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di Alessandro Iacuelli
Si avvicina la data della nuova invasione di gas russo in Europa settentrionale. Infatti il prossimo 8 novembre entrerà in funzione la prima pipeline facente parte di Nordstream, il gasdotto che collegherà direttamente la Russia alla Germania passando sotto il Mar Baltico. L’ha annunciato l'amministratore delegato di Gazprom, Alexey Miller, in un incontro con il premier Vladimir Putin nella sua residenza di Novo-Ogariovo, alle porte di Mosca. Già lo scorso 6 settembre, Putin aveva avviato la fase di test finale di Nordstream, iniettando il primo gas tecnico a Viborg, nella regione di S.Pietroburgo, alla presenza dell'ex cancelliere tedesco, ed ora presidente del consorzio Nordstream, Gerhard Schroeder.
Il gasdotto, lungo 1224 km, avrà a regime una capacità di 55 miliardi di metri cubi di gas all'anno. La nuova infrastruttura consentirà alle forniture di metano russo destinato all'Europa di bypassare in parte gli attuali Paesi di transito, tra cui Bielorussia e Ucraina, con cui i rapporti sono spesso conflittuali in materia energetica, come dimostrano le varie "emergenze gas" degli scorsi anni.
Oltre alla messa in funzione di Nordstream, entro dicembre 2015 il progetto dell'altro grande gasdotto, Southstream, sarà completato e saranno effettuate le prime forniture di gas commerciale ai consumatori: lo ha confermato lo stesso Miller a Vladimir Putin. Per quanto riguarda Southstream, che interessa maggiormente l'Italia, lo scorso 16 settembre, a Soci, sul Mar Nero, è stato firmato l'accordo per la realizzazione del progetto: Gazprom ha mantenuto il 50%, Eni è scesa al 20% consentendo l'ingresso della francese Edf e della tedesca Wintershall, facente parte del gruppo Basf, ciascuna con il 15%.
Questa rapida accelerazione da parte di Gazprom, e non solo visto che si tratta di un'azienda facente capo non a gruppi privati ma direttamente al Governo russo, nei lavori delle grandi pipeline che forniscono l'Europa, è dovuto a due importanti fattori. Non solo commerciali, ma forse soprattutto politici. Tanto per cominciare, Gazprom ha assunto in Europa una posizione non solo predominante, sul mercato del gas, ma che per certi versi può già essere considerata monopolista. Questo ha indotto la Commissione Europea ad aprire un'indagine sulle attività in Europa del colosso nazionale del gas Gazprom. Indagine sfociata, la scorsa settimana, in alcune perquisizioni.
Le ispezioni europee negli uffici delle società del settore gas naturale in Europa, nel quadro di un'indagine che prende di mira soprattutto Gazprom, si sono svolte assolutamente a sorpresa. Il gruppo aveva rivelato di aver subito perquisizioni martedì scorso "in vari paesi europei", in particolare in Germania e in Repubblica Ceca. Secondo una fonte europea il gruppo russo è nel mirino di Bruxelles per sospetti accordi di spartizione dei mercati e di restrizioni territoriali, pratiche contrarie alle norme UE sulla concorrenza. Da parte europea, la Commissione si è limitata ad affermare in una nota che l'indagine è "su possibili pratiche anticoncorrenziali nella fornitura di gas naturale in Europa centrale e orientale".
Le perquisizioni, effettuate dalla direzione generale per la Concorrenza della Commissione europea negli uffici di alcune sue controllate in Europa sono state definite da Miller "una spiacevole sorpresa". Parlando con il premier Vladimir Putin, Miller ha assicurato che la società "è sempre stata e continua ad essere aperta al dialogo" e che "rispetterà pienamente i propri impegni contrattuali verso i partner europei in conformità ai contratti esistenti". L'AD del colosso del gas ha auspicato nello stesso tempo "il rispetto degli interessi legittimi di Gazprom", riservandosi di "tutelare i propri diritti nel campo giudirico".
Sull’argomento, Putin ha preferito ironizzare: "Spero che in Europa per i contratti con Gazprom non abbiano arrestato nessuno e non abbiano messo nessuno in prigione". In realtà il governo russo segue con molta attenzione l'indagine dell'UE sulle attività in Europa di Gazprom. Dopo l'ironia un po' in spirito berlusconiano, Putin ha aggiunto: "Il governo seguirà con molta attenzione tutto ciò che accade intorno a Gazprom. Vi chiedo di riferirmene tempestivamente. Dovete collaborare con le autorità dei paesi dove siete presenti, e dovete essere aperti, aiutare le autorità ispettive e fornire loro informazioni complete e imparziali".
In risposta ai controlli della UE, Gazprom tenta di difendere le quote di mercato in Europa centrale con grandi gasdotti che rendano vantaggioso il trasporto del metano dalla Russia. Ma c’è un secondo fronte ad impensierire il Cremlino ed è legato alla regione del Mediterraneo. La Turchia ha infatti deciso di non rinnovare il contratto sulla fornitura di gas russo di 6 miliardi di metri cubi di gas all'anno dopo che Gazprom, la principale compagnia di estrazione russa, ha rifiutato di applicare uno sconto del 20% richiesto da Ankara.
Lo ha reso noto Botas, la società pubblica turca di trasporto del gas, aggiungendo che da questo mese i prezzi del gas aumentano quasi del 15% a causa della moneta debole e degli aumenti dei prezzi sui mercati. Il gas per consumo domestico aumenterà fra il 12,3 e il 14,3%, quello per consumo industriale fra il 13,7 e il 14,3%. Il contratto disdetto era stato firmato nel 1986 e sarebbe scaduto a dicembre.
La Turchia ha invece detto no al rinnovo di altri 5 anni. Con la cancellazione la Turchia perde forniture per il 15% circa dei suoi consumi. Il ministro dell'Energia turco, Taner Yildiz, ha sottolineato che la decisione non avrà conseguenze sui rapporti fra i due Paesi. Ankara ha importato 18 miliardi di metri cubi dalla Russia lo scorso anno, il 60% dei consumi, per la maggior parte provenienti proprio dal South Stream. Non è ancora chiaro chi andrà a rimpiazzare Gazprom, anche se l'algerina Sonatrach appare al momento avvantaggiata sul mercato.
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di Michele Paris
Il Segretario alla Difesa statunitense, Leon Panetta, un paio di giorni fa ha lanciato un avvertimento al governo israeliano, mettendolo in guardia dal progressivo isolamento a cui è esposto nella regione mediorientale. Le dichiarazione del numero uno del Pentagono sono state rilasciate domenica ai giornalisti che lo accompagnavano a bordo di un aereo militare americano, diretto verso la prima destinazione di un tour che lo porterà a Tel Aviv, Il Cairo e Bruxelles. “È sufficientemente chiaro che in un momento così drammatico per il Medio Oriente, nel quale sono avvenuti parecchi cambiamenti, per Israele non è opportuno cadere in un progressivo isolamento, anche se ciò è quello che sta accadendo”, ha sostenuto Panetta.
L’ex direttore della CIA ha fatto riferimento alle relazioni sempre più complicate di Israele con gli ex alleati di ferro Turchia ed Egitto, così come agli effetti delle rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo dall’inizio dell’anno. Oltre a questi fattori, l’isolamento israeliano è dovuto in buona parte anche al continuo stallo nei negoziati di pace con i palestinesi e al tentativo di questi ultimi di vedersi riconosciuta dall’ONU una propria entità statale. Un’iniziativa bocciata non solo da Tel Aviv ma anche dal governo americano, a fronte dell’ampio sostegno raccolto invece tra le popolazioni arabe.
I rapporti con la Turchia si sono incrinati notevolmente dopo l’assalto del maggio 2010 delle forze di sicurezza israeliane ad un convoglio navale di attivisti turchi diretto a Gaza, conclusosi con nove vittime. Le tensioni sono poi aumentate recentemente in seguito alle conclusioni dell’indagine condotta dall’ONU sui fatti e che, pur giustificando il blocco israeliano di Gaza, ha condannato duramente il blitz.
Per quanto riguarda l’Egitto, il governo militare succeduto a Hosni Mubarak si sta mostrando più ostile nei confronti di Israele, assecondando almeno parzialmente i sentimenti della maggior parte della popolazione. Egitto e Israele sono tuttora legati da un trattato firmato nel 1979 tra il presidente Sadat e il premier Begin, in seguito agli accordi di Camp David dell’anno precedente. Un trattato fondamentale per la sicurezza israeliana e che il futuro governo civile egiziano potrebbe però rimettere in discussione.
A complicare la situazione tra Egitto e Israele è stato poi il recente assalto all’ambasciata di Tel Aviv al Cairo, dove manifestanti anti-israeliani sono stati fermati solo dopo aver fatto irruzione nell’edificio e minacciato il personale diplomatico. L’intervento delle forze di sicurezza egiziane era avvenuto su richiesta dello stesso Panetta, sollecitato dal ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak.
Dalle parole del capo del Pentagono, in ogni caso, traspare solo una velata critica nei confronti dell’alleato e delle politiche portate avanti dal suo governo. Per Panetta, infatti, sono in gran parte gli eventi della regione ad aver determinato un crescente isolamento di Israele, le cui gravi responsabilità sono ovviamente taciute. I suoi timori, inoltre, sono dettati dalla possibilità che il vento della primavera araba si propaghi anche nei territori palestinesi, alimentando ulteriore instabilità nella regione.
“Ci sono molti motivi di attrito in questo momento di grandi cambiamenti”, ha sostenuto il Segretario. “La cosa più importante per Israele e per i suoi vicini sarebbe provare a coltivare relazioni amichevoli, in modo che tra di loro, quanto meno, potrebbe esserci un dialogo invece di portare in piazza qualsiasi questione”.
Il messaggio lanciato da Panetta sembra rivelare inoltre una certa impazienza per l’atteggiamento di Tel Aviv sulla questione palestinese. L’amministrazione Obama, d’altra parte, ha dovuto investire parecchio del proprio capitale politico con l’annuncio del veto per bloccare la richiesta fatta al Consiglio di Sicurezza ONU da parte dell’Autorità Palestinese per il riconoscimento del nuovo stato.
In questo senso una risposta da parte del governo Netanyahu è giunta proprio domenica, con l’accettazione della proposta dei mediatori internazionali di far ripartire immediatamente i negoziati di pace, dopo che le autorità palestinesi avevano a loro volta espresso parere favorevole. La ripresa dei colloqui appare comunque ancora ben lontana, dal momento che non si vedono all’orizzonte ipotesi percorribili per risolvere questioni cruciali come la cessazione delle costruzioni nei territori occupati e il riconoscimento di Israele come “stato ebraico”.
Il richiamo di Panetta a Israele, infine, può essere indicativo dei malumori che circolano anche ai massimi livelli dell’amministrazione Obama nei confronti di un alleato le cui politiche appaiono sempre più dannose per l’immagine e gli interessi statunitensi. Con la campagna per la rielezione alle porte, tuttavia, come dimostra il suo intervento all’Assemblea Generale dell’ONU, il presidente democratico sembra essere tutt’altro che disposto a provocare la reazione delle potenti lobbies israeliane negli USA facendo ulteriori pressioni sul governo Netanyahu.
La prima sosta del tour di Panetta prevede proprio Israele e un faccia a faccia con il premier, prima di incontrare Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ufficialmente per spingere le due parti a riprendere i negoziati di pace. Il Segretario alla Difesa americano farà poi tappa al Cairo, dove sarà ospite del capo della giunta militare al potere, Mohammed Hussein Tantawi, e successivamente a Bruxelles, presso il quartier generale della NATO.
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di Emanuele Vandac
Sanguisughe che campano con il denaro dei contribuenti e distruggono l’economia: così definirebbero le banche d’affari molte delle settecento persone arrestate ieri a New York nel corso delle manifestazioni contro l’“ingordigia di Wall Street”. Segno che, mentre gli USA si apprestano ad affondare nella seconda crisi sistemica in quattro anni, la rabbia popolare tenta di prendere forma e di organizzarsi. Sfortunatamente, almeno all’inizio della mobilitazione “Occupiamo Wall Street”, i numeri non sono stati molto incoraggianti: il week end del 17 settembre, che ha dato la stura all’occupazione pacifica di Wall Street, non si sono viste a New York più di cinquemila persone, contro le 20.000 sulle quali si contava.
Non erano più di un migliaio secondo Bloomberg, ma questa è una fonte che tutto è fuorché indipendente, dato il suo doppio conflitto di interesse, essendo una delle principali agenzie di stampa finanziarie al mondo ed in più controllata dall’attuale Sindaco di New York (a proposito della finanza americana).
Il fine settimana successivo i manifestanti sono aumentati e si è registrato il primo incidente: un alto funzionario della Polizia, Antony Bologna, viene immortalato da una videocamera amatoriale mentre si diverte a spruzzare spray al peperoncino sulla faccia di alcuni manifestanti stretti su un marciapiedi da un cordone di poliziotti (in massima parte si trattava di “pericolosissime” ragazze in canottiera). Bologna è attualmente inquisito dagli Affari Interni, mentre il trattamento inutilmente violento della polizia non fa che aiutare il movimento e rafforzare la consapevolezza.
Sabato 1 ottobre, in prossimità del ponte di Brooklyn, migliaia di manifestanti si sono staccati dal gruppo con l’intenzione di occupare con la forza (a piedi) le corsie normalmente utilizzate dagli autoveicoli. La polizia sostiene di aver intimato ai manifestanti di desistere, incontrando la resistenza attiva degli oppositori delle banche, che avrebbero proseguito la loro marcia. I manifestanti, invece, sostengono che la polizia li abbia caricati con l’obiettivo di chiuderli in una sacca dove li attendevano migliaia di agenti. In ogni caso, sul ponte di Brooklyn vengono arrestate oltre 700 persone, tra cui una reporter del New York Times, la maggior parte delle quali rilasciate dopo qualche ora previa denuncia per interruzione di pubblico servizio.
Grazie all’escalation, la protesta ha finalmente ottenuto l’attenzione dei media: spiega infatti il sociologo Richard Meyer, esperto di movimenti sociali americani, che gli atti eclatanti come quelli che hanno animato la giornata di sabato rispondono alla domanda dei membri del movimento più esperti di tecniche mediatiche: “Come fare notizia senza passare dalla parte del torto?”. L’atteggiamento della polizia, così ben esemplificato dalla condotta di Antony Bologna e dagli arresti di massa, da questo punto di vista è stata una benedizione. Come spiega Shannon Deegan, informatica ventottenne in trasferta dalla mitica Seattle, il movimento ha compreso che, aldilà della frustrazione causata dall’(inevitabile) repressione, “gli arresti ci hanno dato visibilità: la gente ci sta guardando, comprende le nostre ragioni”.
In effetti duole constatare come l’occupazione più o meno simbolica di Wall Street non abbia scaldato particolarmente i cuori delle star (attori, musicisti, artisti), anche di quelle più liberal. A parte l’inevitabile Michael Moore e Susan Sarandon, che si sono fermati a farsi fare qualche foto ricordo con i ragazzi dello Zuccotti Park, non sono molti gli artisti che hanno prestato il loro corpo e la loro arte alla causa.
Sembra che le superstar si tengano nascoste in trincea proprio perché temono la reazione dell’establishment ad una possibile loro presa di posizione netta contro gli eccessi della “corporate & finance America”. Il che, per inciso, non fa che dimostrare quanto giusto e soprattutto necessario sia oggi falciare l’erba malvagia della speculazione finanziaria, che pretende di dettare legge su tutti gli aspetti della vita della gente, compresi quelli che attengono alla sfera culturale.
Tuttavia alcuni studiosi e sociologi rimangono scettici sul futuro di questo embrione di movimento: non v’è dubbio che, se si rafforzasse e assumesse una forma strutturata, potrebbe aiutare Obama alle elezioni dell’anno venturo. Anche se c’è chi come Terry Madonna, sondaggista e insegnante di scienze politiche al Franklin & Marshall College in Lancaster (Pennsylvania), ritiene che il cuore del dibattito politico continuerà ad essere l’economia: solo se la disoccupazione comincerà a calare, e salirà ad esempio la propensione al consumo, il tema della riforma del sistema finanziario americano potrà guadagnare importanza: prima di allora rischia di essere confinato sullo sfondo.
Se quanto sostiene il prof. Madonna fosse confermato, si avrebbe solo una prova in più di quanto siano abili gli spin doctor della finanza a far credere che le vere cause del (secondo) disastro dell’economia siano lontano dagli uffici degli sconsiderati e arroganti manager-parassiti di Wall Street.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Parlamentari che, di lavoro, fanno solo politica: detta così potrebbe sembrare fantascienza, o piuttosto un’antiquata e logora utopia, eppure qualcuno comincia a crederci davvero, anche tra chi ha voce in capitolo. Secondo a quanto scrivono alcuni autorevoli quotidiani tedeschi, i socialdemocratici (SPD), una delle maggiori forze politiche in Germania, stanno valutando la possibilità di impedire qualsiasi attività professionale secondaria ai membri del Parlamento, in modo tale da garantire più qualità alla democrazia.
L’idea è del gruppo di lavoro “AG Demokratie”, composto da 16 membri SPD del Parlamento, ed è inserita in un contesto più ampio di proposte per raggiungere una reale trasparenza nella res politica. A pubblicare lo scritto formale di “AG Demokratie” è stato il quotidiano Die Welt qualche giorno fa: la mozione sarà presentata ufficialmente al congresso dei socialdemocratici 2011, per essere rivista e approvata, ed entrare così a far parte del programma politico SPD.
Il comitato di lavoro chiede innanzitutto la sospensione totale delle entrate secondarie dei parlamentari, così come delle attività remunerate e non, che possano intaccarne l’integrità politica. Nel centro del mirino, in particolare, la partecipazione dei politici a organi direttivi di comunicazione: impedire tali connessioni farebbe “crescere la libertà di critica” all’interno del Paese ed “eliminerebbe alla radice il problema dell’influenza impropria sui media”.
Altro pericolo per l’indipendenza delle decisioni politiche sono i finanziamenti ai partiti da parte di imprese, enti e associazioni varie: “AG Demokratie” chiede che tali sostegni vengano proibiti, o comunque regolati e monitorati pubblicamente. Va da sé che un partito sponsorizzato rischia di assoggettare gli interessi del cittadino alle possibilità economiche del gruppo economico che lo sostiene. A essere messe in discussione sono le pari opportunità dei vari gruppi di interesse, le cosiddette lobby: chi ha più soldi fa valere il proprio ascendente sulla politica grazie ai finanziamenti della stessa.
Ed è a questo proposito che i socialdemocratici vedono la necessità di stilare un “registro delle lobby”: per valutare meglio le mosse dei politici, i cittadini dovrebbero sapere chi finanzia chi. Un registro pubblico dei finanziamenti ai partiti e ai singoli politici renderebbe possibile a ogni singolo tedesco una comprensione più ampia della politica.
Per il momento rimangono comunque tutte proposte, in pratica solo chiacchiere, poiché i primi sviluppi concreti si vedranno eventualmente solo a dicembre, durante il congresso di partito SPD che dovrà rivedere e approvare formalmente lo scritto. Una riforma dell’ambito dei finanziamenti a politici e partiti tedeschi era già stata discussa a livello parlamentare ad aprile, ma non aveva portato nessun cambiamento effettivo: lo scritto di “AG Demokratie” va quindi a riaprire un dibattito che rischiava di essersi spento nei meandri della capricciosa estate berlinese.
Obbligo di trasparenza per le lobby, attività secondarie di politici e finanziamenti ai partiti sono temi che si trascurano facilmente, soprattutto quando chi governa conta fra i partiti maggiormente accusati di lobbysmo. Da ammirare i socialdemocratici, perché sanno sfruttare il loro ruolo all’opposizione: riaprire in maniera intelligente un dialogo politico caduto nel vuoto è forse il modo migliore per fare politica.
Tant’è vero che già numerosi gruppi politici stanno già organizzando le prime manifestazioni in questa direzione. “Perché l’esperienza insegna che non bastano le belle parole dei partiti“, spiegano dal sito lobbycontrol.de. “C’è sempre bisogno della presenza e della pressione pubblica, anche solo per fare qualche piccolo passo in avanti.”
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di Michele Paris
Il Ministero della Difesa yemenita venerdì mattina ha annunciato l’uccisione sul proprio territorio del predicatore estremista islamico Anwar al-Awlaki. Nato negli Stati Uniti, Awlaki era da tempo sulla lista nera di Washington con l’accusa di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Yemen e di essere coinvolto in numerosi attentati terroristici in Occidente. Nato nel 1971 in Nuovo Messico, dove il padre stava completando un master universitario, Awlaki era finito nel mirino della sicurezza statunitense in seguito alle sue accese prediche on-line inneggianti alla jihad. Grazie al suo inglese fluente e alla cittadinanza americana, sembrava essere diventato uno strumento importante per la propaganda di Al-Qaeda, contribuendo a diffondere l’ideologia integralista, incitando attacchi terroristici e reclutando nuovi affiliati nei paesi occidentali.
La sua morte è stata subito confermata dalla Casa Bianca, anche se inizialmente le circostanze dell’operazione non apparivano del tutto chiare. Il network saudita Al Arabiya, citando fonti tribali, aveva per primo affermato che un gruppo di veicoli - su uno dei quali stava viaggiando Awlaki - era stato colpito da due missili sparati da un drone statunitense in una provincia dello Yemen settentrionale. Successivamente è arrivata anche la conferma di Washington che Awlaki è finito vittima del fuoco americano.
Oltre al bersaglio principale, nell’attacco sarebbero state uccise alcune guardie del corpo e, soprattutto, un secondo cittadino americano, il 25enne nativo dell’Arabia Saudita Samir Khan, direttore del magazine on-line di Al-Qaeda in lingua inglese, Inspire. Ad annunciarlo è stato un comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale yemenita, SABA, confermato da un funzionario del governo americano alla Associated Press.
La CIA conduce da tempo operazioni teoricamente segrete con i droni in territorio yemenita. Obiettivo frequente di queste incursioni era proprio il predicatore di origine americana, il quale già in due precedenti occasioni era stato dato per morto: nel dicembre del 2009 e nel novembre dell’anno successivo. Lo scorso 5 maggio, infine, ad una manciata di giorni dall’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan, Awlaki era sfuggito all’ennesimo blitz americano che uccise invece altri due presunti affiliati ad Al-Qaeda.
Anche in questa occasione, poche ore dopo l’annuncio del governo yemenita, si sono diffuse alcune voci che hanno smentito l’uccisione di Awlaki. In particolare, l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha citato un’intervista telefonica del fratello, il quale avrebbe affermato che Awlaki non faceva parte del convoglio colpito venerdì. La smentita, in ogni caso, appare questa volta come una semplice operazione di propaganda.
Le autorità americane avevano messo in relazione Anwar al-Awlaki con svariate trame terroristiche nel recente passato. La responsabilità di quest’ultimo sarebbe stata più che altro di essere una fonte di ispirazione per gli attentatori, i quali avevano spesso soggiornato in Yemen per essere presumibilmente addestrati e indottrinati dagli uomini di Al-Qaeda.
Tra gli episodi collegati ad Awlaki c’è la sparatoria del novembre 2009 presso la base militare di Fort Hood, in Texas. In quell’occasione, il maggiore Nidal Malik Hasan, psichiatra dell’esercito americano, uccise 13 persone e, secondo le indagini, avrebbe scambiato e-mail con Awlaki poco prima della strage.
Awlaki avrebbe poi fornito un qualche appoggio sia al giovane nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, che il giorno di Natale del 2009 tentò di far esplodere in volo un aereo della Northwestern Airlines partito da Amsterdam e diretto a Detroit, sia a Faisal Shahzad, protagonista di un fallito attentato con un’autobomba a Times Square nel maggio 2010.
L’amministrazione Obama lo scorso anno aveva incluso Anwar al-Awlaki in un elenco di presunti terroristi che avrebbero potuto essere colpiti dalla macchina da guerra americana in qualsiasi momento. Il presidente democratico era giunto in questo modo dove nemmeno l’amministrazione Bush aveva osato arrivare nella “guerra al terrore”. La semplice designazione di “terrorista globale” è infatti diventata sufficiente a segnare la sorte di un sospettato, senza che l’accusa sia supportata da prove e senza passare attraverso un qualsiasi meccanismo legale.
Il caso di Awlaki era poi ancora più clamoroso, dal momento che il presunto numero uno di Al-Qaeda in Yemen possedeva appunto un passaporto americano. La sua presenza sulla lista nera del governo di Washington era stata perciò oggetto di una denuncia, senza successo, da parte del padre di fronte ad un tribunale statunitense. L’esecuzione extra-giudiziaria di Awlaki in Yemen è stata così portata a termine nonostante nessuna accusa formale sia mai stata sollevata nei suoi confronti negli Stati Uniti né, tanto meno, sia mai stata emessa una sentenza di condanna a suo carico.
L’uccisione di Anwar al-Awlaki segna inoltre una inquietante escalation nella guerra globale al terrore degli Stati Uniti. L’allargamento del fronte allo Yemen era peraltro annunciato da tempo. Lo scorso mese di giugno, una fonte anonima dell’intelligence a stelle e strisce aveva rivelato alla stampa l’avvio della costruzione di una base CIA in una località imprecisata del Medio Oriente, proprio per operare in maniera più efficace le incursioni con i droni in Yemen e colpire la divisione di Al-Qaeda operante nella penisola Arabica (AQAP).
A luglio, poi, il neo-segretario alla Difesa ed ex direttore della CIA, Leon Panetta, aveva confermato che uno degli obiettivi primari della strategia anti-terrorismo degli USA era precisamente la rimozione, cioè l’assassinio deliberato, di Ayman al-Zawahri - il successore di Osama bin Laden al vertice di Al-Qaeda - e dello stesso Awlaki.
Il rinnovato impegno degli americani in Yemen è giunto in corrispondenza della rivolta popolare contro il regime autoritario del presidente Ali Abdullah Saleh, da sempre fedele alleato di Washington. Il caos che sta attraversando l’impoverito paese arabo viene di fatto sfruttato dagli Stati Uniti per intensificare la loro presenza in un’area strategicamente molto importante.
L’eventuale caduta del regime di Saleh, infatti, alimenterebbe i timori americani per una transizione fuori controllo in un paese che si affaccia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, all’imbocco del Mar Rosso, dove transitano quotidianamente più di tre milioni di barili di greggio destinati al mercato internazionale.
Gli interessi USA devono essere così difesi ad ogni costo, anche per mezzo di operazioni militari dalla dubbia legalità, per fermare una minaccia terroristica la cui portata appare tutta da dimostrare.