di Michele Paris

Da qualche tempo gli Stati Uniti stanno facendo enormi pressioni sul governo dell’Iraq per cercare di mantenere una presenza consistente di proprie truppe in questo paese oltre il 31 dicembre prossimo. Lo spostamento della data fissata bilateralmente per il ritiro di tutti i soldati americani potrebbe tuttavia creare non pochi problemi al governo del premier Maliki e minacciare la stabilità stessa del paese. Con l’avanzata delle proteste nel mondo arabo, da Washington sembrano in ogni caso pronti ad accettare il rischio pur di avanzare i propri interessi strategici nella regione mediorientale.

Secondo l’accordo firmato con il governo di Baghdad dal presidente Bush nel novembre 2008, tutte le truppe statunitensi sul suolo iracheno dovranno ritirarsi entro la fine dell’anno 2011. Attualmente, in Iraq sono presenti poco meno di 50 mila soldati occupanti. Nonostante Barack Obama nell’agosto scorso dichiarò ufficialmente concluse le operazioni di combattimento, la svolta è stata puramente di facciata e gli americani continuano a mantenere numerose basi militari nel paese.

Ad alzare la voce a Washington negli ultimi giorni è stato il Segretario alla Difesa uscente, Robert Gates, destinato il 30 giugno prossimo a lasciare l’incarico affidatogli da George W. Bush nel 2006 al direttore della CIA, Leon Panetta. In una conferenza presso il think tank conservatore "American Enterprise Institute", il numero uno del Pentagono ha sostenuto chiaramente la volontà del proprio governo di continuare a mantenere un contingente militare in Iraq ben oltre il 31 dicembre 2011.

Ciò che spinge gli americani a volere rimanere, a detta di Gates, è l’incapacità dei militari iracheni a difendere da soli il paese. L’esercito locale sarebbe sprovvisto degli strumenti logistici e di intelligence necessari a far fronte alle minacce interne ed esterne. Le carenze dell’Iraq sono peraltro la diretta conseguenza dell’invasione illegale degli Stati Uniti nel 2003 e della successiva incapacità degli occupanti di costruire una struttura statale e di difesa autonoma ed efficace. Ciò corrisponde d’altra parte alla strategia americana che punta precisamente su una controparte irachena debole per giustificare la propria permanenza nel paese.

Le dichiarazioni di Gates sono solo l’ultimo di una serie di interventi dei vertici politici e militari americani sul governo di Maliki per convincerlo a richiedere in maniera formale il prolungamento della scadenza del 31 dicembre. Lo stesso Segretario alla Difesa e il Capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, erano stati a Baghdad lo scorso mese di aprile per premere sul primo ministro, così come hanno fatto altri esponenti di spicco del Dipartimento di Stato inviati nelle ultime settimane a Baghdad.

A oltre otto anni dall’invasione dell’Iraq, l’atteggiamento americano rivela ancora una volta le ragioni che hanno spinto gli Stati Uniti a rovesciare il regime di Saddam Hussein. Nel suo intervento all’American Enterprise Institute, Gates ha affermato che la permanenza di truppe USA in Iraq manderebbe un segnale forte a tutta la regione. Un segnale rassicurante per le monarchie dittatoriali del Golfo - impegnate nella repressione del dissenso interno con l’avallo di Washington - e, al contrario, ben poco incoraggiante per l’Iran, con cui si getterebbero le basi per un ulteriore inasprimento dei rapporti.

Un’avventura bellica intrapresa per impedire il proliferare d’inesistenti armi di distruzione di massa e per portare la democrazia viene dunque ora prolungata a oltranza per consentire il controllo da parte americana del quarto paese del pianeta per riserve petrolifere accertate. Il diffondersi delle inquietudini nei paesi arabi rende poi ancora più urgenti le necessità strategiche americane di continuare ad esercitare la propria influenza in un Medio Oriente in pieno fermento.

Chiedere ai vertici militari degli Stati Uniti di rimanere nel paese indefinitamente è in ogni caso una decisione a dir poco complicata per Maliki, dal momento che l’occupazione americana è comprensibilmente avversata dalla stragrande maggioranza degli iracheni. In suo soccorso potrebbe però giungere un imminente rapporto sulle condizioni delle forze armate locali stilato dai comandanti militari, i quali hanno ottenuto i loro incarichi proprio grazie agli Stati Uniti. Secondo quanto scritto dalla Reuters un paio di giorni fa, il quadro dipinto dai generali iracheni sarebbe quello di un esercito impreparato a difendere il paese e a contrastare eventuali attacchi degli “insorti”.

Se questa relazione potrebbe fornire al premier Maliki l’assist per chiedere la permanenza delle truppe USA, la questione rimane comunque estremamente delicata. Tant’è vero che lo stesso Maliki aveva sempre respinto fermamente ogni ipotesi di prolungamento del trattato con Washington. Dietro insistenza americana, il primo ministro solo recentemente ha mostrato maggiore disponibilità, vincolando però la decisione ad un accordo da cercare con la maggioranza delle forze politiche irachene.

Sempre il Segretario Gates ha apertamente ammesso di perseguire una politica rischiosa per la stabilità del paese e che va contro i sentimenti della popolazione irachena. Per Gates, infatti, “prolungare l’occupazione americana è una sfida politica perché, che ci piaccia o meno, non siamo molto popolari in Iraq”. Alla luce della distruzione della società irachena dopo l’invasione del 2003, della morte di oltre un milione di persone e di un’occupazione senza fine in vista, l’analisi del capo del Pentagono risulta facilmente condivisibile.

All’interno del gabinetto di Maliki le resistenze maggiori sono quelle dei sadristi di Muqtada al-Sadr che continuano a mettere in guardia da un allungamento dei tempi per il ritiro delle forze americane. Le loro minacce risultano particolarmente preoccupanti, visto che il secondo governo Maliki è potuto nascere solo grazie al supporto dei trenta parlamentari sadristi dopo uno stallo durato nove mesi in seguito alle elezioni del marzo 2010. In questo scenario, è facile prevedere che un accordo tra Maliki e gli americani provocherebbe una rapida caduta del governo a Baghdad e una nuova escalation di violenze nel paese.

I sadristi e il loro “esercito di Mahdi” condussero già una lotta armata contro gli statunitensi nel 2004 e oggi possono contare su un vasto seguito tra gli sciiti più poveri residenti a Baghdad e nel sud dell’Iraq. Le sole voci di una possibile permanenza nel paese di truppe americane dopo la fine dell’anno hanno causato negli ultimi mesi un intensificarsi degli attacchi contro i soldati occupanti.

Contro l’occupazione non mancano poi anche accese manifestazioni di protesta, come quella andata in scena proprio giovedì a Baghdad e a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. Sciiti dei quartieri più disagiati e sostenitori di Muqtada al-Sadr hanno sfilato per le strade della capitale calpestando e bruciando bandiere americane e di Israele. Un messaggio chiaro quello lanciato dai partner di governo di Maliki e con il quale il premier iracheno dovrà fare i conti se deciderà di assecondare i progetti di Washington per il futuro del suo paese.

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