di Carlo Musilli

"Rimpiangerete i giorni dello sceicco. Le braci della jihad ardono più di quando lui era in vita". Le ultime minacce agli Stati Uniti arrivano dalla penna dello yemenita Nasser al-Wahishi, capo di Al Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa). Braccio destro di Bin Laden in Afghanistan negli Anni 90, al-Wahishi è oggi uno degli obiettivi principali delle forze speciali americane. Nel comunicato diffuso l’altro ieri su internet, il terrorista ha fatto sapere che "la guerra santa contro l'Occidente sarà intensificata. Il peggio deve ancora venire".

Da più di una settimana sentiamo ripetere che la morte di Osama scatenerà ritorsioni dei fondamentalisti islamici in Europa e negli Usa. Governi in ansia, livelli d'allerta che cambiano colore, sfumando verso il rosso. Se davvero corriamo un pericolo maggiore proprio ora che Bin Laden non c'è più, resta da capire da dove arrivi la minaccia più seria. Gli analisti di tutto il mondo non hanno dubbi: dallo Yemen.

L'Aqpa è nata nel gennaio 2009 dalla fusione delle branche yemenita e saudita di Al Qaeda. Il gruppo saudita è stato combattuto con successo dal governo di Riyadh e i suoi membri sono stati costretti a riparare in Yemen. Qui la miseria nera della popolazione civile e la latitanza del governo centrale hanno costituito un terreno fertile per il proliferare della rete.

Nel dicembre 2009 il segretario di Stato americano, Hilary Clinton, ha attribuito formalmente al gruppo la status di organizzazione terroristica. Solo nove mesi dopo, la Cia ha definito l'Aqpa "il ramo più pericoloso di Al Qaeda". Anche più di quello principale con sede in Pakistan, direttamente controllato da Bin Laden. Fra le varie azioni, gli yemeniti sono responsabili del fallito attentato sul volo Amsterdam-Detroit del dicembre 2009 e dei pacchi bomba spediti negli Usa alla fine dello scorso ottobre.

Il ruolo centrale dello Yemen nella ragnatela del terrorismo internazionale sembra essere confermato dall'atteggiamento degli americani. L'ultimo bombardamento Usa nel Paese risale a giovedì scorso, quando un drone si è messo a sparare un po' alla cieca nella provincia sudorientale di Shabwa. Due membri di Al Qaeda sono stati uccisi, ma il bersaglio numero uno è stato mancato. Era Anwar al Awlaki, un fondamentalista nato proprio in America che ha dedicato la vita a propagandare la jihad nel mondo.

Ma sarà poi così vero che gli occhi spaventati di tutto il mondo debbano puntarsi proprio sul più disgraziato dei Paesi arabi? Il ruolo e l'organizzazione di Al Qaeda sono profondamente cambiati negli ultimi dieci anni e questo spiega il nuovo ruolo assunto dallo Yemen. In origine la struttura del comando era fortemente gerarchizzata e centralizzata. I dettagli di ogni operazione, dal reclutamento all'attentato, erano definiti da un ristretto numero di persone: Bin Laden, il suo secondo al Zawahiri e una manciata di altri miliziani.

Oggi Al Qaeda è una realtà molto più frammentata. La maggior parte degli attacchi viene pianificata e messa in atto su iniziativa dei singoli quartier generali. Questo non vuol dire che i terroristi siano meno pericolosi. Riescono ancora ad ispirare jihadisti in tutto il mondo. Questa nuova natura dell'organizzazione spiega però l'emergere di sezioni apparentemente periferiche come quella yemenita. Bisogna poi considerare che da qualche mese Al Qaeda deve fare i conti anche con un nuovo e inaspettato nemico: le rivolte contro i dittatori del mondo arabo.

Prima della primavera araba il messaggio veicolato dai terroristi era molto più efficace. Si trattava di combattere contro governi empi e oppressori, collusi con il potere ancora più empio degli imperialisti americani.  Una missione facile da diffondere fra popolazioni ridotte in schiavitù. Peccato che oggi molte di quelle popolazioni si siano rese conto di poter rivendicare in modo autonomo la propria libertà. In Maghreb come in Siria.

E così anche nello Yemen, dove da quasi quattro mesi le principali città, sostenute da alcune falangi dell'esercito, sono insorte contro il potere trentennale di Abdullah Saleh. Non è un caso che proprio in questo Paese Al Qaeda abbia messo radici più profonde. Incapace di gestire i nodi di una società tribale, la dittatura yemenita ha sempre avuto un controllo del territorio minimo se paragonato a quella degli altri Paesi arabi.

Ma paradossalmente qui lo scoppio della protesta ha fatto fare dei nuovi passi avanti ai terroristi. I manifestanti yemeniti non hanno i numeri né la forza di quelli egiziani o tunisini, né le capacità militari dei ribelli libici. L'unica strada per superare la crisi è quella politica. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha proposto un piano di transizione inizialmente accettato sia da Saleh che dai suoi oppositori. Poi però la trattativa si è inceppata nella definizione degli ultimi dettagli, ed è arrivato lo stallo. Il che vuol dire scontri a fuoco quotidiani, morti e sostanziale anarchia. Al Qaeda non poteva chiedere di meglio.

 

 

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