo beneficio da persone non meglio identificate in quattro stati diversi. Con il suo fidanzato, detenuto in Arizona per possesso di stupefacenti, infine, avrebbe discusso telefonicamente dei possibili benefici economici che le sarebbero derivati dalla vicenda del Sofitel, screditando definitivamente la sua posizione e facendo svanire la possibilità di istruire un processo fondato su solide basi.
Con l’archiviazione del caso, Dominique Strauss-Kahn ha ottenuto così la libertà di far ritorno in Francia, dove sarà chiamato a prendere una decisione su un eventuale ritorno sulla scena politica a poche settimane dalle primarie del Partito Socialista per le elezioni presidenziali del 2012. A New York, tuttavia, rimane aperto un procedimento civile nei suoi confronti avviato dalla stessa immigrata dalla Guinea, mentre proprio nel suo paese d’origine dovrà far fronte ad una nuova causa intentata dalla scrittrice Tristan Banon, la quale accusa DSK di tentato stupro nel corso di un’intervista – anche allora senza testimoni – concessa nel 2003.
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di Fabrizio Casari
Avventura finita per Gheddafi e famiglia: dopo mesi di bombardamenti a tappeto da ogni dove, la Nato ha ormai conquistato Tripoli. Da oggi non esiste più la Jamahiria Araba Libica Popolare Socialista, ma semplicemente la Libia. Proseguono ancora i combattimenti nelle strade della capitale, dove si registra ancora la resistenza delle milizie legate al colonnello; ma siamo comunque all'epilogo del regime, probabilmente trattasi di questione di ore.
Sono in corso le operazioni di pulizia dai cecchini e, come prevedibile ma non raccontabile, le vendette e i regolamenti di conti, le esecuzioni sommarie che, con la scusa del caos e dei cecchini, passeranno sotto il silenzio che la stampa occidentale già si prepara ad offrire come omaggio ai vincitori. Nel caso, verranno semmai fatte passare come crimini dei mercenari africani al servizio del colonnello.
In attesa che la Nato metta direttamente piedi nel suo nuovo protettorato, i cosiddetti “ribelli”, più inclini alle fotografie che al combattimento, sono a bordo di macchine, mitra spianati e grida convulse, a ricavarsi un posto nell’album del “chi c’era” che nel migliore dei casi frutterà prossimi riconoscimenti, ruoli, incarichi; nel peggiore almeno un po’ di prestigio in famiglia e tra i conoscenti. Gli incerti diverranno falchi e i falchi si travestiranno da colombe; chi ha meno sparato si scoprirà combattente e chi più ha sparato s’improvviserà leader politico pragmatico e saggio.
L’ultima proposta di cessate il fuoco era stata respinta al mittente senza nemmeno il garbo del linguaggio diplomatico. Del resto, per trattare bisogna avere qualcosa da chiedere e qualcosa da offrire in cambio: i resti della famiglia di Gheddafi, invece, da offrire non avevano proprio più nulla. I ribelli affermano che sono stati fatti prigionieri i figli maschi del Colonnello, Saif e Saadi; ma é propaganda, visto che Saif ha incontrato i giornalisti della BBC per dire che suo padre é a Tripoli. Un altro figlio, Muhammad, sembra sia riuscito a fuggire, mentre non è ancora nota la sorte della figlia Aisha e di Gheddafi stesso. Fonti diverse, ma lo danno asserragliato nel compound o in zone di confine pronto a riparare all’estero; Sudafrica o Zimbawe, Angola o Venezuela sembrerebbero le destinazioni possibili. Altre fonti lo danno invece pronto al suicidio ed altre ancora alla resa.
Due scenari opposti, perché se l’eventualità del suicidio da proporre al mondo come martirio sarebbe un autentico gesto di coraggio, quello dell’espatrio sarebbe il gesto della viltà. La morte del colonnello sarebbe comunque una soluzione positiva per la Nato e i ribelli: non é escluso che si cerchi d'ingaggiare allo scopo uno della sua scorta. Ma l'opzione migliore per l'Alleanza Atlantica sarebbe quella di una sua cattura, per portarlo a L’Aja ed aggiungere così il Rais libico alla collezione di trofei per la Corte Penale Internazionale che gli stessi Usa, però, non riconoscono abile a processare loro e i suoi alleati.
Dopo 1600 morti e mesi di bombardamenti senza sosta, l’Alleanza atlantica ha avuto quindi ragione della resistenza dei lealisti del regime del colonnello. Mesi di guerra che hanno proposto spesso, tra interlocuzioni prima e riconoscimenti poi agli insorti cirenaici, tra avanzate e indietreggiate, tra conquiste di città e perdita delle stesse, momenti di difficoltà di fronte ad una realtà militare sul campo che era apparsa subito molto diversa dal war-game immaginato.
Le varie e continuate diserzioni da parte dei fedelissimi di Gheddafi hanno ulteriormente complicato il riassetto del regime, ormai progressivamente trasformatosi nel governo di un clan familiare e le ultime defezioni delle tribù un tempo alleate del colonnello hanno messo la parola fine all’avventura politica di un regime che ha governato la Libia per 42 anni.
Si apre ora la fase più delicata. Perché la composizione politica degli insorti è quanto mai vaga e di difficile controllo. Impossibile non vedere, per quanto occultata dalla stessa Nato, la presenza notevole di organizzazioni d’integralisti islamici, di bande cirenaiche legate ai traffici illeciti, del notabilato locale e di componenti del vecchio regime riciclati. C’è da attendersi, poi, un difficile riequilibrio di peso politico tra le diverse tribù, alcune delle quali non potranno pensare di attraversare indenni il purgatorio, visto l’appoggio dato a Gheddafi fino a poche settimane orsono.
E’ quindi presumibile che per la Nato il difficile cominci ora. Bombardare dal cielo e dal mare, rifornire di armi, istruttori, incursori e mercenari le truppe ribelli é stata la parte meno complicata. Da oggi, invece, i conti andranno fatti con il futuro assetto del paese. Non sarà facile decidere a Bruxelles quale sarà il futuro assetto politico e statuale della Libia e, di conseguenza, la casta che dovrà governarne sia la transizione che il futuro. E’ invece probabile che questa piramide voglia essere rovesciata dagli insorti: la casta che imporrà il comando, per quanto dovrà mediare con i “liberatori” occidentali, si farà forte proprio di quella “interlocuzione unica” di cui ha goduto finora e potrà imporre la forma di regime e gli uomini che lo guideranno, almeno nella prima fase.
Una possibile mediazione potrebbe vedere una Giunta provvisoria dove trovare posto sia per i boss della Cirenaica che per gli ex della cerchia di potere di Tripoli, da Moussa Koussa a Jalloud, ad Abdulrahman Shalgam: la Nato si fida più di loro che degli insorti, giacché sono uomini capaci di governare e ormai completamente al servizio dell’Occidente, che gli ha dato riparo, denaro e protezione. Qualche inserimento di esponenti delle tribù della Tripolitania e della Sirte completerà il quadro.
Ma, quale che sia l’accordo, dovrà essere trovato in fretta: nel caso libico, infatti, il tempo ha una valenza superiore. Alla Nato e agli interessi dell’Occidente petrolifero che rappresenta, l’urgenza è quella di far ripartire i pozzi prima possibile. Con Gheddafi fuori scena e Chavez in precarie condizioni di salute, il Brent ritrova l’umore dei tempi migliori.
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di Eugenio Roscini Vitali
Il 1° maggio 1933, durante il programma di pulizia delle città dagli “elementi socialmente pericolosi”, migliaia di “indesiderati” vengono arrestati a Mosca e Leningrado. Schedati e privati dei documenti, i prigionieri vengono deportati nel campo di transito per coloni speciali di Tomsk, in Siberia; in due diverse fasi vengono poi trasferiti 800 chilometri più a nord, in un luogo isolato in mezzo al fiume Ob, sull’isola di Nazino. Isolati su quel piccolo lembo di terra, senza cibo ne mezzi di sussistenza, i 6.114 prigionieri di Nazino soffriranno talmente tanto la fame che sull’isola si registreranno migliaia di casi di antropofagia: è così che quel luogo prenderà il nome di «isola dei cannibali». Da questa agghiacciante storia d’orrore, tragico prodotto dell’assurda politica stalinista riaffiorato all’attenzione della società civile solo dopo l’apertura degli archivi russi incoraggiata dalla Perestroika, si salveranno circa duemila persone, 1.700 delle quali in condizioni fisiche disperate.
Il primo a far luce su quell’orrendo frammento dell’arcipelago gulag, conosciuto come “Affare Nazino”, fu un giovane dirigente del partito comunista sovietico, Vassilii Arsenievich Velichko, responsabile di un piccolo giornale locale che nell’agosto del 1933, dopo aver raccolto le prove dell’atroce misfatto, ebbe il coraggio di denunciare l’accaduto alle autorità superiori. Alla commissione di inchiesta istituita il mese successivo Velichko dichiarò: « Ho condotto di mia iniziativa un’inchiesta sugli insediamenti nel distretto di Alessandroski , ne ho visitati cinque situati lungo il fiume e tra questi c’era quello sull’isola di Nazino. Non ho scritto un articolo di propaganda, ma una lunga relazione che poi ho mandato sia ai miei superiori che a Stalin in persona. Ho descritto tutto quello che è successo, dall’arrivo dei deportati all’evacuazione d’emergenza e ho analizzato gli eventi che hanno portato a quello scempio».
La tragedia di Nazino si consumò nei primi anni Trenta, quando in Unione Sovietica era in atto il programma di rapida industrializzazione voluto da Stalin. Secondo il regime il processo di modernizzazione del Paese era prioritario e richiedeva cospicue risorse, sia in termini di mezzi che di manodopera, e affinché lo si potesse realizzare compiutamente era necessario che la ricchezza prodotta dall’agricoltura venisse interamente trasferita all’industria. Dato che dal punto di vista agricolo le terre meridionali erano quelle più produttive, i primi a pagare sulla loro pelle le scelte del Poliburo furono i contadini ucraini: il programma di “collettivizzazione” iniziato nel 1927 aveva generato il processo di accorpamento degli appezzamenti agricoli in cooperative e tutti coloro che si erano opposti avevano dovuto affrontare una violenta repressione, con arresti, esecuzioni e deportazioni di massa. La requisizione di tutti i generi alimentari e l’obbligo di cedere allo Stato quantità di grano talmente elevate da non lasciare ai produttori neanche il minimo necessario alla sopravvivenza provocò una carestia di proporzioni catastrofiche, un genocidio che nella sola Ucraina arrivò a contare 7 milioni di morti.
Esteso a tutta l’Unione Sovietica, tra il 1930 e il 1931 il programma di collettivizzazione diede origine ad un esodo di dimensioni bibliche: in soli due anni 10 milioni di persone lasciarono le campagne per spostarsi nelle zone urbane, dove intanto il regime aveva introdotto le tessere per la distribuzione di cibo. Messo in crisi dall’enorme numero di profughi affluito nelle grandi città, il sistema di approvvigionamento alimentare andò però ben presto in crisi e per il regime i contadini divennero così una vera e propria minaccia, dei pericolosi controrivoluzionari da eliminare. Tra il 7 e il 12 gennaio, durante il discorso introduttivo all’annuale incontro delle classi dirigenti dell’Unione Sovietica, Stalin illustrò la sua nuova teoria: «nonostante il trionfo del socialismo e l’eliminazione delle classi sfruttatrici, l’opposizione non è scomparsa, ha solo assunto altre forme. Adesso le principali minacce per il socialismo sono la criminalità e la devianza sociale». Dieci giorni dopo il leader russo scrisse una direttiva segreta a Genrikh Yagoda, membro del Direttorato politico dello Stato (OPGU) e futuro capo del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD), con la quale gli ordinò di fermare l’esodo dei contadini dall’Ucraina e dal Caucaso settentrionale.
Per limitare e controllare l’enorme flusso di “stranieri” l’amministrazione rese obbligatorio un passaporto interno destinato alla popolazione urbana. In meno di un anno questo documenti venne distribuito a 27 milioni di cittadini; a chi non dimostrava di averne diritto venivano dati dieci giorni per tornare nella propria regione, dopo di che veniva spedito in Siberia o in Kazakistan. Tra il marzo e l’aprile del ’33 vennero respinte 70 mila richieste e tra marzo e luglio nella sola Mosca vennero arrestati e deportati 85.937 individui. Chi si nascondeva, quelli che il partito definiva “parassiti che ostacolano la costruzione del comunismo”, dovettero fare i conti le milizie speciali istituite per “ripulire le città”. Composte da agenti che avevano l’ordine di arrestare chiunque avesse un’aria sospetta, le milizie aveva un numero stabilito di arresti da eseguire, una quota giornaliera nella quale poteva ricadere chiunque, anche chi non aveva commesso nessun reato.
È per questo motivo che tra coloro che vennero arrestati il 1° maggio del 1933 c’erano individui di ogni provenienza sociale: ex kulaki in cerca di lavoro, operai, impiegati, donne e bambini, membri di cellule di partito, persone che si trovavano in città solo di passaggio o che si era recate alla stadio o che erano addirittura scese a comprare le sigarette ed avevano lasciato a casa il “passaporto”; nella lista di Velichko compare anche una ragazzina di 12 anni, arresta come mendicante alla stazione di Mosca solo perché la madre l’aveva lasciata un attimo per andare a comperare il pane, e una donna incita, moglie di un ufficiale in servizio sull’incrociatore Aurora, arrestata anche lei alla stazione mentre tornava a Leningrado. Dopo essere stati schedati e privati dei documenti i prigionieri vennero trasferiti quasi subito a Tomsk, dove giunsero con un convoglio speciale il 10 maggio, dopo un viaggio di dieci giorni a bordo dei vagoni merci delle ferrovie russe. Dai rapporti della commissione d’inchiesta risulta che queste persone vennero accorpate a piccoli delinquenti che dovevano scontare da 1 a 5 anni nei campi di prigionia, arrestati in precedenza per aver commesso reati minori come contrabbando e piccoli furti.
A Tomsk i prigionieri rimasero fino al 14 maggio: con una capienza massima di 15 mila deportati, il campo ospitava più di 25 mila persone e il pericolo di rivolte e disordini era costante. Per questo diverse migliaia di persone vennero caricate a forza su delle chiatte e trasferite cento chilometri più a nord, nel piccolo capo di lavoro di Alexandro Vakhovskaya. Il comandante, Alexandrovitch Tsepkov, era stato avvisato dell’arrivo dei prigionieri solo qualche giorni prima: non gli era stato comunicato il numero delle persone ne come impiegarle; gli venne piuttosto detto di trovare un’area di isolamento per individui pericolosi e declassati. Per paura che questi potessero devastare e saccheggiare il villaggio, Tsepkov decise quindi di spedire i deportati sull’isola di fronte a Nazino, in mezzo al fiume Ob. Il 18 maggio, a bordo di quattro chiatte, sbarcarono sull’isola 4888 individui: 332 donne e 4.556 uomini, oltre ai cadaveri delle 27 persone che non erano riuscite a resistere al viaggio.
Sin dalle prime ore i criminali più incalliti iniziarono subito a perseguitare gli altri prigionieri, derubandoli di quel poco che avevano o uccidendoli per strappandogli via i denti d’oro, “bottino” che avrebbero poi scambiato con i carcerieri per qualche grammo di tabacco. Il poco cibo distribuito non bastava a sfamare neanche un terzo dei deportati e quelli che era stati arrestati per errore erano i più vulnerabili. Molti morirono a causa delle violenze e dei soprusi delle guardie, piccoli Stalin che credevano di poter decidere della vita di chiunque: l’ordine era quello di sparare senza avvertimento a chi avesse tentato la fuga o ne fosse quantomeno sospettato, ma tra gli ufficiali c’era chi si divertiva a gettare i prigionieri nel fiume o a mandarli senza vestiti tra le acque gelide dell’Ob a recuperare le anatre abbattute a colpi di fucile. Molti deportati tentarono la fuga cercando di attraversa il fiume con delle zattere improvvisate, ma la maggior parte di essi annegò o venne uccisa dalle guardie.
A Nazino si iniziò a sentir palare di cadaveri fatti a pezzi e carne umana cucinata e mangiata il giorno dopo l’arrivo; nelle due settimane successive furono trovate decine di cadaveri senza fegato, cuore, polmoni, polpacci e parti molli. Il primo caso accertato di antropofagia risale al 29 maggio: i tre colpevoli vennero arrestati e trasferiti nella prigione di Alexandro Vakhovskaya; due giorni dopo vennero fermati altri tre cannibali ma nessuno venne punito. In tutto le autorità registrarono una dozzina di casi di cannibalismo e secondo gli ufficiali sanitari i responsabili avevano commesso questi atti perché abituati a cibarsi di esseri umani. La commissione di inchiesta interrogò le guardie accusate di aver trattato come selvaggina i prigioniere che aveva tentavano di lasciare l’isola su zattere di fortuna, ma i militari risposero di aver semplicemente sparato contro dei cannibali che cercavano di allontanasi con il loro “pasto”.
La situazione sull’isola peggiorò ulteriormente il 25 maggio, quando arrivò un convoglio con altri 1.500 deportati; le condizioni di salute di questo gruppo erano ancora più gravi di quelle del primo. Il 31 maggio fu il segretario del partito comunista del distretto di Alexandrovsky a visitare Nazino: in seguito a quanto aveva visto stilò un lungo rapporto che inviò ai suoi superiori e questi ordinarono il trasferimento di tutti i prigionieri in luoghi più appropriati. Quasi tutti i deportativi vennero trasferiti in cinque insediamenti più a monte e durante il viaggio ne morirono diverse centinaia. I vertici si adoperarono per non far trapelare nulla e a pagare furono solo poche persone: a Mosca gli ufficiali di alto grado subirono aspri rimproveri, che comunque non ebbero ripercussioni sulla loro carriera; le autorità locali patirono invece punizioni più severe, con deportazioni e condanne in campi di prigionia. Per il partito 4.000 vittime non era certo una tragedia e quando Velichko portò alla luce la storia al Cremlino la preoccupazione non era il crimine in se, cosa peraltro negata, ma la possibilità che fosse messa in discussione la capacità di portare a termina il piano di deportazione. La vicenda fu archiviata e tornò alla luce solo dopo la dissoluzione del regime sovietico; il materiale reperito fu in seguito usato per raccontare e capire meglio cosa accadde a Nazino e chi fossero quelle vittime. Nicolas Werth usò quei documenti per scrivere il libro inchiesta “L'isola dei cannibali”.