di Michele Paris

Di fronte a proteste e manifestazioni andate in scena in mezzo mondo, gli Stati Uniti hanno messo ancora una volta in mostra il loro aspetto più brutale quando, nella tarda serata di mercoledì, hanno portato a termine l’esecuzione di Troy Davis in un carcere della Georgia. Il 42enne detenuto di colore, nel braccio della morte da 22 anni, era stato condannato per un omicidio commesso nel 1989 in seguito ad procedimento legale a dir poco discutibile, durante il quale erano stati palesemente calpestati i suoi diritti di cittadino di un paese democratico.

Proclamatosi innocente fino all’ultimo, Davis è deceduto alle 23.08 ora locale, dopo che gli sono state somministrate le tre sostanze previste dalla procedura dell’iniezione letale. Poco prima di morire, il condannato ha guardato negli occhi i familiari della vittima presenti nella stanza, ribadendo la sua innocenza. “Non ho ucciso personalmente vostro figlio, padre, fratello”, sono state le ultime parole di Davis. “Quello che vi chiedo è che continuiate a fare chiarezza su questo caso, così da arrivare finalmente a trovare la verità”.

La sorte di Troy Davis era stata irrevocabilmente stabilita martedì scorso, quando la Commissione per la Grazia e la Libertà sulla Parola dello Stato della Georgia aveva respinto in maniera definitiva un appello dei suoi legali per fermare l’esecuzione e indire un nuovo processo. Negli ultimi due decenni, Davis era già stato ad un passo dalla morte, ma in tre occasioni erano giunte sospensioni dell’ultimo minuto per fare luce sulla sua presunta colpevolezza.

I dubbi sulla correttezza del procedimento a carico di Davis erano infatti numerosi, tanto che più di 600 mila persone avevano firmato una petizione per bloccare la sua condanna a morte, tra cui personalità come l’ex presidente Jimmy Carter, l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e 51 membri del Congresso americano.

Troy Davis era stato condannato nel 1991 per l’assassinio di Mark McPhail, poliziotto fuori servizio che stava svolgendo un secondo lavoro come guardia giurata all’epoca dei fatti. In una serata del 1989, McPhail era intervenuto per soccorrere un senzatetto vittima di un’aggressione in un parcheggio di un fast-food a Savannah, in Georgia, quando venne colpito da un’arma da fuoco al volto e al cuore.

I legami di Troy Davis con l’omicidio di McPhail sono sempre stati esili. L’arma del delitto non venne mai ritrovata, né furono rinvenute impronte digitali, tracce di DNA o macchie di sangue di Davis sulla scena del crimine. Inoltre, almeno tre giurati che durante il processo si espressero per la per la pena capitale avevano successivamente firmato dichiarazioni giurate nelle quali dicevano di nutrire dubbi sulla correttezza del verdetto e che Davis non doveva essere condannato a morte.

Soprattutto, però, com’è stato inutilmente ripetuto durante l’udienza di lunedì scorso davanti alla Commissione della Georgia che ha espresso il parere definitivo sulla sorte di Davis, sette dei nove testimoni dell’accusa durante il primo processo a suo carico avevano ritrattato le loro deposizioni. Le loro testimonianze erano infatti state estorte sotto minaccia della polizia. Una testimone, addirittura, aveva sostenuto di aver sentito un certo Sylvester “Redd” Coles - il primo testimone ad identificare Davis come l’assassino - confessare di aver ucciso McPhail. Un’ipotesi confermata anche dalle dichiarazioni giurate di altri testimoni.

Oltre a tutto ciò, va ricordato che tra il 1991 e il 1996, durante i procedimenti di appello, a Troy Davis venne negata l’assistenza di un legale, poiché lo stato della Georgia non prevede l’assegnazione di un avvocato d’ufficio per gli imputati che non se ne possono permettere uno. Com’è successo poi a molti altri condannati a morte, le opzioni di Davis erano state ridotte dall’entrata in vigore di una legge del 1996 - ATEDP (“Antiterrorism and Effective Death Penalty Act”) - che limita severamente la possibilità di un condannato a morte di appellarsi al circuito delle corti federali americane.

Nell’agosto del 2009, in ogni caso, la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ad una corte federale di rivedere il procedimento contro Troy Davis e di riconsiderare le varie testimonianze. Nel giugno successivo, la Corte Federale del distretto di Savannah, presieduta dal giudice William Moore, venne dunque convocata. La Corte ascoltò le dichiarazioni dei testimoni che accusavano la polizia di averli costretti a coinvolgere Davis. Il giudice Moore, tuttavia, pur ammettendo che le testimonianze sollevavano qualche dubbio sulla sua condanna, decise che le nuove prove emerse non erano sufficienti per aprire un nuovo processo.

Quest’anno, infine, i legali di Troy Davis si sono appellati nuovamente alla Corte Suprema, la quale nel marzo scorso si è però rifiutata di prendere in considerazione il caso, senza aggiungere alcuna motivazione. All’approssimarsi dell’appuntamento con il boia, l’ultima speranza di fermare l’ingranaggio della morte di fronte ad un’ingiustizia così palese era rappresentata dalla Commissione per la Grazia e la Libertà sulla parola della Georgia. In questo Stato, infatti, il governatore non ha la facoltà di fermare le condanne capitali.

L’esecuzione di Troy Davis nel carcere statale di Jackson era in realtà prevista per mercoledì alle ore 19, ma è stata rimandata di qualche ora in attesa di un ultimo pronunciamento della Corte Suprema di Washington. Il più alto tribunale del paese non è però riuscito a mettere assieme una maggioranza di cinque giudici con il coraggio di fermare un vergognoso atto di violenza sanzionata dallo Stato, limitandosi invece ad emette un comunicato di poche parole che negava un atto di clemenza per il condannato.

In precedenza, sempre nella giornata di mercoledì, i legali di Davis avevano provato, senza successo, di convincere la Commissione a rivedere la propria decisione. Nessun esito ha avuto anche la richiesta fatta alle autorità della Georgia di sottoporre Davis alla macchina della verità. Le varie associazioni a difesa dei diritti civili, che hanno assistito Davis nella sua battaglia, avevano inoltre provato a percorrere altre strade, chiedendo un intervento del pubblico ministero del processo originario e del procuratore distrettuale della Contea di Chatham.

Significativo è stato infine anche il silenzio e il rifiuto di intervenire per salvare Troy Davis di Barack Obama, presidente di un paese che si rende responsabile quotidianamente di assassini mirati, torture, detenzioni segrete e bombardamenti indiscriminati contro civili in paesi non in guerra con gli Stati Uniti. Era distratto da altro?

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