di mazzetta

Le utime dall'Afghanistan ci hanno raccontato che la presidenza Obama ha affidato il proseguimento della guerra al generale Petraeus, il quale aveva spiegato al mondo che gli americani avrebbero cercato di vincere “hearts and minds”, i cuori e le menti degli afgani. I conti però non tornano, perché dall'Afghanistan - e in particolare dalla regione di Kandahar - giungono notizie che vedono l'esercito americano impegnato in veri e propri crimini di guerra, in particolare nell'esercizio di quelle punizioni collettive della popolazione severamente vietate dai codici di guerra internazionali, Convenzione di Ginevra su tutti.

In due casi, nella provincia di Zhari, gli americani hanno arrestato e detenuto tutti gli abitanti, compresi i bambini e le donne, di due villaggi dai quali qualcuno aveva sparato fucilate agli americani. Circondati i villaggi hanno prelevato la popolazione e l'hanno portata via. Ma è un'altra tattica, che si sta affermando sempre più a sollevare rabbia tra gli afgani e commenti severi presso quei pochi occidentali ancora inclini a discutere di quel che fanno “i nostri ragazzi” in Afghanistan: quella della demolizione di interi villaggi.

Sono infatti ormai migliaia gli abitanti delle province di Arghandab, Zhari e Panjwaii rimasti senza casa perché gli americani hanno raso al suolo i loro villaggi. Gli americani dicono che lo fanno perché gli abitanti non rispondono alle loro richieste di consegnare le trappole esplosive delle quali questi villaggi sarebbero imbottite. Circostanza da chiarire perché è abbastanza strano che gli afgani vivano in villaggi imbottiti di trappole esplosive sperando che prima o poi gli americani siano così tonti da entrarci senza cautele.

Sia come sia, la presenza di eventuali mine o trappole esplosive non autorizza di certo un esercito a distruggere interi villaggi radendoli al suolo, ma di villaggi gli americani ne hanno raso al suolo parecchi. Fortunatamente dopo aver spiegato agli abitanti che era il caso di abbandonarli se non si voleva fare la stessa fine. Per gli americani la rabbia della gente non sembra rilevante e la scusa degli esplosivi sembra sufficiente come lo fu quella delle armi di distruzione di massa per invadere e distruggere quel che rimaneva dell'Iraq già bombardato in precedenza.

Al colmo dell'ironia o del disprezzo - a seconda dell'osservatore - ci ha pensato il brigadiere generale Nick Carter (si chiama proprio così) a spiegare alla stampa che la tattica ha anche il benefico effetto di avvicinare la popolazione ai rappresentanti afgani, che dopo ogni demolizione devono fronteggiare la rabbia dei profughi privati della casa e dei loro averi. Argomentazione allucinante e degna di un ufficiale nazista per lo spregio verso le vittime le leggi di guerra.

Governatori-fantoccio di un governo-fantoccio al potere in virtù di elezioni che gli stessi americani hanno definito per nulla regolari; ma sarebbe già qualcosa se la popolazione trovasse un sollievo nella loro opera. Invece niente, non ci sono risarcimenti, non ci sono altre case, nemmeno tendopoli, bisogna che gli afgani ai quali gli americani demoliscono le case si arrangino.

Perché il vasto ricorso a crimini di guerra se l'obiettivo è quello di vincere la simpatia degli afgani? Probabilmente perché nessuno è interessato veramente allo scopo dichiarato ufficialmente, perché gli americani hanno capito che è una guerra che non potranno mai vincere e allora non fa differenza se gli americani si fanno amare od odiare dagli afgani.

Il ricorso alle maniere forti non farà che spingere sempre più gli uomini verso la resistenza anti-occidentale ed è chiaro che se si ricorre a tattiche tanto disperate e brutali è perché ormai allo scopo ufficiale della guerra (“portare la democrazia in Afghanistan”) non crede più nessuno e non è nemmeno il caso di sforzarsi per conservare la decenza.

Infatti gli americani procedono e, nonostante alcuni dei principali media americani (ad esempio il Washington Post) ne diano notizia, negli States non ci sono state reazioni politiche, a nessun livello, nemmeno tra gli alleati. Figurarsi da parte di Karzai, che negli ultimi tempi si è fatto notare per aver detto che rimpiange i tempi di Bush, perché allora l'amministrazione lo sosteneva a spada tratta e non osava accusarlo qualunque cosa accadesse.

Facile mettersi nei panni degli afgani e concludere che niente di buono verrà dal governo o dalle forze d'occupazione occidentale, ma è abbastanza facile anche mettersi nei panni dei militari americani e concludere che pensano solo al giorno in cui lasceranno il paese. Non servivano certo i cablo pubblicati da Wikileaks per capire che la Nato non ha alcuna speranza di controllare il confine con il Pakistan e quindi di togliere ossigeno alla resistenza afgana: non è da ieri che gli stessi esperti americani dicono che la guerra non si può vincere.

Ma se la guerra non può essere vinta, che senso ha rimanere in Afghanistan ad alzare il livello dello scontro fino a commettere numerosi e odiosi crimini di guerra? Non si capisce bene, forse è solo rabbia, gli americani sono in Afghanistan da nove anni e non hanno concluso niente, da nove anni si aggirano per il paese pagando gli stessi talebani perché facciano da scorta ai convogli e armando reclute che poi disertano e sparano sugli alleati con le armi che gli abbiamo dato noi.

Sarebbe stato davvero strano se ne fosse venuto un successo, ma trasformare un fallimento militare in una vergogna, operando rappresaglie sulla popolazione civile, è ancora peggio. Peccato che il governo italiano sia in altre faccende affaccendato, che gli “umanitari” guardino al Darfur, che i paladini dei diritti civili guardino agli impiccati in Iran e che il nostro ministro della difesa sia impegnato a minacciare il Brasile che non concede l'estradizione per Battisti.

Davvero un peccato, agli afgani non pensa nessuno, se non per qualche tirata dei soliti razzisti contro il burka. Robaccia ad uso interno, di liberare le donne afgane non importa a nessuno, men che meno a quelli che hanno usato le loro sofferenze per giustificare la guerra.

 

 

di Carlo Musilli

A Falluja centinaia di bambini nascono con difetti al cuore, allo scheletro, al sistema nervoso. Il tasso di malformazioni nei neonati è di undici volte superiore alla norma e negli ultimi anni ha fatto registrare un incremento spaventoso, raggiungendo livelli record nei primi sei mesi del 2010. Un'epidemia di danni genetici causata probabilmente dalle armi degli americani, che nel 2004 attaccarono due volte la città irachena. E' quanto sostiene uno studio scientifico che sarà pubblicato sul prossimo numero dell'International Journal of Environmental Research and Public Health e di cui il Guardian ha dato alcune anticipazioni.

Nessuno prima d'ora aveva avuto il coraggio di mettere in relazione la guerra con il fenomeno delle malformazioni, eppure di indagini ne erano state fatte. Due ricerche avevano già dimostrato come a Falluja, dopo l'attacco americano, le nascite di bambini maschi fossero improvvisamente diminuite del 15%. Da uno studio epidemiologico pubblicato nel luglio scorso, inoltre, è emerso che nella stessa zona, fra il 2004 e il 2009, il numero di tumori e leucemie è quadruplicato. Ora è superiore a quello registrato fra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.

L'ultimo rapporto ha analizzato la situazione di 55 famiglie in cui, fra il maggio e l'agosto di quest'anno, sono nati bambini con gravi malformazioni. Soltanto nel mese di maggio, dei 547 bambini presi in esame, quelli deformi erano il 15%. Nello stesso periodo si è avuto l'11% di parti prematuri e il 14% di aborti spontanei. A detta però degli stessi scienziati che li hanno prodotti, questi dati fotografano la realtà in modo incompleto. A Falluja, infatti, la maggior parte delle donne non partorisce in ospedale. E quelle che danno alla luce un figlio deforme, difficilmente si rivolgono a un medico. Eppure, alcuni casi documentati nella ricerca raccontano una verità difficile da fraintendere. Come quello di una madre e una figlia, che, dopo il 2004, hanno partorito entrambe bambini malformati. Il padre di uno dei due piccoli si è risposato e ha avuto un altro figlio, anche lui con problemi genetici.

"In condizioni normali, le probabilità che si verifichi un caso simile rasentano lo zero - ha spiegato al quotidiano inglese Mozhgan Savabieasfahani, uno degli estensori del rapporto -  e sospettiamo che la popolazione sia cronicamente esposta a un agente ambientale. Non sappiamo quale sia, ma stiamo facendo ulteriori test per appurarlo". Non lo sappiamo, ma lo sospettiamo fortemente. Gli scienziati parlano genericamente di "metalli" come possibili responsabili delle malformazioni. Per prudenza, devono tenersi sul vago.

Chi invece non ha mai aperto un manuale di tossicologia in vita sua, ma magari ha letto un giornale, pensa immediatamente a qualcosa di specifico: i proiettili all'uranio impoverito usati dai soldati americani nell'aprile e soprattutto nel novembre del 2004, durante la seconda battaglia di Falluja. In quell'occasione, all'attacco partecipò anche l'esercito inglese.

In realtà, la questione è controversa. Molti sostengono che i famigerati proiettili portino con sé un residuo tossico, pericoloso soprattutto nel lungo periodo. Al momento, però, non ci sono prove scientifiche. Anzi, secondo alcuni sarebbe addirittura dimostrato che l'uranio impoverito non possa agire come contaminante. Ma non è questo il punto. Gli stessi ricercatori ammettono che "diversi altri contaminanti usati in guerra possono interferire con lo sviluppo dell'embrione e del feto". Ricordano, ad esempio, "i devastanti effetti della diossina" sui bambini vietnamiti.

Anche ammettere l'innocenza dell'uranio impoverito, quindi, non basterebbe a scagionare l'esercito americano.  Nel 2005 un'inchiesta di Rainews24 documentò che, dopo i bombardamenti, i soldati Usa erano soliti gettare a caso per le strade di Falluja quintali di fosforo bianco. Inizialmente il Dipartimento di Stato americano aveva negato.

In seguito, il Dipartimento della Difesa aveva ammesso l'utilizzo del fosforo bianco come arma offensiva contro i nemici (già questo sarebbe illegale: nel '97 gli Usa hanno firmato una convenzione contro l'utilizzo delle armi chimiche), ma aveva escluso categoricamente di aver colpito dei civili. Willie Pete, come amichevolmente viene chiamato dai militari il "White Phosphorus", scioglie la carne umana come un'aspirina. E, negli anni, è fonte di mutazioni genetiche.

Oggi come allora l'esercito americano rifiuta ogni responsabilità. Non solo. Quasi a schernire gli iracheni, ha fatto sapere che chiunque abbia delle lamentele è invitato a scrivere messaggi di protesta al Pentagono. Alcuni disperati l’hanno fatto. Inutile dire che non hanno ricevuto risposta.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Due definizioni circolano con insistenza nel mondo della politologia  di questa Russia d'inizio d’anno. La prima - “Il Partito non è un circolo di discussioni” - è di Stalin, che non era certo un fautore del pluripartitismo... La seconda - “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione” - è di Tomski, il sindacalista rivoluzionario russo degli anni ’30. E c’è poi chi, sempre in questo contesto di citazioni e di rimandi storici ed ideologici, si rifà a Simone Weil, che paragonava i partiti ad una lebbra che uccide, chiedendone, di conseguenza, la soppressione. Ma è chiaro che in un paese come la Russia, che ha alle spalle quell’Unione Sovietica a partito unico, il tema della nascita di nuove formazioni è sempre attuale.

Sulla scena ci sono i partiti nati dal crollo del 1991: “Russia unita”, “Russia giusta”, “Liberal-democratici”, “Partito “Nazional-bolscevico”, “Russia che lavora”, “Comunisti della Federazione russa”... ed ora si delinea sempre più all’orizzonte il “Partito della Libertà Popolare”. Il quale, anche sull’onda del riconoscimento fatto da Medvedev nei giorni scorsi a determinati suoi esponenti, alza la testa e scende nelle piazze come avvenuto domenica scorsa a Mosca.

Ed ecco che si torna a parlare di esponenti che sembravano dimenticati. A cominciare da quel Michail Michajlovic  Kassianov (classe 1975), personaggio molto discusso che iniziò la sua carriera nelle strutture economiche dell’Urss e che fu, nel 2000, alla guida del governo russo. Le malelingue lo ricordano solo come un corrotto pronto a prendere il 2% su ogni transazione (Non a caso era chiamato, in russo, “Miscia dva per zenta”). Altro nome ora riesumato da Medvedev è quello di Boris Efimovic Nemtsov (1959). Un ingegnere che fu esponente di spicco nei movimenti che scaturirono dal crollo dell’Urss. Seguace di Eltsin e del riformista Gajdar è stato anche vice premier della Russia.

Segue a ruota - sempre nell’elenco di Medvedev - Vladimir Aleksandrovic Rigkov (1966), uno storico che fu negli anni ’80 l’organizzatore del movimento democratico nella regione siberiana degli Altai. Deputato alla Duma nel 1993 è divenuto un personaggio di primo piano nella scena politico-amministrativa del Paese.

C’è poi lo scacchista campione del mondo, Garri Klimovic Kasparov (1963), che nel 2000 scelse la strada della vita politica divenendo uno dei maggiori leader dell’opposizione. Ultimo in questa lista di Medvedev è lo scrittore Edmund Vladimirovic Limonov (1943). Un intellettuale notoriamente scomodo per il Cremlino di Putin. Si deve a lui la fondazione del “Partito nazional-bolscevico”. Numerose le sue contestazioni alla testa di rivolte di strada e le sue gesta di combattente, al fianco dei serbi nella guerra jugoslava del 1991-1993.

Ed ecco ora, sullo sfondo di questi nomi, che i rappresentanti dell’opposizione liberale intendono far registrare il nuovo partito politico ed andare alle elezioni  alla Duma nel 2011. Ed entro il 2012, anno in cui sono in programma le elezioni presidenziali, si propongono di avanzare un candidato comune. Ma secondo il direttore generale del “Centro per lo studio della congiuntura politica” Serghej Mikheev la nuova formazione non dovrfebbe avere prospettive: “Sono convinto - dice - che questo partito non è in grado di superare la barriera di accesso al Parlamento poiché il suo indice di gradimento è estremamente basso. Tutta questa gente si era screditata ancora negli anni ‘90. Personalmente, quindi, non vedo nessuna prospettiva per questo partito”.

Stesso giudizio viene espresso da altri politologi russi. E così, pur se si apprezzando gli impegni di questa nuova formazione in merito alla salvaguardia dell’ambiente, la libera iniziativa, la lotta contro i monopoli e la lotta contro la corruzione, non vi dovrebbero essere spazi di successo. Proprio per il fatto - dice ancora Mikheev - che “questo  nuovo Partito ha adottato gli slogan di cui oggi parlano tutti. È chiaro che tutti questi problemi vanno risolti. Il Partito auspicato se offrisse qualche cosa di nuovo, avrebbe una possibilità di essere sentito dagli elettori. In realtà, invece, duplica l’attuale ordine del giorno, tentando di riferire tutte le iniziative in questo campo a sé stesso”.

E anche qui non va tutto liscio. È ingenuo pensare che i russi hanno dimenticato i nomi di coloro che erano stati al potere all’inizio degli anni 90 - ricorda l’esperto: “Francamente Nemtsov, Kassianov e compagnia, che  in quel periodo ricoprivano alte cariche in seno al governo, furono alle origini dell’attuale imperversare della corruzione e della burocrazia che ora ci troviamo ad affrontare. Sono autori del sistema che ora ci impedisce di vivere una vita normale. In buona parte è una manipolazione dell’opinione pubblica nella speranza che il popolo ha già dimenticato chi era tutta questa gente in un recente passato”.

Molti analisti di Mosca concludono ora che l’obiettivo principale del nuovo partito e dei suoi fondatori - in un mondo fatto di gesti - è quello di ricordare sé stessi, di tornare alla grande politica, di fare un altro tentativo per rientrare nell’arena del potere. Quell’arena che oggi è dominata da Putin e da Medvedev. Ma che, viste le ultime sortite, potrebbe far registrare diverse crepe nelle pur forti mura del Cremlino.

di Fabrizio Casari

Emine Demir, ex redattrice del quotidiano curdo Azadiya Welat (che in curdo significa “L’indipendenza dalla madre patria”), è stata condannata da un tribunale di Diyarbakir, la principale città della Turchia sud-orientale, a maggioranza curda, a ben 138 anni di carcere per “propaganda in favore dei ribelli curdi”. Non é una novità assoluta la sorte di Emine, anzi é al secondo posto sul podio dell’ignominia turca contro l'informazione. A maggio era infatti toccato al caporedattore (sempre del medesimo quotidiano) Vedat Kursum, 36 anni, giornalista nonché editore del quotidiano. A lui, per gli stessi reati, erano stati inflitti 166 anni di carcere. Più fortunato Ozan Kilinc, ex direttore del quotidiano, condannato dieci mesi fa a “soli” 21 anni di prigione.

Non aspettatevi adesso editoriali grondanti indignazioni sui principali media internazionali. Emine Demir, purtroppo per lei, non è cubana. Fosse stata cubana, l’appellativo di “dissidente” gli sarebbe valso l’immediata protesta degli Stati Uniti, che ne avrebbero chiesto l’immediata liberazione. Fosse stata cubana l’Unione Europea avrebbe lanciato sdegnati comunicati contro la “brutale repressione del regime” e Reporter Sans Frontieres avrebbe lanciato raccolte di firme, convegni e proteste d’ogni tipo sostenute dallo stesso conto corrente, cui avrebbe fatto seguito la nascita, nel più breve tempo possibile, di una candidatura vittoriosa al Nobel per la pace.

Ma, purtroppo per lei, Emine non è cubana. E’ curda lei e turco il tribunale che l’ha condannata. Turco, non cubano. Di quel paese cioè che si autodefinisce democratico e laico e che aspira ad entrare in Europa, spinto proprio dagli stessi paesi della Ue che condannano Cuba per una presunta e mai dimostrata violazione dei diritti umani. D’altra parte, aver sterminato gli Armeni prima e i curdi poi non sarà poi cosa più ignobile che definirsi socialisti a 90 miglia da Miami, no?

Emine Demir potrà ricorrere in appello, facoltà attribuita ai vivi. Questo perché non è nemmeno honduregna, altrimenti invece che essere condannata a 138 anni di carcere per aver espresso delle opinioni sarebbe semplicemente morta, come morti sono i dieci giornalisti honduregni che denunciavano in questi mesi l’orrenda repressione a seguito del Colpo di Stato a Tegucigalpa, che ha deposto Manuel Zelaya, legittimo Presidente dell’Honduras.

Dieci giornalisti uccisi da grandinate di proiettili. L’ultimo è stato Henry Suazo, corrispondente di Radio HNR di Tegucigalpa. Prima di lui, a cadere sotto il piombo dei giganti della democrazia e del libero mercato è toccato a Joseph Ochoa, di Canale 51; David Meza, di Radio El Patio; José Bayardo Mairena e Víctor Manuel Juárez, di Radio Super 10; Nahum Palacios, della Televisione del Aguán e Luis Chévez, dell’emittente W105. Si aggiungono a Georgino Orellana, di un canale di San Pedro Sula; Nicolás Asfura, giornalista radiofonico e Luis Arturo Mondragón, direttore del notiziario del Canale 19 della città di El Paraíso. Tutti assassinati nel corso di quest’anno.

Dieci colleghi sfortunati, perché nati nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Fossero stati cubani sarebbero vivi e nei pensieri della signora Clinton, ma l’Honduras è la più grande base militare Usa fuori dai confini statunitensi e dunque davanti a tanta magnitudine cosa volete che siano dieci morti, per di più giornalisti?

E non parliamo di giornalisti diventati tali solo aver mai pubblicato niente, come succede a Cuba; questi erano giornalisti veri, che scrivevano, parlavano e raccontavano. Non fondavano partiti, non erano stipendiati dalla locale ambasciata Usa; facevano il loro mestiere per due soldi, spacciavano racconti di corruzione, repressione e narcotraffico.

In fondo, però, poca roba, confronto ai 14 giornalisti assassinati in Messico nel 2010, perché anche il Messico, va precisato, è una grande democrazia. Il fatto che sia un narco-stato, il pusher prediletto per gli Stati Uniti, cioé il più grande consumatore di droghe al mondo, non può far velo al merito di rappresentare pienamente gli interessi petroliferi del Big Brother confinante.

Per non parlare del Guatemala, dove ormai i giornalisti uccisi rasentano il numero di quelli in attività. Ma anche qui bisogna andarci cauti: essere il bastione dell’anticomunismo per tanti anni può legittimamente determinare alcuni eccessi e risulterebbe oltremodo pignolo e pernicioso stendere la contabilità dei danni collaterali nel corso di una guerra santa. La stessa che si combatte in Colombia, dove i quattro giornalisti uccisi quest'anno rappresentano la percentuale infinitesimale di quanti vengono minacciati dagli squadroni della morte del narcostato di José Santos.

Nel corso del 2010 i giornalisti uccisi sono 106, secondo le stime di Suize Press. Oltre a quelli già citati, dieci sono stati assassinati in Pakistan, otto in Irak, sei nelle Filippine, quattro in Russia, Brasile e Nigeria. Sembra che sia l'America Latina il luogo più pericoloso nel quale svolgere la professione, mentre gli Stati Uniti sono quello più remunerativo.

Pare che tra il libero mercato e le libere opinioni sia ormai difficile mediare: il primo prevede che le seconde siano docili o detenute, le seconde prevedono che il primo le lasci circolare impunemente soprattutto se contrarie. Dev’essere questo il nuovo modello di relazione tra affari e opinioni: più il mercato é libero, più l'edilizia carceraria e le imprese funerarie prosperano.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Ti svegli alle sette meno un quarto nella tua casa di periferia. Comprata con un mutuo subprime a tasso variabile, non è più tua ma appartiene a Bank of America, che ha aumentato gli interessi mandandoti in bancarotta e si appresta a sfrattarti. Prendi la macchina, comprata con un finanziamento agevolato, che dovrai pagare per altri vent'anni, esci di casa e prendi l'autostrada per andare al lavoro. Il pedaggio autostradale, raddoppiato nell'ultimo anno, lo paghi al fondo sovrano di oligarchi russi. Hanno acquistato l'autostrada dallo Stato dell'Illinois, i cui conti sono in rosso a causa della crisi finanziaria e del crollo delle entrate fiscali.

Arrivi a Chicago e parcheggi davanti a McDonalds. Metti i soldi nel parchimetro e ti accorgi che ora la sosta a pagamento non finisce più alle sei ma dura ventiquattro ore e il costo del parcheggio é raddoppiato. Un fondo sovrano riconducibile alla famiglia reale saudita, ha comprato tutti i parcheggi della città in saldo e poi ha aumentato le tariffe senza consultare il sindaco. “Ti ricordi che avevi un lavoro, una casa, una macchina, una famiglia e c'era sempre cibo nel frigo e adesso ti trovi da sei mesi con problemi di droga e ogni mattina porti fuori in giardino TV e tostapane e li metti in vendita per quattro spiccioli e pagarti un panino a mezzogiorno.”

Secondo Matt Taibbi questo è lo stato attuale dell'economia americana. Nella sua ultima imperdibile opera “Griftopia,” che potremmo tradurre come “Furtopìa,” il giornalista americano scava a fondo nel cuore della recente crisi finanziaria. E svela come il sistema finanziario americano abbia realizzato una vera e propria utopia al rovescio, in cui le banche d'affari mettono le mani nelle tasche dei cittadini e allo stesso tempo svendono persone, cose e infrastrutture a fondi d'investimento stranieri che riciclano proventi del petrolio. Il tutto in cambio di una piccola commissione, che permette ai top manager di intascare bonus da centinaia di milioni di dollari.

Breve riassunto delle puntate precedenti. L'euforia della New Economy dei formidabili anni novanta aveva portato i risparmiatori americani a giocare tutti i loro soldi in borsa. La bolla è scoppiata nel 2001 e ha spazzato via tutti i risparmi di una generazione, che si è trovata senza più soldi in tasca per la pensione. Ma, come incalliti giocatori di poker, i consumatori americani hanno subito cominciato a prendere denaro a prestito per speculare sul mercato immobiliare, che secondo Alan Greenspan, capo della Federal Reserve, era destinato ad una crescita eterna.

Le magnifiche sorti e progressive erano ovviamente destinate a naufragare. La bolla immobiliare scoppiata nel 2008 lascia i poveri consumatori americani cornuti e mazziati: non solo senza più soldi, ma anzi pieni di debiti da ripianare. Con il crollo verticale delle entrate fiscali e i bilanci in rosso, le amministrazioni alla canna del gas hanno deciso di svendere tutti i beni pubblici per quattro soldi al primo che passa.

Il caso vuole che si tratti quasi sempre di Goldman Sachs, Morgan Stanley o qualche altra delle banche d'affari “troppo grandi per fallire.” Che dopo aver ripulito le casse del Tesoro americano con una vera e propria rapina a mano armata (altrimenti nota come “piano di salvataggio finanziario”) si apprestano ora a vendere in saldo il resto del Paese.

Chi possiede liquidità per miliardi di dollari, tali le cifre necessarie per affittare per cento anni autostrade, parcheggi, laghi, fabbriche in bancarotta? Qui entra in gioco il genio puro delle banche d'investimento, artefici di un trucco da manuale. Esistono sul mercato finanziario enormi fondi d'investimento, di proprietà oscure ma riconducibili all'OPEC, sceicchi arabi e Russia in testa, alla caccia perenne di affari gustosi. Con il crollo del settore immobiliare nel 2008, che ha trascinato con sé le borse di tutto il mondo, questi fondi si sono trovati con un sacco di liquidità e nessun posto in cui investire.

Goldman Sachs allora inventa il mercato dei futures dei beni di consumo. Ovvero inizia a vendere una quantità smisurata di contratti al rialzo su acquisti futuri, creando un'impennata nei prezzi di petrolio e grano come non si era mai vista. Da un lato, il picco nel prezzo del grano ha portato alla fame metà del pianeta. Dall'altra, il record mondiale di 149 dollari al barile toccato dal petrolio nell'estate del 2008 ha trascinato in su tutti i prezzi al dettaglio, nel pieno della crisi economica. Grazie alla finanza creativa dei futures, Goldman ha fatto realizzare profitti impressionanti ai fondi sovrani arabi e russi. Che dopo questo giochetto si sono trovati ad essere i più potenti assets del mercato globale.

E infine l'ultimo tassello del crimine perfetto: le banche, quasi curatrici di un'asta fallimentare, impacchettano e vendono i beni pubblici in saldo ai fondi sovrani. In ognuna di queste transazioni, le banche guadagnano una certa percentuale che si trasforma in bonus dorati di tre mesi in tre mesi. Grazie a questa strategia, in pochi anni gli Stati Uniti si sono trasformati in una landa desolata, percorsa da fondi sovrani alla ricerca degli ultimi ossi da spolpare, guidati dai segugi infaticabili di Goldman Sachs, che si accontentano di qualche decina di miliardi di dollari di briciole.

Senza saperlo, i cittadini americani si sono un giorno svegliati all'interno di The Matrix, dove tutto quello che li circonda, il paesaggio attorno a loro, strade, case, stadi, parcheggi, automobili, montagne, fiumi e laghi, è stato venduto a qualche entità dagli assetti proprietari oscuri. Le amministrazioni locali, venduto il vendibile, non hanno più alcuna voce in capitolo nella gestione della cosa pubblica: perché la cosa pubblica non esiste più. La politica è svuotata di qualsiasi potere reale.

Ci resta da aspettare che le banche spolpino l'osso per bene e lascino gli Stati Uniti ad agonizzare, volgendo lo sguardoverso nuovi orizzonti di profitti. Che probabilmente, come abbiamo visto nell'anteprima greca, si chiamano debiti statali dei paesi europei. E a quel punto si salvi chi può. Per chi vuol saperne di più, consigliamo di leggere Taibbi, per ora disponibile solo nella versione inglese.


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