di Michele Paris

Con un’altra eclatante operazione nella capitale afgana, nella serata di martedì le forze ribelli che si battono contro l’occupazione occidentale nel paese centro-asiatico hanno portato a termine l’ennesimo attentato ai danni di una delle più autorevoli personalità del panorama politico locale. A cadere vittima della violenza talebana - anche se l’attentato non è stato ancora rivendicato ufficialmente - è stato questa volta l’ex presidente Burhanuddin Rabbani, attuale numero uno dell’Alto Consiglio per la Pace, incaricato precisamente di promuovere il processo di riconciliazione con gli “studenti del Corano”.

L’attentatore - del quale è stato diffuso solo il nome, Esmatullah - è risultato essere un messaggero talebano che godeva della fiducia dell’entourage di Rabbani, con cui era in contatto da almeno cinque mesi. Nella giornata di martedì, Esmatullah avrebbe contattato Rahmatullah Wahidyar, ex vice-ministro nel regime talebano e anch’egli membro dell’Alto Consiglio per la Pace, perché in possesso di un messaggio urgente da recapitare a Rabbani da parte della “Shura di Quetta”, il gruppo dirigente talebano con sede nell’omonima città del Pakistan.

Rabbani era da poco rientrato da una visita in Iran e, informato da Wahidyar, ha acconsentito a ricevere Esmatullah nella propria abitazione. Appena entrato nello studio dell’ex presidente afgano senza essere perquisito, l’attentatore si è fatto saltare facendo detonare l’esplosivo che nascondeva nel suo turbante. Oltre ad uccidere il 71enne Rabbani, l’esplosione ha ferito seriamente altre quattro persone presenti, tra cui lo stesso Wahidyar e un terzo membro dell’Alto Consiglio coinvolto nei colloqui di pace, Masoom Stanekzai. Il presidente afgano, Hamid Karzai, ha espresso il proprio cordoglio per la morte di Rabbani ed ha interrotto la sua trasferta alle Nazioni Unite per rientrare immediatamente in patria.

Quest’ultimo episodio conferma l’irrisoria facilità con cui gli “insorti” sono in grado di penetrare anche le aree di Kabul ritenute più sicure. L’attentato giunge infatti a pochi giorni da uno spettacolare attacco condotto dai Talebani nella capitale e che ha sollevato più di un dubbio sulla presenza di infiltrati tra le forze di sicurezza afgane che dovrebbero prendere in mano il controllo del paese una volta che le forze di occupazione NATO se ne saranno andate.

Solo negli ultimi tre mesi, poi, altre due personalità afgane di spicco erano state bersaglio di attentati fatali con modalità simili. A luglio, il potente fratellastro del presidente, Ahmed Wali Karzai, era stato ucciso nel proprio studio di Kandahar da una guardia del corpo, mentre pochi giorni più tardi un altro alleato del presidente, l’ex governatore della provincia di Oruzgan, Jan Mohammed Khan, sarebbe finito vittima di un attentatore introdottosi nella sua abitazione.

La morte di Rabbani rischia di infliggere un colpo devastante alle velleità di riconciliazione con i Talebani di Karzai e di Washington. Non solo l’ex presidente era considerato uno dei pochi uomini politici con l’esperienza e l’autorevolezza necessarie per cercare di convincere i Talebani a deporre le armi, ma la sua uccisione riporta a galla anche tutti i malumori diffusi in ampi strati della classe politica afgana per un complicato e improbabile processo di pace.

Numerosi politici - soprattutto di etnia diversa da quella Pashtun, a cui appartengono i Talebani - non hanno infatti esitato a manifestare pubblicamente tutta la loro contrarietà alla reintegrazione degli esponenti del precedente regime. “È tempo che il presidente Karzai apra gli occhi - ha dichiarato l’ex candidato alla presidenza Abdullah Abdullah in un’intervista - queste sono le persone che Karzai ha definito cari fratelli. Sono loro i responsabili di quanto accaduto”.

Burhanuddin Rabbani aveva ricoperto la carica di presidente dell’Afghanistan tra il 1992 e il 1996 durante la guerra civile che ha lacerato il paese dopo la partenza dei sovietici, per poi aprire la strada alla presa del potere da parte dei Talebani. Negli anni Ottanta, Rabbani aveva partecipato alla resistenza contro l’occupazione sovietica, creando uno dei tanti gruppi guerriglieri anti-comunisti sostenuti dagli USA e dall’Occidente operanti dal Pakistan (Jamiat-e-Islami).

Deposto dai Talebani nel 1996, Rabbani era diventato uno dei principali leader dell’Alleanza del Nord, composta per lo più da combattenti Tagiki - alla cui etnia apparteneva - e Uzbeki, che avrebbe appoggiato l’invasione americana nel 2001. Una volta rovesciato il regime talebano, Rabbani poté tornare alla politica attiva a Kabul, promettendo fedeltà al presidente Karzai. Una fedeltà che gli è costata cara.

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