di Mario Braconi 

La vittoria portata a casa a Parigi con il riconoscimento della condizione di Stato membro alla Palestina sta provocando reazioni pesanti, in Israele come all’estero. Va segnalata a questo proposito la presa di posizione del Canada, che per bocca del suo ministro degli Esteri John Baird, ha espresso “profonda insoddisfazione per la decisione dell’UNESCO”. Montreal, pur confermando il suo contributo annuo (10 milioni di dollari americani) al fondo dell’Agenzia, ha fatto sapere che non interverrà per compensare i fondi che verranno a mancare dagli USA. Infantile, scomposta e indiscriminata, invece, la reazione di Israele: martedì il governo Netanyahu ha confermato la prossima costruzione di 1.650 unità abitative israeliane a Gerusalemme Est e di altre 350 negli insediamenti di Ma’aleh Adumim (a 7 chilometri da Gerusalemme) ed Efrati, che violano la Convenzione di Ginevra.

In un momento storico contraddistinto dal rifiuto israeliano allo stop a nuove occupazioni (precondizione palestinese ad una possibile nuova stagione di negoziati di pace) Israele decide di rilanciare. Se vi fosse qualche dubbio su quanto miope, sciocca e controproducente possa essere la politica israeliana, a fugarli basta il commento che un importante membro del governo israeliano ha consegnato questa mattina alla Associated Press (sotto condizione di anonimità): “Queste misure erano già state concordate come ‘punizione’ per il voto all’UNESCO”. Una logica, quella delle “punizioni collettive”, purtroppo ricorrente nell’agenda politica e militare israeliana, che cionondimeno non manca di stupire e indignare. Un funzionario israeliano, sentito da Time, ha aggiunto che la misura ritorsiva è stata causata anche dal rifiuto palestinese di condannare il lancio di missili da Gaza iniziato lo scorso fine settimana, e attualmente sospeso grazie ad una fragile tregua negoziata tramite l’intermediazione egiziana.

Ma non è tutto: l’insistenza palestinese a trovare una soluzione alla sua tragedia con o senza l’intermediazione americana, verrà punita nel portafoglio oltre che nella dignità. Il governo israeliano ha infatti deciso, come misura di rinforzo, di congelare fino a nuovo ordine il trasferimento di fondi all’Autorità Palestinese. Ogni mese, infatti, Israele gira alla A.N.P. decine di milioni di dollari di dazi doganali prelevati sulle merci che, destinate ai Territori, devono transitare per i porti di Israele. Si tratta di una parte consistente del budget dell’Autorità, che da oggi non potrà contarci, affinché abbia tempo e modo di riflettere su chi comanda… a casa sua.

Continuare a rubare la terra ai Palestinesi in barba ad ogni legge internazionale e trattenere il loro denaro non sono una reazione sufficientemente muscolare, a quanto sembra: Netanyahu ha infatti promesso che nuove misure potrebbero seguire a valle di un prossimo incontro del cosiddetto “Forum degli otto”, che accorpa i ministri più importanti del governo. Allo studio, sempre secondo Associated Press, potrebbe esserci la revoca dei pass attualmente garantiti ai rappresentanti politici palestinesi, che consentono loro spostamenti da e verso Israele relativamente agevoli.

Nel frattempo tutti gli IP palestinesi sono stati presi di mira da un grave attacco informatico che per diverse ore ha costretto le banche allo stop, reso impossibile l’uso delle linee telefoniche e l’accesso ai siti internet stranieri. Secondo la ricostruzione del ministro delle telecomunicazioni palestinese, Mashur Abu Daqq, si tratterebbe di un attacco con obiettivi precisi, condotto su vasta scala attraverso una miriade di falsi server mirror disseminati in ben venti Paesi. Secondo Abu Daqq, che vuole chiedere un’inchiesta internazionale in sede ONU per investigare l’accaduto, le modalità dell’attacco e la sua intensità fanno pensare che non si tratti di un atto casuale e che a dirigerlo vi sia uno Stato. Anche se non vi sono prove, si sospetta che si tratti di una possibile azione di disturbo condotta da Israele come forma di ulteriore ritorsione.

La politica di Israele sembra comunque confinata ad una disperata aggressività: mentre un milione di israeliani sono sottoposti alla grottesca lotteria che può far diventare qualcuno di loro vittima degli attacchi casuali lanciati dal Jihad Islamico, che Hamas non può o non riesce a tenere sotto controllo, il governo continua nel suo gioco al rilancio verso un altro fronte: quello dell’Iran. Tel Aviv è infatti attualmente impegnata in un rally politico finalizzato ad approvare un “attacco preventivo” contro la repubblica islamica; gli occhi di tutti gli osservatori sono infatti puntati al rapporto della AIEA, che verrà pubblicato il prossimo 8 novembre e che potrebbe fornire al governo Netanyahu un pretesto per colpire.

Fortunatamente, sembra che il gruppo dei non interventisti conservi ancora un piccolo margine di vantaggio sui “falchi”. Ironicamente, i giornali israeliani sono pieni di dichiarazioni dei capi delle intelligence israeliane, Benny Gantz, Tamir Pardo ed Aviv Kochavi, i quali non fanno mistero della loro forte contrarietà ad una simile azione, che, secondo l’ex ministro della difesa Benjamin Ben-Eliezer darebbe vita ad uno scenario “di orrore”.

Ciò non ha impedito ad un alto ufficiale di comunicare in via anonima alla stampa americana l’esito favorevole del test di un nuovo sistema di propulsione missilistico, compatibile con l’ipotesi della preparazione di un attacco militare contro l’Iran. Ma non sembra proprio che il governo israeliano riuscirà a garantire la sicurezza dei suoi cittadini fintanto che continuerà a mostrare i muscoli provocando i suoi vicini in modo tale che nemmeno il suo alleato americano riesce ormai a giustificare.

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