di Mario Braconi

Tutto inizia quando i genitori di Menachem Zivotofsky, un incolpevole ragazzino americano, hanno sentito una curiosa quanto irrinunciabile necessità: papà Zivotofsky, infatti, sul passaporto del figlio, alla voce “luogo di nascita” non ha ritenuto giusto che dovesse figurare semplicemente la città in cui è nato il figlio, ovvero Gerusalemme. Accanto al dato certo (la città natale di Menachem) ci dovrebbe infatti essere la politicamente urticante specifica “Israele”. Zivotofsky, per carità, è libero di ritenere che Gerusalemme sia Israele, e in effetti questo è quanto stabilisce la legge israeliana. Sfortunatamente, però, lo status di capitale non è riconosciuto internazionalmente, e men che meno dall’Autorità Palestinese, che anzi considera Gerusalemme la capitale del futuro stato palestinese - per il momento esistente solo davanti all’UNESCO.

Non è un caso se tutte le ambasciate estere presso Israele, a differenza dei consolati, hanno sede a Tel Aviv. Anche se la questione sollevata da Zivotofsky è chiaramente il capriccio di un fanatico convinto che un (impossibile) riconoscimento formalistico possa cancellare i drammi della lotta decennale tra due popoli, bisogna riconoscere che la sua provocazione è stata pianificata in modo accurato. E che essa, al di là della sua futilità sostanziale, ha portato alla luce un potenziale conflitto di poteri tra Congresso ed Esecutivo, e ha costretto i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti a (tentare di) dirimere la questione.

Il Dipartimento di Stato riconosce ai circa 50.000 americani nati a Gerusalemme la facoltà di specificare nel proprio passaporto il luogo di nascita come “Gerusalemme”, ma proibisce di specificare nei documenti anche “Israele”, perché la compresenza dei due nomi su un documento emesso da un’entità statale americana configurerebbe una fattispecie in cui gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come città israeliana. Ciò equivarrebbe alla rottura della “neutralità” americana in merito alla questione, uno dei capisaldi della sua politica estera in Medio Oriente. A complicare le cose c’è un documento approvato dal Congresso nel 2002, e che dunque è divenuto operativo in corrispondenza della data di nascita del piccolo Zivotofsky.

Nella “Policy Ufficiale riguardo a Gerusalemme Capitale d’Israele”, infatti, il Congresso richiese al Dipartimento di Stato di consentire a quanti ne facessero richiesta perché nati a Gerusalemme di poter scrivere “Gerusalemme, Israele”. Non solo: il documento sollecitava l’allora presidente George W. Bush a spostare la sede diplomatica statunitense da Tel Aviv alla Città Santa, quale “riconoscimento della sovranità israeliana di fatto su tutta la città”.

Bush firmò la legge, non essendo possibile bloccarla con un veto, specificando però in una nota datata 30 settembre 2002 che le disposizioni in essa contenute costituivano una limitazione indebita ai poteri concessi al Presidente dalla Costituzione: il Presidente non accetta il primato di una legge che “interferisce in modo inaccettabile con l’autorità del Presidente di condurre gli affari esteri e supervisionare il potere esecutivo in modo univoco […] La posizione degli Stati Uniti su Gerusalemme non è cambiata”.

Obama la pensa in modo molto simile: secondo l’attuale presidente, la politica estera è affare del Governo e il Congresso non ha il potere di alterare le decisioni del Presidente e del suo governo. Ma Zivotofsky ha citato l’attuale Segretario di Stato Hillary Clinton, chiedendole di assoggettarsi a quanto stabilito nella legge del 2002. I tribunali ordinari hanno rigettato la richiesta dell’appellante, in quanto a loro dire non titolati a entrare nel merito di questioni afferenti al potere esecutivo; inoltre il nodo appariva ai giudici ordinari più di tipo politico che giuridico.

Nella (comprensibile) inerzia del Segretario di Stato, che ovviamente non ha mai dato retta all’avvocato di Zivotofsky, è stata interpellata la Corte Suprema. Purtroppo, però, i giudici non hanno le idee chiare su come dirimere la questione, che in effetti, apre un importante interrogativo: chi ha veramente l’ultima parola sulle questioni estere, il potere legislativo o quello esecutivo?

Il giudice Donald Verrilli, sostenitore del primato dell’Esecutivo, ha citato il caso di George Washington, che, quando si trattò di riconoscere il governo rivoluzionario francese, prese la sua decisione consultandosi con i colleghi del governo, e non si curò nemmeno di mandare una nota per informare il Congresso. Sembra proprio che la questione israelo-palestinese non cessi di creare divisioni e conflitti, da una parte e dall’altra dell’Oceano. La magra consolazione è che, almeno nel caso Zivotofsky, si tratta di solo di una guerra di carte bollate.

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