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di Michele Paris
Nelle ultime settimane, un diverso atteggiamento sembra caratterizzare i governi che partecipano all’aggressione militare contro la Libia. Alla luce dell’impossibilità di rovesciare il regime di Tripoli tramite bombardamenti e aiuti di dubbia legalità agli insorti di Bengasi, le maggiori potenze della NATO sono cioè alla ricerca di una nuova exit strategy che pare non prevedere più necessariamente l’allontanamento dal paese di Gheddafi.
Le prime indicazioni di una possibile trattativa in corso per una soluzione diplomatica erano giunte lo scorso 11 luglio quando, in un’intervista rilasciata al quotidiano algerino El Khabar, Seif al-Islam Gheddafi, aveva rivelato che il suo governo stava negoziando con la Francia e non con i ribelli. Il figlio del rais aveva aggiunto che il presidente Sarkozy era stato molto chiaro circa le capacità di Parigi di imporre il proprio volere agli insorti. L’inquilino dell’Eliseo aveva infatti riferito all’inviato di Tripoli che erano stati i francesi a creare il Consiglio dei ribelli, il quale “senza il nostro appoggio, il nostro denaro e le nostre armi, non sarebbe mai esistito”.
Nonostante il governo francese si fosse affrettato a sostenere che con Tripoli vi erano solo contatti e non vere e proprie discussioni, il Ministero della Difesa di Parigi aveva esortato pubblicamente il Consiglio dei ribelli a trattare con Gheddafi. A conferma che una qualche trattativa era in corso da tempo, il 12 luglio Le Monde aveva rivelato che, circa un mese prima, Sarkozy aveva incontrato il capo di gabinetto di Gheddafi, Bachir Saleh.
Sul ruolo di Gheddafi in un’eventuale trattativa, il Ministro della Difesa francese, Gerard Longuet, aveva poi affermato che i colloqui potevano avvenire a patto che “[Gheddafi] fosse in una diversa stanza del suo palazzo con una diversa carica”. In quell’occasione era giunto un immediato messaggio di disappunto da parte del Dipartimento di Stato americano, chiaramente poco disposto ad un simile compromesso.
Anche da parte del governo di Tripoli erano state mostrate simili aperture. Il primo ministro Baghdadi al-Mahmudi aveva infatti confermato a Le Figaro che “la Guida [Gheddafi] non avrebbe preso parte ai colloqui” con i ribelli. Ancora più chiaramente, il 20 luglio il Ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, nel corso di un’intervista ad un canale televisivo aveva ribadito che le potenze occidentali erano pronte ad acconsentire alla permanenza in Libia di Gheddafi, a condizione del suo ritiro dalla guida del governo.
Sulla posizione francese sembrano essere ora confluiti finalmente anche Gran Bretagna e Stati Uniti, i cui governi hanno evidentemente preso atto dell’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi in Libia con i soli bombardamenti. Lunedì scorso, così, il Ministro degli Esteri britannico, William Hague, proprio nel corso di un meeting a Londra con il suo omologo transalpino, ha spiegato che il destino di Gheddafi dipenderà dalla volontà del popolo libico. Solo poche ore più tardi gli ha fatto eco da Washington il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, secondo il quale la permanenza in Libia di Gheddafi deve essere decisa dai libici.
L’inversione di rotta appare notevole, alla luce delle critiche inizialmente rivolte da entrambi i paesi alla Francia per aver mostrato eccessiva flessibilità nei confronti di Tripoli. Sia per la Gran Bretagna che per gli USA, la rinuncia al potere di Gheddafi e il suo allontanamento dalla Libia fino a poche settimane fa apparivano infatti come condizioni necessarie per la fine delle operazioni militari e l’avvio di negoziati di pace.
Ad influire sul cambiato atteggiamento di Washington e Londra - e, ancor prima, di Parigi - è dunque la realtà sul campo. Dopo aver tentato di assassinare Gheddafi in più occasioni, incoraggiato defezioni da parte di esponenti di spicco del suo governo e fomentato senza successo un colpo di stato interno al regime, le potenze NATO sembrano aver deciso di percorrere la via diplomatica.
Sulla decisione pesa anche l’impopolarità in Occidente della guerra contro la Libia, alimentata dal continuo stallo delle operazioni. Secondo un resoconto pubblicato mercoledì dal quotidiano inglese The Independent, infatti, il regime di Tripoli controlla oggi il 20 per cento in più di territorio libico rispetto ai giorni immediatamente successivi all’esplosione della rivolte a metà febbraio.
L’ammorbidimento della posizione di Hague, inoltre, riflette forse anche i malumori dello stato maggiore britannico per un conflitto che viene visto come una distrazione dal fronte afgano e uno spreco di risorse proprio mentre il governo sta adottando misure di austerity senza precedenti sul fronte domestico.
Da Tripoli, intanto, arrivano invece segnali di un qualche irrigidimento, conseguenza probabilmente di una maggiore confidenza da parte del regime di poter sopravvivere all’offensiva NATO. Mentre un mese fa il governo libico aveva offerto un cessate il fuoco senza condizioni, facendo intendere che Gheddafi era pronto a lasciare, oggi viene richiesta la fine dei bombardamenti come condizione preliminare per iniziare un qualsiasi dialogo.
L’offerta a Gheddafi di abbandonare il ruolo di guida del paese sembra essere stata fatta dai diplomatici americani agli emissari del governo libico nel corso di un incontro avvenuto a Tunisi il 16 luglio scorso. La proposta è vincolata all’accettazione di essa da parte dei ribelli di Bengasi, dai quali giungono però segnali contraddittori. Mercoledì, ad esempio, la Reuters ha citato una dichiarazione del leader del Consiglio Nazionale di Transizione, Mustafa Abdel-Jalil, nella quale si afferma che l’offerta americana è ormai da ritenersi superata.
I nuovi sviluppi della crisi in Libia sono giunti in concomitanza con la visita a Tripoli dell’inviato ONU, Abdul Elah al-Khatib, che ha incontrato i rappresentati di Gheddafi per trovare una soluzione pacifica. In precedenza, gli USA - seguiti dalla Gran Bretagna e da numerosi altri paesi - avevano proceduto a riconoscere ufficialmente il consiglio dei ribelli come rappresentanti legittimi della Libia, gettando le basi per lo sblocco di decine di miliardi di dollari appartenenti al regime e attualmente congelati su svariati conti bancari in America.
La ricerca di una via d’uscita diplomatica da parte dei governi che hanno orchestrato l’aggressione alla Libia e l’ipotesi di un compromesso con il regime di Tripoli testimoniano la falsità della pretesa di condurre una guerra in nome dei diritti democratici del popolo libico.
Un accordo con Gheddafi - anche nel caso dovesse includere la rinuncia di quest’ultimo ad un ruolo ufficiale, che peraltro ha già formalmente abbandonato già nel 1972 - manterrebbe uomini della sua cerchia in posizioni di potere, così come resterebbe intatta la struttura repressiva dello stato e dell’apparato di sicurezza.
Dopo cinque mesi, la NATO ha in definitiva dovuto fare i conti con l’incapacità degli insorti di conquistare terreno in maniera significativa e di provocare la caduta del regime, nonostante il massiccio appoggio militare occidentale. Sintomo questo della mancanza di un ampio seguito nel paese per il governo provvisorio di stanza a Bengasi.
Dove non sono riuscite le bombe, allora, potrebbe riuscire ora la diplomazia, purché si raggiunga sempre l’obiettivo di rimpiazzare un regime che si stava facendo troppo ostile verso gli interessi occidentali. Che la soluzione includa un Gheddafi ancora in Libia e il mantenimento di un ruolo di primo piano per una parte del suo entourage non sembra ora preoccupare più di tanto Parigi, Washington e Londra, con buona pace delle aspirazioni cirenaiche.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Tutto il mondo è paese e la xenofobia non sembra essere destinata a ottenere cittadinanza onoraria in alcun luogo. Secondo quanto scrive il quotidiano online che fa capo a Der Spiegel, una compagnia assicurativa tedesca del gruppo Ergo ha discriminato per anni i propri clienti in base alla nazionalità di appartenenza: a vedersi rifiutare le polizze auto erano i cittadini di quei Paesi considerati “a rischio”, tra cui Turchia, Polonia, Russia e - udite udite - Italia.
Un’interessante prospettiva di matrice razzista, quella di Ergo, ma soprattutto un ironico schiaffo a un’Italia che, ormai dimentica del proprio passato e della propria (seppur discutibile) reputazione, troppo spesso si permette il lusso della xenofobia gratuita verso i nuovi immigrati.
La compagnia assicurativa in questione è la D.A.S. di Duesseldorf (Germania nord-orientale), consociata del gruppo tedesco Ergo Versicherungsgruppe, uno dei maggiori riassicuratori a livello internazionale. A sollevare i sospetti nei suoi confronti è la redazione di Spiegelonline, che cita a questo proposito le dichiarazioni giurate di alcuni ex- agenti della D.A.S. stessa. Fino all’inizio del 2010, i potenziali clienti di origine italiana, polacca o russa venivano considerati all’interno dell’azienda come un “rischio indesiderato”, cita Spiegelonline, mentre “i turchi rappresentavano una clientela assolutamente non gradita”.
A destare le preoccupazioni di D.A.S. era soprattutto la presenza di “nomi inusuali” sui contratti di assicurazione stipulati, continua Der Spiegel, quei nominativi quindi dal suono esotico: in questi casi la direzione di D.A.S. esigeva dai propri agenti una spiegazione scritta. Neppure la cittadinanza tedesca aiutava granché gli stranieri: secondo la confessione degli ex- agenti, anche in questi casi la polizza veniva concessa solo eccezionalmente.
I capi di D.A.S., da parte loro, hanno già provveduto a ribadire l’inconsistenza delle accuse, spiegando che la valutazione dei rischi per le polizze avveniva, così come avviene tuttora, su base “personale” e non di appartenenza nazionale. Il sospetto tuttavia rimane, ed è quello di una discriminazione sistematica di D.A.S. nei confronti degli stranieri: sarà sicuramente difficile dimostrarne l’attendibilità, anche perché, a detta degli ex-agenti stessi citati da Der Spiegel, il “criterio selettivo” veniva tramandato esclusivamente a voce.
Anche se, in realtà, un riferimento scritto c’è, ed è un particolare degno dei migliori episodi fantozziani. In un piano d’ispezione del 2006, D.A.S. parla di una polizza “casco per italiani”: si tratta di condizioni particolari di assicurazione, quindi, per un determinata tipologia di individui dalle esigenze particolari, e cioè gli italiani. La direzione di D.A.S. si è affrettata a spiegare che si tratta di una semplice bozza mai entrata in vigore, ma già l’intenzione di per sé fa sorridere beffardamente.
Perché gli italiani di oggi si sono dimenticati del proprio passato, di quando emigravano per fare quei lavori che nessuno voleva, e della propria reputazione, costruita attorno alla rinomata capacità tutta italiana di “arrangiarsi” con qualunque mezzo. Ad avere la memoria più corta di tutti sono i politici: l’arroganza con cui accolgono i nuovi immigrati in Italia lascia poco spazio per dubitarne.
E ora il processo si ripete parallelo, solo a ruoli invertiti: oggi è l’Italia che discrimina, che si chiude a riccio nel timore di una presunta immigrazione “criminale”, mentre la politica s’impegna a trovare le differenze tra italiano e immigrato. E ogni tanto, sarcasticamente, è come se il passato tornasse, e l’italiano si ritrovasse a essere discriminato sulla base di nulla, come nel presunto caso Ergo. E allora non può che scapparci da ridere.
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di Mario Braconi
Con i suoi quasi cento innocenti uccisi, venerdì 22 luglio 2011 è stata la giornata più luttuosa per la Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale. Una delle nazioni più pacifiche e democratiche del mondo è in ginocchio, violata da un uragano di violenza insensata. A strappare la vita a tanti suoi figli è stata, sembra, solamente la mano di un norvegese di 32 anni Anders Behring Breivik, cristiano fondamentalista, arresosi alla polizia dopo una caccia di un’ora. Secondo la redazione europea della MSMBC, l’uomo ha confessato di essere l’autore dell’orrenda strage.
Dai suoi account sui social network ed in generale dalle tracce digitali lasciate dall’assassino sulla Rete è possibile ricostruirne almeno in modo grossolano la personalità. Il profilo Twitter contiene un solo tweet, una variazione su tema da John Stuart Mill che, alla luce del dramma, fa rabbrividire: “La fede di un solo uomo vale quanto l’interesse di centomila” (l’originale suonava più o meno: “una persona con una fede è una forza sociale equivalente a novantanove altre persone che hanno solo interessi”). L’account Facebook è più interessante: Breivik vi si definisce di religione cristiana, collegato in qualche modo ad un’azienda di fertilizzanti chimici (la GeoFarm), appassionato di body building e di massoneria.
I suoi interessi agronomici hanno costituito certamente un’ottima copertura: secondo quanto riportato dalla televisione di stato NKR e dal quotidiano britannico Guardian, a maggio Breivik avrebbe acquistato ben sei tonnellate di fertilizzante. Come noto, alcuni tipi di fertilizzante chimico costituiscono l’“ingrediente” tipico del degli assassini di massa della domenica: come fu Timothy James McVeigh, il quale di servì di fertilizzante per confezionare l’ordigno che il 19 aprile 1995 a Oklahoma City distrusse un edificio federale, uccidendo 168 persone e ferendone 800.
Anche se la polizia l’ha definito un fondamentalista cristiano, Breivik era arrivato a provare disgusto per i rappresentanti della chiesa cui aveva aderito di sua spontanea volontà a quindici anni: “La Chiesa protestante di oggi fa ridere. Preti in jeans che fanno le marce per la Palestina e chiese che sembrano centri commerciali minimalisti”.
Breivik era stato anche membro della sezione giovanile del Partito del Progresso, formazione liberal-conservatrice che spesso ha assunto posizioni populiste ed anti-immigrazione: ma anche la sua affiliazione al partito era stata messa in crisi dalla posizione troppo morbida contro il vituperato multiculturalismo e piuttosto tendente alla correttezza politica.
Breivik, pur avendo dimestichezza con la filosofia politica, considera l’Islam come un’ideologia paragonabile al fascismo e al comunismo. Secondo lui, avrebbe causato 300 milioni di morti, contro i “soli” 6-20 milioni accreditati ai nazisti. Come tale, da esecrare indipendentemente dal livello di profondità della sua pratica. In un post esprime il seguente pensiero: “Dovremmo tollerare quei nazisti che esecrano le camere a gas?”, cui segue implicitamente “dovremmo tollerare i musulmani moderati”? E ancora: “Tutte le ideologie che conducono all’odio vanno trattate nello stesso modo”. Se non si trattasse di una terribile tragedia, verrebbe da sorridere davanti a tanta ipocrisia.
Tra gli amici virtuali di Breivik, si annoverano membri dell’organizzazione neofascista britannica EDL, cui dispensava consigli sulle bacheche virtuali: non è chiaro in effetti se criticasse o apprezzasse quella che riconosceva come la tattica della EDL in Gran Bretagna, ovvero quella di mettere in atto provocazioni in grado di causare eccessi di reazione nei giovani musulmani estremisti e nei gruppi di estrema sinistra. E’ comunque sicuro che vagheggiasse la nascita di una costola della EDL anche in Norvegia.
Anche uno degli ultimi paradisi della nostra Europa, segnata da una grave crisi politico-economica e morale, è stato dunque violato. Come anche il solo elemento del fertilizzante avrebbe dovuto indurre a pensare, erano in errore tutti i giornalisti e commentatori che si sono affrettati a dar la caccia a qualche islamico. Invano è stato ripescato un comunicato di Wikileaks nel quale gli americani segnalano il rischio di attentati da parte di estremisti islamici in Norvegia, un paese considerato un obiettivo semplice anche a causa della sua riferita mancanza di preparazione e del suo presunto lassismo (o eccesso di tolleranza?).
Inutilmente si sono rispolverati vecchi dossier in cui si scopre che la Norvegia, con i suoi 408 soldati presenti in Afghanistan, è il 17esimo paese contribuente allo sforzo bellico della coalizione degli occidentale in quel Paese; non serviva neanche ricordare che la Norvegia è tra i paesi che hanno fornito mezzi e supporto nella “missione Libia” né che i periodici norvegesi hanno ripubblicato gli ormai celeberrimi fumetti anti-islamici danesi.
Il male questa volta è un altro: viene da lontano e purtroppo non è stato debellato, a dispetto di milioni di vittime. Ed in tempi in cui in Italia affiora ancora una volta l’abominio delle liste di proscrizione dei professori ebrei, forse è il caso che l’Europa interrompa il suo sonno della ragione. Il male sta bussando di nuovo alla nostra porta: è vicino, presente, sentiamo il suo alito fetido e gelido a pochi centimetri. E forse merita più attenzione di uno spread sui titoli di Stato o del rispetto di un parametro di bilancio.
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di Eugenio Roscini Vitali
Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.
Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.
E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.
L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.
In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.
Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.
Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà; rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.
Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.
Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.
In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.
Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.
Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.
“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.
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di Michele Paris
In questi ultimi giorni, il dibattito in corso tra Democratici e Repubblicani intorno alla questione dell’innalzamento del tetto del debito pubblico degli Stati Uniti ha fatto segnare qualche debole progresso. Pur rimanendo alcune divergenze, l’occasione di ridurre drasticamente la spesa federale farà in modo che i due schieramenti finiranno per accordarsi su un qualche provvedimento che eviterà un clamoroso default da parte del Tesoro americano.
Con l’approssimarsi della scadenza del 2 agosto per aumentare il livello di indebitamento USA - attualmente fissato a circa 14 mila e 300 miliardi di dollari - le trattative a Washington sono diventate a dir poco frenetiche. In mancanza di un punto d’incontro definitivo su un accordo di ampio respiro che ristrutturi interamente il sistema di spesa del governo federale, la data limite del 22 luglio fissata dal presidente Obama per approvare una misura definitiva risulta ormai superata.
A far aumentare le probabilità di un’intesa in extremis è stata martedì la presentazione di un nuovo piano di bilancio, frutto del lavoro della cosiddetta “Gang of Six”, la commissione bipartisan formata da tre senatori democratici ed altrettanti repubblicani che da tempo lavora all’individuazione di nuovi possibili tagli alla spesa pubblica. La commissione è composta dai senatori democratici Richard Durbin dell’Illinois (numero due al Senato), Kent Conrad del Nord Dakota (presidente della Commissione Bilancio) e Mark Warner della Virginia; e dai repubblicani Tom Coburn dell’Oklahoma, Mike Crapo dell’Idaho e Saxby Chambliss della Georgia.
In un documento di appena quattro pagine, la “Gang of Six” ha proposto tagli per 3 mila 700 miliardi di dollari nel prossimo decennio, di cui 500 miliardi da conseguire con effetto immediato. Ad addolcire la pillola ci sono alcune modeste misure che renderebbero più difficile l’evasione legalizzata delle tasse per le grandi aziende. Per evitare le proteste degli americani in difficoltà, questa proposta risulta piuttosto generica e non elenca nel dettaglio i programmi sociali che dovrebbero essere soppressi, lasciando alle commissioni del Congresso competenti sui vari dipartimenti il compito di individuare i destinatari dei tagli.
Nonostante il piano appena descritto preveda anche un abbassamento delle aliquote fiscali per le corporation nel lungo periodo, l’appoggio da parte di una parte dei parlamentari repubblicani è stata tiepida. I meno convinti sono i membri della Camera dei Rappresentanti sostenuti dai Tea Party - in particolari gli 87 deputati repubblicani entrati al Congresso dopo le elezioni del novembre 2010 - i quali, da un lato, non vogliono in nessun modo sentir parlare di aumenti per le tasse dei redditi più alti e, dall’altro, chiedono tagli ancora più profondi ai programmi Medicare e Medicaid e al sistema pensionistico.
Dopo le interruzioni dei colloqui, arenati sul persistente rifiuto repubblicano di comprendere in un eventuale accordo con i democratici limitati aumenti delle tasse per i ricchi, Obama e i leader di entrambi i partiti al Congresso sono tornati a confrontarsi separatamente mercoledì alla Casa Bianca. In seguito all’incontro è emerso il principale passo avanti nella trattativa. Come ha spiegato il portavoce del presidente, Jay Carney, durante la sua conferenza stampa giornaliera, Obama sembra ora disposto ad accettare un aumento del tetto del debito anche senza un accordo più ampio sul deficit, mentre in precedenza aveva minacciato di porre il veto su qualsiasi misura provvisoria.
L’innalzamento del tetto dovrebbe essere tuttavia di breve durata (“qualche giorno”), giusto il tempo insomma per permettere alle due parti di raggiungere comunque un accordo che, visti i tempi ormai molto stretti, potrebbe essere siglato solo dopo il 2 agosto.
Le ipotesi che rimangono sul tavolo per un provvedimento che riduca in maniera consistente la spesa federale nei prossimi anni sono in definitiva due: oltre al già citato piano partorito dalla “Gang of Six”, rimane ancora aperta la proposta della Casa Bianca per 4 mila miliardi di dollari di tagli in dieci anni. Questa ipotesi incontra però l’opposizione ancora più ferma da parte dei repubblicani, poiché comprende contenuti aumenti del carico fiscale per le fasce di reddito più alte.
L’ostacolo maggiore nelle discussioni è rappresentato proprio da quella frangia più a destra tra i repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, i quali difficilmente potranno essere convinti ad appoggiare una misura di questo genere dalla loro stessa leadership, nonostante i tagli devastanti alla spesa che saranno inclusi in qualsiasi bozza di accordo. In questo scenario diventeranno perciò fondamentali i voti dei deputati democratici per giungere ad un’approvazione definitiva.
Superati a destra dallo stesso Barack Obama nelle discussioni sul tetto del debito, intanto, i repubblicani alla Camera hanno licenziato martedì un provvedimento tra i più estremi mai usciti dal Congresso americano. La misura appena approvata prevede tagli non meglio specificati per 5 mila e 800 miliardi di dollari nel prossimo decennio e, soprattutto, una modifica alla Costituzione che avrebbe effetti devastanti sulla spesa sociale, cioè l’obbligatorietà di raggiungere il pareggio di bilancio quando si rende necessario innalzare il tetto del debito.
Come se non bastasse, la legge definita “Cut, Cap and Balance” porterebbe ad una liquidazione di fatto del programma di assistenza pubblico per gli anziani Medicare, rimpiazzato da polizze assicurative private e sovvenzioni governative che non sarebbero comunque in grado di tenere il passo all’incremento dei costi previsti per le spese sanitarie nei prossimi anni. Nello stesso emendamento costituzionale è prevista infine la necessità di approvare qualsiasi aumento delle tasse con i due terzi dei voti del Congresso, mentre basterebbe la maggioranza semplice per tagliare programmi sociali di cui beneficiano decine di milioni di americani.
Questo provvedimento ha in ogni caso un valore puramente simbolico, dal momento che non ha alcuna possibilità di essere approvato dal Senato, dove i democratici conservano la maggioranza. Il presidente Obama ha poi già annunciato di esercitare il proprio potere di veto nel caso dovesse raggiungere la sua scrivania.
La mossa dei repubblicani ha dunque il solo scopo di ristabilire le gerarchie nella corsa alla distruzione dei programmi sociali finanziati dalla spesa federale negli USA. Essa, tuttavia, testimonia a sufficienza della distorsione del dibattito in corso sul tetto del debito in un paese dove milioni di persone continuano a rimanere senza lavoro e a scivolare al di sotto della soglia di povertà.
Per questi ultimi l’unica risposta che arriva da Washington è un ulteriore assottigliamento della già esile rete di assistenza pubblica, mentre rimangono rigorosamente fuori da ogni discussione le voci che hanno contribuito maggiormente a produrre il gigantesco buco di bilancio delle casse federali americane, e cioè le guerre in Iraq e Afghanistan, l’enorme trasferimento di denaro pubblico alle banche con il salvataggio di Wall Street del 2008 e i colossali tagli fiscali di cui le classi privilegiate continuano a godere.