- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di mazzetta
Millesettecento detenuti americani in isolamento sono scesi in sciopero della fame, per protestare contro l'applicazione di una pena accessoria non prevista dai codici, ma somministrata con generosità dalle amministrazioni carcerarie, spesso private. Isolamento non vuol solo dire essere separati dagli altri detenuti e privati del contatto umano come delle comunicazioni con l'esterno, ma anche essere privati delle letture, delle foto dei propri cari e di qualunque cosa ecceda l'abbigliamento regolamentare e la dotazione delle celle.
Grazie alla natura amministrativa del provvedimento non sono ammessi ricorsi e così, quella che in teoria dovrebbe essere una procedura adottabile nel caso estremo di detenuti ingovernabili, diviene una pratica come un'altra; a volte usata per evitare problemi a prescindere nel caso di detenuti che non danno garanzia di tranquillità, altre volte usata come vera e propria forma di tortura per ottenere informazioni su complici o delitti. Niente di tutto ciò è legale, contravvenendo la convenzione sui diritti umani che pure gli Stati Uniti hanno firmato, ma questo è da tempo il livello della giustizia americana, ormai inquinata dall'ombra di Guantanamo e dall'abuso di trattamenti che vanno oltre la semplice detenzione.
L'esempio di Bradley Manning è l'icona del sistema giudiziario americano. Pur accusato di reati gravissimi contro lo Stato, non potrebbe essere sottoposto ad altro trattamento che la detenzione. Subisce invece da mesi l'isolamento più completo ed è anche stato costretto a rimanere a lungo nudo in cella.
Una pratica che non risponde a nessuna esigenza legittima, se non a quella di torturare il prigioniero perché abbandoni ogni resistenza e confessi o ammetta responsabilità che gli stessi inquirenti non sono stati in grado di provare e che quindi si fonda solo sulle convinzioni degli investigatori-aguzzini, che altrimenti non avrebbero bisogno di torturare i prigionieri. Un bel ritorno a Torquemada, tanto più che è scientificamente dimostrato che le torture non aiutano le confessioni, e che una dichiarazione rilasciata sotto tortura è sempre molto meno attendibile di una ottenuta con le procedure in vigore nei paesi civili.
Non è un paradosso che nel sostenere l'efficacia di una tortura come il waterboarding, i servizi americani abbiano citato il caso del pericoloso terrorista sottoposto a centottanta sedute di questa tortura. Centottanta volte gli hanno fatto provare la sensazione dell'annegamento, centottanta volte lo hanno fatto tossire, annaspare e ansimare prima di decidere che le sue dichiarazioni erano quelle che si attendeva chi conduceva l'interrogatorio.
Dall'uso in casi eccezionali, già mal tollerato dal diritto, si è ormai trasceso all'uso sistematico, con gravi danni alla salute dei detenuti, che è bene ricordare sono stati condannati solo alla privazione della libertà, non a essere sepolti fino a che non parlano o per comodità di chi gestisce il carcere.
Carceri che negli Stati Uniti sono spesso il regno incontrastato di chi ne ha la gestione, anche privati che alimentano una vera e propria macchina organizzata industrialmente per contenere la più grande popolazione carceraria del mondo occidentale.
Due milioni di americani sono dietro le sbarre, per fare un paragone con l'Italia sarebbe come se da noi fossero quattrocentomila e invece sono sessantamila per una capienza delle carceri di poco più della metà.
Inutile dire che a tale severità non corrisponde una riduzione della criminalità, molto più elevata che in paesi con una popolazione carceraria molto più piccola e trattata secondo standard più civili.
Ma per motivi simili anche le carceri italiane sono fuorilegge, contravvengono sia alla convenzione sui diritti dell'uomo mantenendo i detenuti in condizioni poco dignitose e pericolose per la salute, che alla legge dello Stato che fissa i criteri per l'abitabilità delle strutture carcerarie.
In primis il limite delle persone che possono contenere, che vale e viene fatto rispettare ad alberghi, cinema, centri commerciali e anche alle abitazioni private, ma che non sembra valere non per le carceri, dove di questa condizione non soffrono solo i “criminali”, ma anche gli addetti alla loro custodia, che sono a tutti gli effetti lavoratori che operano in condizione d'illegalità, a cominciare dalle leggi sulla sicurezza.
Dice il New Yor Times che “la povertà della nostra scienza criminologica” è testimoniata da come le amministrazioni hanno accolto lo sciopero della fame dei detenuti, catalogandolo come una minaccia e che, probabilmente, elimineranno la minaccia con la loro alimentazione forzata come a Guantanamo, in “una malvagia caricatura d'assistenza sanitaria”: un'altra violazione delle leggi internazionali che passa in cavalleria. Chiede l'editoriale di oggi del New Yor Times di osare quello che oggi è “l'impensabile” per l'America: trattare i detenuti come esseri umani.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
“Il giorno più umiliante della sua vita”. Così il magnate dei media, Rupert Murdoch, ha definito la sua audizione alla Commissione cultura della Camera dei Comuni. Murdoch ha difeso la reputazione di "News Corp" sullo scandalo che ha coinvolto il suo tabloid e lo ha portato alla chiusura. Rupert Murdoch ha detto di non sentirsi responsabile per quello che è accaduto al News of the World.
Il News of the World è meno dell’1 per cento della loro azienda, ha detto il magnate australiano, affiancato dal figlio James. In due settimane, l’azienda ha chiuso un giornale proficuo, è uscita da un tentativo di comprare il resto della British Sky Broadcasting Group Plc e ha perso due dirigenti. Nessun accenno significativo invece a Sean Hoare, l'ex giornalista del News of The World che l’altro ieri era stato trovato morto nella sua abitazione di Watford.
Ma lo scandalo si è diffuso aldilà di News Corp, costringendo alle dimissioni due dei poliziotti più anziani del paese inglese e il leader del primo ministro David Cameron. Il quale, dal canto suo, divide le colpe dell’accaduto tra i media, che hanno commesso dei crimini terribili, e la polizia, che deve rispondere a domande grandi ed imperative sulla corruzione all’interno del suo staff.
Ma proprio la posizione del primo ministro David Cameron, con l’allargamento dello scandalo delle intercettazioni telefoniche in Gran Bretagna, sembra farsi sempre più precaria. Gli strettissimi rapporti del premier conservatore con la famiglia Murdoch e i vertici del suo impero mediatico continuano infatti ad essere sotto i riflettori, minacciando la sopravvivenza stessa del governo a poco più di un anno dal suo insediamento.
Dopo aver affrontato sommariamente lo scandalo qualche giorno fa, Cameron è stato costretto lunedì ad interrompere la sua visita ufficiale in Sud Africa per tornare in fretta e furia a Londra dove mercoledì è in programma una sessione speciale del Parlamento. Gli ultimi sviluppi della vicenda stanno mettendo sempre più in difficoltà il primo ministro, la cui risposta alle polemiche delle ultime settimane è apparsa tutt’altro che convincente.
Il caso delle intercettazioni - come è noto - coinvolge il giornale News of the World, appartenente al gruppo del magnate australiano Rupert Murdoch, i cui vertici avrebbero messo sotto controllo i telefoni di politici, celebrità, membri della famiglia reale e famigliari di vittime di crimini negli ultimi anni. La condotta della testata più diffusa in Gran Bretagna, chiusa qualche giorno fa dopo 168 anni di pubblicazioni, ha messo in luce un desolante scenario di collusione tra l’impero di Murdoch, l’intera classe politica e le stesse forze di polizia.
Una prima indagine sulle intercettazioni era stata aperta, e quasi subito insabbiata, già nel 2006. Tra ipotesi e rivelazioni, il caso è riesploso prepotentemente qualche settimana fa, quando si è saputo che News of the World aveva ottenuto illegalmente l’accesso al telefono di una teenager scomparsa e successivamente ritrovata morta, Milly Dowler, e della sua famiglia. I documenti scoperti presso l’archivio di un investigatore privato al servizio di News of the World hanno rivelato poi che i telefoni di circa 4 mila persone erano stati allo stesso modo messi sotto controllo.
I problemi per il primo ministro Cameron erano iniziati almeno lo scorso mese di gennaio, quando il suo ormai ex portavoce, Andy Coulson, era stato costretto alle dimissioni a causa del suo coinvolgimento nello scandalo. Ex direttore di News of the World, Coulson era stato nominato direttore delle comunicazione del premier nonostante fosse già oggetto di una precedente inchiesta. Anche dopo le dimissioni, Cameron ha continuato a difendere pubblicamente Coulson, subendo così un duro colpo quando, settimana scorsa, quest’ultimo è stato arrestato per aver approvato i pagamenti destinati alle intercettazioni.
Le cose per Cameron hanno continuato però a peggiorare. Dopo aver rassegnato le dimissioni da amministratore delegato di News International - la filiale britannica dell’americana News Corporation di Rupert Murdoch - anche l’amica personale del premier, Rebekah Brooks, è finita agli arresti domenica scorsa.
In rapida sequenza sono arrivate poi le dimissioni del capo della polizia metropolitana di Londra (Scotland Yard), Lord Paul Stephenson, e del suo vice, John Yates. Il primo ha dovuto cedere alle pressioni dopo il polverone sollevato dalla diffusione della notizia dei suoi rapporti con l’ex vice direttore di News of the World, Neil Wallis, assunto da Scotland Yard come consulente per i rapporti con i media, mentre il secondo è finito sotto accusa per aver deciso di chiudere l’indagine sulle intercettazioni due anni fa.
Sempre nella giornata di lunedì, è stato infine ritrovato senza vita il corpo dell’ex reporter di News of the World Sean Hoare nella sua abitazione a nord di Londra. In un’intervista di qualche mese fa al New York Times magazine, Hoare aveva per la prima volta accusato Andy Coulson di essere al corrente delle intercettazioni, contribuendo così alla riapertura delle indagini da parte della polizia britannica.
L’incertezza mostrata da David Cameron nella gestione della vicenda è indubbiamente il frutto della sua vicinanza ai responsabili dello scandalo che sta scuotendo il mondo politico britannico. Oltre a non aver scaricato in fretta il portavoce Coulson, il premier ha esitato nel chiedere le dimissioni di Rebekah Brooks dalla guida di News International. Soprattutto, però, Cameron non è intervenuto tempestivamente per fermare l’acquisizione da parte del gruppo Murdoch della totalità di British Sky Broadcasting (BSkyB).
BSkyB è la prima televisione satellitare britannica per numero di utenti ed appartiene già per il 39% a Murdoch. L’operazione in corso fino a pochi giorni fa prevedeva l’acquisto da parte di News International dell’altro 61%. Il via libera all’acquisizione da parte del governo di Londra sembrava cosa fatta, quando lo scoppio dello scandalo ha finito per rimettere tutto in discussione. Nonostante la crescente opposizione nel paese, Cameron ha atteso parecchi giorni prima di spingere Murdoch a ritirarsi dall’operazione, lasciando così la possibilità ai laburisti per presentarsi come difensori della pluralità del sistema dell’informazione in Gran Bretagna.
L’affare BSkyB è stato valutato nell’ordine di 12 miliardi di dollari e verosimilmente sembra poter essere alla base stessa dell’esplosione dello scandalo. Profonde rivalità tra i giganti della comunicazione e una dura competizione per le quote di mercato stanno dietro al tentativo di fusione tra News International e BSkyB, con la BBC e il Guardian - in prima linea nel denunciare l’affaire delle intercettazioni - particolarmente infastiditi dalle tendenze monopoliste del gruppo Murdoch.
Mentre Rupert Murdoch e il figlio James, assieme a Rebekah Brooks, apparivano di fronte alla commissione Cultura, Sport e Media al Parlamento di Londra per rendere conto delle loro responsabilità, il leader laburista Ed Miliband ha continuato ad attaccare sia i vertici di News International che il governo conservatore. “Questa era un’organizzazione che pensava di non avere alcuna responsabilità”, ha dichiarato Miliband a proposito del comportamento dei media del gruppo Murdoch. “Il suo potere era immenso, la sua influenza enorme, a partire dal primo ministro… Nessuno sembrava disposto a contrastarla, nemmeno la polizia, i politici e la stampa”. Nessuno, in effetti, e tanto meno i governi laburisti di Tony Blair e Gordon Brown che hanno ampiamente beneficiato dell’appoggio di Murdoch e dei suoi giornali.
Gli effetti del caso News of the World in Gran Bretagna, intanto, hanno avuto ripercussioni anche negli Stati Uniti, dove il gruppo Murdoch controlla, tra l’altro, FoxNews, New York Post e Wall Street Journal, il cui editore, Les Hinton, si è dimesso qualche giorno fa.
Dietro richiesta del deputato repubblicano di New York, Peter King, l’FBI ha infatti aperto un’indagine nei confronti di News Corporation con l’accusa di aver messo sotto controllo i telefoni dei famigliari delle vittime dell’11 settembre. Questa ipotesi era stata avanzata da un recente articolo del Daily Mirror basato sulla testimonianza di un ex poliziotto newyorchese, il quale aveva rivelato come alcuni giornalisti di News of the World gli avessero offerto del denaro in cambio dei dati telefonici delle vittime dell’11 settembre e dei loro famigliari.
Gli sviluppi dell’inchiesta americana rischiano di essere ancora più problematici per Rupert Murdoch, il cui gruppo ha la maggior parte degli interessi proprio negli USA. La sua vicinanza alla politica anglo-americana - e non solo - potrebbe tuttavia permettergli anche di uscire dalla vicenda senza troppe conseguenze, al di là di una campagna di condanna sui giornali di mezzo mondo.
Attraverso il suo impero, per molti anni Murdoch ha influito pesantemente sulle decisioni politiche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, al di là del colore dei governi che hanno spesso fatto a gara per assicurarsi il suo sostegno. In questo ruolo, il gruppo da lui guidato ha contribuito in maniera fondamentale a spostare a destra il baricentro della politica di questi due paesi e, di riflesso, di tutto l’Occidente, avanzando un’agenda dai tratti profondamente anti-democratici secondo il volere di quella oligarchia economico-finanziaria che il miliardario australiano rappresenta alla perfezione.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nelle difficili trattative in corso tra Repubblicani e Democratici per innalzare il tetto del debito pubblico americano, sono intervenuti negli ultimi giorni voci autorevoli del mondo economico e finanziario. Le pressioni sul Congresso e sulla Casa Bianca si stanno facendo sempre più forti, così da giungere ad un accordo bipartisan che permetta al governo federale di rispettare le proprie scadenze e, soprattutto, che preveda sostanziali tagli alla spesa pubblica nei prossimi anni.
Il più recente intervento per mettere in guardia dalle conseguenze di un possibile default, se il limite massimo dell’indebitamento americano non verrà alzato entro il 2 agosto prossimo, è stato quello dell’agenzia di rating Moody’s. Con un consolidato metodo ricattatorio - già impiegato negli ultimi mesi per i casi di Grecia, Irlanda e Portogallo - l’agenzia statunitense mercoledì ha minacciato di rivedere a breve la “tripla A” riservata agli USA se la politica non troverà una soluzione concordata per evitare una nuova crisi.
Per Moody’s anche solo una breve interruzione delle capacità del Tesoro americano di pagare gli interessi sui propri bond sarà da considerarsi come un default, con tutte le conseguenze sul sistema finanziario domestico e internazionale. La presa di posizione degli analisti di Moody’s fa seguito a quella dei colleghi di Standard & Poor’s, che lo scorso aprile avevano già declassato la prospettiva dell’economia americana da stabile a negativa a causa dell’elevato deficit di bilancio.
L’avvertimento di Moody’s era stato preceduto di un giorno dall’appello lanciato da 500 top manager d’oltreoceano, riuniti sotto alcune sigle imprenditoriali come la Camera di Commercio e il Forum per i Servizi Finanziari, per agire al più presto sul fronte del debito. Le preoccupazioni del business americano non riguardano naturalmente le possibili conseguenze sul finanziamento dei programmi sociali in caso di default, bensì gli effetti devastanti che si abbatterebbero sul sistema finanziario.
Sempre mercoledì, anche il governatore della Fed, Ben Bernanke, ha ritenuto di dover sollecitare i politici americani a muoversi in fretta nel corso di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti. Oltre a confermare che la Fed è pronta a nuove misure di “stimolo” per rilanciare un’economia ancora stagnante, Bernanke ha avvisato che, se non arriverà l’innalzamento del tetto del debito, le conseguenze sociali saranno rovinose. Ai primi di agosto scatterà infatti un taglio di circa il 40 per cento della spesa federale che colpirà i programmi pubblici come Medicare, dal momento che il governo non potrà più fare ricorso alle entrate provenienti dal denaro raccolto sul mercato dei bond.
A conferma delle apprensioni a livello internazione per la situazione di stallo nelle trattative sul debito negli Stati Uniti, ieri è giunto un appello anche dalla Cina. Sia pure in maniera misurata, il maggior detentore del debito pubblico USA - oltre mille miliardi di dollari in titoli del Tesoro - ha chiesto ufficialmente al governo di Washington di proteggere gli interessi degli investitori.
Sul fronte politico, intanto, le trattative tra i due partiti hanno fatto segnare mercoledì un altro punto morto. Il summit alla Casa Bianca tra il presidente Obama e la leadership democratica e repubblicana si è chiuso tra nuove tensioni. Secondo i resoconti dei testimoni, Obama avrebbe abbandonato bruscamente il vertice dopo uno scontro verbale con il leader di maggioranza alla Camera, il deputato Eric Cantor della Virginia.
Nonostante i due schieramenti condividano sia le ansie sulla questione del tetto del debito sia la necessità di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica, rimangono dei contrasti sui contenuti dell’accordo. Mentre i repubblicani sono disposti ad acconsentire all’aumento del debito solo a condizione che vengano fatti tagli di spesa per l’importo corrispondente e che un accordo complessivo sul deficit non preveda nessuna crescita del carico fiscale, i democratici non intendono in nessun modo stralciare dai negoziati modesti aumenti delle tasse per i redditi più alti.
Dopo aver ceduto abbondantemente alle richieste repubblicane sulla riduzione della spesa, i democratici si trovano ora costretti almeno a salvare le apparenze, in modo da poter sostenere che l’abbattimento del deficit non graverà interamente su lavoratori e pensionati americani. In realtà, le proposte democratiche appaiono in larga misura trascurabili e comprendono, tra l’altro, la soppressione di alcune scappatoie legali che permettono alle corporation di non pagare tasse, delle detrazioni fiscali per i jet privati dei manager delle grandi aziende e dei sussidi alle compagnie petrolifere. L’impatto di questi provvedimenti sarebbe peraltro neutralizzato dalla proposta di abbassare sensibilmente l’aliquota fiscale applicata al business americano.
Il presidente Obama, inoltre, nel dibattito in corso sul debito si sta dimostrando per certi versi ancora più a destra del Partito Repubblicano. L’accordo sul risanamento avanzato dalla Casa Bianca prevede infatti tagli a tutto campo che ammontano a 4 mila miliardi di dollari in un decennio, una cifra di gran lunga superiore a quella proposta dai repubblicani e dalla moribonda commissione bipartisan guidata dal vice-presidente Biden. Sul tavolo per Obama c’è anche il ridimensionamento dei programmi pubblici Medicare e Medicare e del sistema pensionistico, cosa che una parte dei repubblicani aveva invece escluso.
Di fronte alle resistenze dei colleghi democratici, i repubblicani cominciano ora a valutare i possibili contraccolpi negativi di un mancato accordo e di doversi assumere interamente la responsabilità politica di un default. Per questo, il leader di minoranza al Senato, Mitch McConnell, ha proposto un’insolita soluzione per uscire dall’impasse lasciando tutte le conseguenze politiche ai democratici. Secondo il piano, dovrebbe essere Obama a prendere la decisione di alzare il tetto del debito. A quel punto il Congresso finirebbe per bocciare il provvedimento della Casa Bianca ma Obama sarebbe in grado di implementarlo ugualmente usando il proprio diritto di veto.
Questa manovra proposta dal senatore del Kentucky ha suscitato le ire immediate di quasi tutto il suo partito, soprattutto dei deputati più a destra vicini ai Tea Party. Tuttavia, successivamente, in molti si sono detti disponibili a valutare la proposta - compresa la Casa Bianca - nel caso non dovesse emerge nessun’altra alternativa percorribile. In ogni caso, Obama ha fissato a venerdì la data ultima per trovare un accordo di ampio respiro sul deficit. Se lo scontro persisterà, si lavorerà allora ad una soluzione più limitata per evitare il default. Il tutto in tempi rapidi, visto che secondo il Tesoro dopo il 22 luglio potrebbero mancare i tempi tecnici per fare entrare in vigore un eventuale provvedimento.
Nel dibattito sul debito negli Stati Uniti, va ricordato, non è praticamente mai emerso il problema del persistente altissimo livello di disoccupazione. Persino Bernanke durante la già ricordata audizione al Congresso ha ricordato ai politici americani che gli USA stanno vivendo due crisi: quella del debito e quella di una disoccupazione risalita al 9,2 per cento secondo i dati più recenti. Ciononostante, l’intera classe politica appare sorda e anzi ben decisa a varare misure che aggraveranno la situazione.
L’insistenza da parte di democratici e repubblicani sulla questione del deficit e dei tagli alla spesa pubblica, d’altra parte, non è altro che il riflesso di un sistema nel quale gli unici due partiti del panorama politico di Washington difendono unicamente gli interessi delle élite economiche e finanziarie del paese.
Per questi ultimi, lo smantellamento di ciò che resta dei programmi pubblici e il mantenimento di un elevato livello di disoccupazione fanno parte della medesima strategia volta a proteggere i loro profitti, comprimendo gli stipendi di decine di milioni di americani, assestando colpi mortali ad uno stato sociale traballante e distruggendo le residue garanzie rimaste ai lavoratori.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’uccisione avvenuta martedì di Ahmed Wali Karzai, fratellastro del presidente afgano, rischia di complicare i piani delle forze di occupazione americane in vista del parziale ritiro delle truppe da poco deciso dal presidente Obama. Se le ragioni della morte di uno degli uomini più potenti di tutto l’Afghanistan rimangono tuttora oscure, chiarissime e minacciose appaiono invece le conseguenze della sua scomparsa, così come ben noti erano i suoi profondi legami con gli Stati Uniti, testimonianze entrambe del fallimento dell’avventura americana nel tormentato paese dell’Asia centrale.
Come ogni giorno, anche martedì scorso Ahmed Wali Karzai stava ricevendo i residenti della provincia di Kandahar - del cui consiglio provinciale è a capo - nella sua abitazione privata. Secondo le ricostruzioni della stampa, durante la mattinata uno degli uomini più fidati del suo servizio di sicurezza, Sardar Muhammad, avrebbe chiesto di parlare in privato con Ahmed Karzai. Dopo che i due si sono ritirati in una stanza, Muhammad ha sparato al politico afgano, colpendolo due volte alla testa. Sentiti gli spari, le altre guardie della sicurezza hanno fatto irruzione nella stanza, uccidendo l’attentatore. Il corpo di quest’ultimo è stato poi esposto pubblicamente nel centro di Kandahar, secondo un macabro rituale tipico del regime talebano.
Il 40enne assassino era uno dei comandanti delle guardie del corpo di Ahmed Karzai, per il quale lavorava da circa otto anni. Entrambi gli uomini appartenevano allo stesso clan, Populzai, di cui fa parte la famiglia Karzai. Muhammad godeva della stima del suo influente datore di lavoro, tanto da scortare frequentemente suo figlio per le strade di Kandahar e da ottenere un pezzo di terra in un elegante sobborgo della città afgana. L’omicida era a capo di una squadra di un centinaio di uomini e comandava il posto di polizia nel quartiere di Kandahar dove vivono i membri della famiglia Karzai.
L’uccisione di Ahmed Karzai è stata rivendicata dai Talebani, i quali hanno affermato di aver assoldato da tempo Sardar Muhammad. La responsabilità dei Talebani appare però tutt’altro che certa. Tanto per cominciare, le testimonianze di familiari e conoscenti rilasciate ai giornali americani sembrano escludere la possibilità che Muhammad fosse un agente talebano. Opinione diffusa è piuttosto quella che ci siano state divergenze con Ahmed Karzai negli ultimi tempi e il loro rapporto si fosse incrinato irreparabilmente.
Scorrendo il profilo e i precedenti del cosiddetto “Re di Kandahar”, tuttavia, si comprende come potessero essere in molti a desiderarne la morte. Trafficanti di droga, leader di clan rivali o addirittura personalità a lui vicine in competizione per il potere potrebbero essere dietro alla sua esecuzione.
Ahmed Karzai era a capo di un sistema di potere che andava ben al di là delle sue funzioni ufficiali al vertice della provincia di Kandahar. La sua influenza si estendeva praticamente in tutto l’Afghanistan meridionale. Oltre al prestigio e all’autorità derivanti dal rapporto di sangue con il presidente afgano, Hamid Karzai, il suo indiscusso potere dipendeva in gran parte dalla ricchezza accumulata con affari e operazioni tutt’altro che trasparenti.
Grazie al pressoché totale monopolio delle operazioni di sicurezza nel sud del paese, Ahmed Karzai si era accaparrato milioni di dollari provenienti dai lucrosi appalti concessi dalle forze NATO. Da tempo inoltre il fratellastro del presidente veniva collegato al traffico di droga nella regione di Kandahar, dove aveva costruito rapporti ambigui con gli insorti talebani.
Un cablo molto esplicito dell’ambasciata americana a Kabul del giugno 2009, reso noto da Wikileaks, descrive come “il Re di Kandahar controlla l’accesso alle risorse economiche, al sistema clientelare e di protezione”. Di fatto, prosegue il documento riservato, “gran parte della gestione di Kandahar avviene al di fuori del controllo pubblico, dove AWK (Ahmed Wali Karzai) opera, parallelamente alle strutture formali di governo, tramite una rete di alleanze che utilizza le istituzioni dello stato per proteggere e facilitare attività lecite e illecite”.
Un’altra accusa mossa contro Ahmed Karzai era quella di aver favorito la rielezione del fratellastro manipolando i risultati del voto per le presidenziali dell’estate del 2009. Ahmed Karzai comandava inoltre un reparto speciale clandestino (“Kandahar Strike Force”) che partecipava alle operazioni segrete condotte dalla CIA e dalle Forze Speciali americane. Proprio dell’agenzia d’intelligence di Langley Ahmed Karzai era sul libro paga fin dal 2001, almeno secondo quanto scrisse il New York Times due anni fa citando fonti governative degli Stati Uniti.
I legami con la CIA sembrano avergli permesso di sopravvivere e di accumulare potere per anni nonostante i suoi traffici e l’opposizione di certi ambienti militari americani. Le attività illegali di Ahmed Karzai, secondo molti comandanti statunitensi in Afghanistan, rischiavano infatti di alimentare l’odio popolare contro l’occupazione NATO e il governo fantoccio di Kabul.
Nell’aprile del 2009 il generale David McKiernan, allora a capo delle forze armate americane in Afghanistan, aveva perciò chiesto ai suoi subordinati di raccogliere ogni possibile prova che legasse Ahmed Karzai al traffico di oppio. Da molti ambienti USA vennero fatte pressioni, peraltro senza successo, sullo stesso presidente afgano per rimuovere il fratellastro, anche offrendogli un incarico diplomatico all’estero.
La rassegnazione dei militari americani a collaborare con Ahmed Karzai nel sud del paese è testimoniata da una rivelazione del Washington Post del giugno 2010. Nell’articolo viene descritto come nel marzo precedente il nuovo comandante delle forze di occupazione, generale Stanley McChrystal, dopo aver valutato alcuni rapporti sulle attività illegali di Ahmed Karzai, ordinò ai comandanti ai suoi ordini di astenersi da qualsiasi critica verso il potente uomo politico afgano e di avviare piuttosto una collaborazione attiva. Questo approccio sarebbe stato successivamente fatto proprio anche dal successore di McChrystal, il generale David Petraeus da poco nominato nuovo direttore della CIA.
Il cambiamento di rotta da parte americana nei confronti di una figura così discutibile è dimostrata anche da una serie di commenti apparsi sui media d’oltreoceano a partire da martedì e nei quali si sottolinea in continuazione come Ahmed Karzai avesse cambiato registro negli ultimi mesi, mostrandosi più collaborativo con i comandanti NATO e ben deciso ad occuparsi del bene della cruciale provincia di Kandahar.
Nonostante le perplessità, gli americani hanno preferito così conservare un alleato influente e una preziosa fonte di informazioni, chiudendo un occhio sugli affari poco puliti in cui Ahmed Karzai era coinvolto. In definitiva, come ha chiesto retoricamente un anonimo funzionario americano ad un giornalista del New York Times, per Washington “sono più importanti la sicurezza e la guerra contro i Talebani o il traffico di droga e la corruzione ?”.
Questo atteggiamento opportunistico, tutt’altro che insolito per la politica estera americana, è in un certo senso la testimonianza della sostanziale sconfitta della missione afgana dopo quasi dieci anni di combattimenti. I timori espressi da più parti per il vuoto di potere causato dalla morte di Ahmed Karzai e possibili nuovi attacchi talebani a Kandahar - dove, secondo i vertici NATO, erano stati fatti significativi progressi - sono infatti la prova della fragilità di un’occupazione fondata su politici locali impopolari e corrotti.
Una strategia quella americana che ha progressivamente abbandonato i propositi di conquistare le popolazioni locali con la promessa di instaurare la democrazia e un governo privo di elementi corrotti. Di fronte all’irriducibile opposizione di gran parte dei civili afgani si è scelta alla fine la strada di un impegno relativamente più limitato, basato principalmente su sanguinose operazioni militari contro i cosiddetti insorti, senza troppi scrupoli nel collaborare con personaggi controversi come Ahmed Wali Karzai.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il Parlamento israeliano ha approvato in via definitiva una nuova legge che comprime la libertà di espressione nel paese e legittima gli insediamenti nei territori occupati, ritenuti illegali secondo il diritto internazionale. La “Knesset” ha infatti licenziato nella giornata di lunedì un provvedimento che trasforma in reato civile il solo appello al boicottaggio contro lo stato di Israele e i suoi insediamenti.
Quello che per gli oppositori della nuova legge non è altro che un ulteriore passo verso una preoccupante deriva anti-democratica di Israele, è stato approvato con 47 voti a favore e 38 contrari. La misura, definita “Boycott Prohibition Law”, colpirà chiunque inviterà al boicottaggio economico, culturale e accademico dello stato di Israele, delle sue istituzioni e di qualsiasi area sotto il suo controllo. Una definizione quest’ultima che fa riferimento agli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati.
Nelle dichiarazioni ufficiali, gli esponenti della maggioranza hanno sostenuto che la legge sarà uno strumento per combattere la campagna di delegittimazione in atto nei confronti di Israele. Una delegittimazione agli occhi del mondo che il governo israeliano contribuisce peraltro ad autoinfliggersi, come confermano iniziative come quella appena approvata.
Ad ogni modo, coloro che violeranno la nuova legge potranno andare incontro a sanzioni economiche, mentre aziende o organizzazioni che sosterranno un boicottaggio saranno a rischio di esclusione dalle aste per gli appalti pubblici. Allo stesso modo, le ONG potranno perdere i benefici fiscali di cui godono attualmente.
A presentare il testo di legge in Parlamento è stato il deputato Ze’ev Elkin del partito del premier Netanyahu (Likud), uscito dalla formazione centrista Kadima nel 2008 perché trasformatasi ormai, a suo parere, in un partito “di sinistra”. Alla votazione di lunedì erano assenti sia lo stesso Netanyahu che il ministro della Difesa Ehud Barak e altri esponenti di spicco del governo.
Le discussioni sull’opportunità di presentare una misura di questo genere erano state molto accese alla vigilia del voto. Lo speaker della Knesset, Reuven Rivlin del Likud, aveva ad esempio espresso non poche perplessità sui contenuti della legge e alcuni suoi emendamenti per attenuarne l’impatto sono stati poi bocciati in aula. Ancora più ferma era stata l’opposizione del consigliere legale del parlamento, Eyal Yinon, il quale aveva definito la legge al limite della costituzionalità e affermato senza mezzi termini che avrebbe minato la libertà di espressione.
Nonostante l’assenza, Netanyahu aveva dato il suo pieno appoggio alla legge. Nella giornata di domenica, il primo ministro si era incontrato con lo stesso Rivlin e il primo firmatario del provvedimento, il deputato Elkin, per discuterne il percorso parlamentare. Liquidando gli avvertimenti del vice-premier, Dan Meridor, per possibili ripercussioni negative sulla riunione del cosiddetto Quartetto per la pace in Medio Oriente (USA, UE, Russia e Nazioni Unite), andata in scena proprio lunedì a Washington, il capo del governo israeliano alla fine non ha riscontrato alcun motivo per ritardare il voto in Parlamento.
Gli appelli al boicottaggio di Israele e delle sue compagnie - in particolare quelle operanti nei territori occupati - si sono moltiplicati negli ultimi anni e hanno avuto come protagonisti sia palestinesi che attivisti israeliani. Numerosi artisti e intellettuali stranieri si sono poi rifiutati di esibirsi o tenere conferenze in Israele per protestare contro la politica di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi. L’indignazione a livello internazionale era cresciuta soprattutto in seguito all’assalto condotto dalle forze di sicurezza israeliane nel maggio del 2010 contro sei navi di attivisti dirette a Gaza per rompere l’assedio nella Striscia e che fece nove morti.
Sul fronte interno, gli appelli al boicottaggio sono stati spesso clamorosi. Lo scorso anno, ad esempio, un gruppo di artisti di teatro si rifiutò di esibirsi in un nuovo centro culturale costruito nell’insediamento illegale urbano di Ariel, in Cisgiordania centrale. Successivamente, molti altri accademici, scrittori e intellettuali israeliani hanno scelto di disertare corsi e lezioni ad Ariel e in altri insediamenti della Cisgiordania.
A rendere ancora più insensata la legge sul boicottaggio sono le modalità con cui dovrà essere applicata. Secondo il testo del provvedimento, infatti, non sarà necessario provare che un appello al boicottaggio abbia provocato effettivi danni allo stato o a un’istituzione di Israele, bensì sarà sufficiente ipotizzare eventuali danni derivanti da un invito al boicottaggio. Su questa ipotesi un tribunale dovrà valutare potenziali danni economici e imporre un risarcimento.
Contro la legge si sono scagliate le associazioni israeliane per i diritti civili, che hanno immediatamente annunciato un ricorso alla Corte Suprema per chiederne l’annullamento. Secondo il direttore dell’Associazione per i Diritti Civili in Israele, Hagai El-Ad, questa misura “rappresenta l’apice di una deplorevole ondata di leggi anti-democratiche che sta progressivamente compromettendo le fondamenta democratiche di Israele”.
Le conseguenze negative per l’immagine del paese sono state sottolineate, tra gli altri, dal deputato del partito di centro-sinistra Meretz, Nitzan Horowitz, per il quale la legge è un motivo di “imbarazzo per la democrazia israeliana. In tutto il mondo ci si chiederà se esiste veramente una democrazia nel nostro paese”.
Il deterioramento del clima politico in Israele è andato di pari passo con il crescente disagio della comunità internazionale nei confronti dell’unico (presunto) paese democratico del Medio Oriente. Un’evoluzione che sta portando a sempre più drastiche restrizioni della libertà di espressione e di critica verso il governo, di cui il “Boycott Bill” ne è appunto un esempio.
Come ha sottolineato un duro editoriale del quotidiano Haaretz, la nuova legge dipinge come “atto criminale ogni boicottaggio, petizione o articolo di giornale… I legislatori cercano di cancellare una delle forme più legittime di protesta democratica e di restringere la libertà di espressione e di associazione di quanti si oppongono alla violenza dei coloni”.
“Molto presto”, prosegue l’editoriale della testata progressista israeliana, “ogni dibattito politico verrà messo a tacere. I membri della Knesset che hanno votato per questa legge appoggiano il soffocamento delle proteste nel quadro di uno sforzo teso a liquidare la democrazia. Iniziative di questo genere vengono vendute come necessarie per proteggere Israele ma, in realtà, non fanno altro che aggravare l’isolamento internazionale del Paese”.