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di Michele Paris
Il potente ex presidente iraniano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, è stato di fatto rimosso questa settimana dalla guida dell’Assemblea degli Esperti, l’influente organo incaricato di eleggere, sorvegliare ed eventualmente deporre la Guida Suprema della Repubblica Islamica. La parabola discendente di uno degli uomini più ricchi dell’Iran giunge in un momento molto delicato per tutto il Medio Oriente: s’intreccia inestricabilmente - da un lato - con le lotte di potere tra le varie fazioni del regime e - dall’altro - con le sorti di un movimento di protesta che fatica a raccogliere un seguito consistente nel paese.
Presidente per due mandati tra il 1989 e il 1997 e considerato un conservatore moderato e pragmatico, Rafsanjani negli ultimi due anni ha rappresentato all’interno del regime una delle voci più vicine al cosiddetto Movimento Verde. La sconfitta elettorale che egli stesso aveva dovuto incassare nel ballottaggio delle presidenziali del 2005 dall’allora sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, lo aveva progressivamente allontanato dai sostenitori dell’attuale presidente, fino a spingerlo verso l’opposizione, pur senza condividerne le posizioni anti-regime più estreme.
Nella sua funzione di numero uno sia dell’Assemblea degli Esperti che del Consiglio per il Discernimento - preposto alla risoluzione dei conflitti tra il Parlamento (Majlis) e il Consiglio dei Guardiani della Costituzione - Rafsanjani, dopo le contestate elezioni del giugno 2009, aveva più volte cercato di promuovere una riconciliazione tra l’opposizione Verde e il regime. Le sue manovre erano mirate a mettere all’angolo lo stesso presidente, facendo leva sulle riserve nutrite da molti conservatori nei confronti della politica populista di Ahmadinejad.
Gli esponenti della linea dura vicini ad Ahmadinejad hanno a loro volta progressivamente intensificato gli attacchi contro Rafsanjani, in modo da privarlo di quell’influenza che ancora poteva conservare in alcuni ambienti della Repubblica Islamica. L’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente dell’Assemblea degli Esperti ha fornito così l’occasione per mettere da parte un peso massimo del regime considerato, sia pure per ragioni opportunistiche, fin troppo allineato con i “riformisti”. Un passaggio di consegne, va sottolineato, che avviene in un momento molto importante, se le voci che da qualche mese si rincorrono sulle precarie condizioni di salute dell’ayatollah Ali Khamenei dovessero risultare fondate.
Tra la fazione pro-Ahmadinejad (strettamente legata ai Guardiani della Rivoluzione e uscita rafforzata dal cambio al vertice dell’Assemblea) e il clero sciita rimangono tuttavia profonde divisioni. Il presidente e i suoi uomini, infatti, non sono stati in grado d’imporre un loro fedelissimo, ma hanno dovuto accettare, come successore di Rafsanjani, l’ottantenne conservatore Mohammad Reza Mahdavi Kani, già primo ministro negli anni Ottanta e seguace della prima ora dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quando la candidatura di Mahdavi Kani è emersa, Rafsanjani ha ritirato la propria e il nuovo leader dell’Assemblea degli Esperti ha così raccolto il consenso di 63 degli 86 membri che la compongono.
La posizione sempre più precaria di Rafsanjani era apparsa in tutta la sua evidenza un paio di settimane fa quando, relativamente a sorpresa, aveva denunciato le manifestazioni che qualche giorno prima erano andate in scena nelle strade di Teheran sull’onda delle rivolte in Tunisia ed Egitto. Facendo proprie le parole degli esponenti più intransigenti del regime, Rafsanjani aveva definito i manifestanti “estremisti” che minacciano l’unità tra il popolo e il regime stesso. Una metamorfosi significativa - verosimilmente dettata da motivi di sopravvivenza politica - per un uomo che meno di due anni fa aveva fornito il suo appoggio, e quello della potente famiglia, all’opposizione di Mousavi e Karroubi.
Il declino di Rafsanjani nel panorama politico della Repubblica Islamica è in qualche modo legato alle stesse fortune del Movimento Verde, i cui leader condividono le medesime preoccupazioni della media e alta borghesia iraniana incarnata dal multimiliardario ex presidente. Il tentativo di rilancio del movimento di protesta contro il regime dopo lunghi mesi di silenzio non ha finora sortito successi significativi. Mentre Mousavi e Karroubi finivano agli arresti domiciliari - o addirittura in carcere, secondo quanto sostengono le rispettive famiglie - le manifestazioni indette nelle ultime settimane (il 14 e il 20 febbraio, e ancora il 1° marzo) sono state agevolmente represse dalle forze di sicurezza del regime.
Il sostanziale fallimento del Movimento Verde nel reclutare un numero significativo di manifestanti, malgrado la copertura costantemente positiva assicurata dai media occidentali, è da collegare all’incapacità di mobilitare i lavoratori iraniani e gli strati più poveri della popolazione urbana, come era accaduto invece nelle rivoluzioni di Tunisia ed Egitto. Un’inadeguatezza quella dei “riformisti”, guidati peraltro da veterani del regime messi da parte da molti anni, che è la conseguenza stessa della composizione sociale di un movimento nel quale a prevalere è la classe media privilegiata che lamenta la mancanza di una rapida apertura del paese al capitale internazionale e di un riavvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente.
I limiti del movimento anti-regime, così come lo si è conosciuto in questi due anni, appaiono ancora più gravi alla luce del malcontento che pure sembra ampiamente diffuso in buona parte della popolazione iraniana. Se l’ascesa al potere di Ahmadinejad nel 2005 era stata possibile soprattutto grazie alla promessa di porre rimedio alle disuguaglianze sociali prodotte dalle politiche neoliberiste dei predecessori più graditi all’Occidente - Rafsanjani e soprattutto Mohammad Khatami - l’illusione è stata infatti di breve durata.
Mentre all’inizio del suo primo mandato, Ahmadinejad ha incrementato la spesa sociale, più recentemente ha finito per accelerare le riforme di mercato, fino alla battaglia per l’abolizione degli ingenti sussidi ai beni di prima necessità, come pane, benzina e gasolio per riscaldamento, che finirà per penalizzare pesantemente proprio i redditi più bassi. Di fronte alle resistenze di una working-class preoccupata per l’impennata improvvisa dei prezzi e il conseguente impoverimento, il Movimento Verde ha sostanzialmente criticato il governo per non essersi mosso con sufficiente rapidità nell’eliminazione dei sussidi stessi e per aver sprecato preziose risorse economiche in “inutili” spese sociali.
D’altro canto, la relativa vittoria nella successione alla guida dell’Assemblea degli Esperti rafforza Ahmadinejad anche sul fronte della faida interna al regime con i conservatori religiosi, rappresentati dallo speaker del Parlamento Ali Larijani e dal fratello Sadeq, al vertice del sistema giudiziario iraniano. Sotto la spinta dei fratelli Larijani, il governo Ahmadinejad negli ultimi anni ha dovuto fronteggiare parecchi ostacoli, sia sul fronte parlamentare che su quello giudiziario, mentre entrambi avevano valutato una possibile contestazione dei risultati delle presidenziali del 2009, prima di desistere di fronte al sostegno fornito al vincitore da parte dello stesso Ayatollah Khamenei.
Nonostante le divisioni interne agli ambienti di potere della Repubblica Islamica, dunque, praticamente tutte le fazioni del regime e gli stessi “riformisti” approvati dalla stampa e dai governi occidentali condividono quelle stesse politiche economiche e sociali che hanno determinato l’esplosione delle rivolte in Medio Oriente e in Africa Settentrionale. Per questo motivo, la riuscita di una vera rivolta anche in Iran dipenderà dalla creazione di un movimento indipendente che faccia proprie le rivendicazioni di giustizia sociale e democrazia che stanno emergendo nel vicino mondo arabo.
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di mazzetta
Lo ha detto Hillary Clinton di fronte al Foreign Relations Committee del Senato americano nella sua veste di Segretario di Stato degli Stati Uniti: gli Stati Uniti hanno perso la supremazia nel campo di battaglia dell'informazione internazionale e in particolare di quella televisiva. Il modello statunitense, fatto di tonnellate di pubblicità e discussioni spesso sconclusionate tra vedette parlanti, non riesce a fornire grandi informazioni agli americani, immaginatevi quanto sarà utile e comprensibile per gli stranieri, dice la Clinton. E come darle torto?
Sembrano finiti i tempi gloriosi in cui la CNN scandiva il tempo e il senso della prima guerra americana contro l'Iraq. L'epopea di Schwarzkopf, la prima guerra della storia in diretta televisiva, segnò la fortuna estemporanea di un canale televisivo globale all news: in momenti diversi agli americani interessa davvero poco. E infatti, nel giro di pochi anni, CNN ha dovuto moderare le sue aspirazioni e i suoi investimenti.
La spettacolare esibizione di potenza comunicativa della CNN ha però piantato un seme proprio nel Golfo ed è Al Jazeera, l'emittente dell'emiro del Qatar, che Clinton ha citato ad esempio, così schiaffeggiando l'orgoglio dell'intera industria americana dell'infotainment. In tempo di crisi gli americani hanno cercato notizie e le hanno trovate solo sul canale in inglese di Al Jazeera, che pure negli Stati Uniti è semi-clandestina, raggiungibile via Internet, ma quasi del tutto ostracizzata dai network americani, che non la includono nel pacchetti offerti ai loro clienti.
Lo stesso Dipartimento di Stato e molte cancellerie si sono regolate per giorni sulla base di quello che vedevano attraverso le dirette di al Jazeera, mentre il canale arabo diffondeva l'eco delle proteste e contribuiva ad infiammare una piazza araba dopo l'altra. Al Jazeera ha trasmesso quasi tutto quello che è successo nei paesi arabi nei primi mesi di questo 2011, mantenendo un'evidente timidezza solo nella copertura dei sommovimenti che hanno turbato le monarchie del Golfo, nobiltà e parentele lo impongono.
Mentre l'enorme sistema americano nominalmente dedicato all'informazione si trascinava in baruffe prive di senso come quelle ben note anche ai telespettatori italiani, “Al Jazeera ha cambiato le persone” dice la Clinton al Senato. Lo strumento comunicativo più potente della storia, il pilastro sul quale poggia tutta la definizione del senso degli Stati Uniti moderni, è ridotto a un attrezzo inservibile. Il canale diretto tra chi definisce la realtà e le masse chiamate ad interpretarla è saturato di rumore e pubblicità. Mentre Al Jazeera veicola la sua interpretazione del mondo e dei fatti alle elite globalizzate, gli Stati Uniti hanno perso questo fondamentale canale di comunicazione.
Da quel tubo non passa più la potente visione salvifica e modernizzatrice dell'America, non passano più le informazioni che servono ad aiutare gli americani nella vita, passa solo quello che genera i massimi ascolti o quello che vuole chi paga il conto. Passano pochi fatti e un mare di opinioni confuse, declamate come in un teatrino sempre uguale, per quanto ormai appare codificato nei suoi riti. Nemmeno quando scoppia il finimondo il flusso delle informazioni riesce a farsi strada nel tubo, perché non c'è quasi più nessuno in grado di riconoscere a quel flusso un valore superiore alle solite liti tra presunti esperti e da tempo non c'è più nessuno o quasi inviato sul campo per tempo a farsi un'idea di cosa succede.
Non c'è più nessuno nemmeno a girare sul campo le immagini che contaminano e influenzano la storia che stanno testimoniando, non c'è più nemmeno il grottesco controllo sulla selezione di quelle immagini che ha fatto sparire dai media americani le immagini dei caduti in guerra americani e persino dei loro funerali, censurate da Bush senza che il sistema dei media americani si sia ribellato.
Quello che la Clinton non ha detto e che non poteva dire, però, é che questa situazione è la conseguenza precisa delle pressioni di governo e corporation sui media americani. Da quando l'amministrazione Bush investì risorse imponenti per imporre narrative di fantasia, è diventato addirittura controproducente investire risorse per produrre notizie sgradite. Lo stesso discorso vale incidentalmente per i servizi segreti e diplomatici, impegnati nella propaganda e nell'assecondare il governo.
Se per fare carriera bisogna dire quello che il governo vuole sentirsi dire, non ha senso nemmeno perder tempo in indagini e studi. Gli stessi budget imponenti con i quali le multinazionali soffocano o tendono a screditare realtà sgradite, hanno spinto la macchina dell'informazione sempre più lontano dalla narrazione della realtà e sempre più immersa in una fiction dal copione confuso. Il giornalismo d'inchiesta e la cronaca senza strumentalizzazioni sono ormai rarità, quello che avviene oltre frontiera arriva ai fruitori dell'informazione solo se serve a vendere qualcosa o può essere strumentalizzato politicamente in chiave interna.
Hillary Clinton, Obama e gli altri leader del potente Occidente, si sono trovati inchiodati per giorni e giorni davanti ad Al Jazeera e non hanno potuto fare a meno di notare la differenza con l'informazione offerta dai media occidentali. Così come non hanno potuto fare a meno di notare la differenza con i bei tempi nei quali la definizione globale del senso e la narrazione della storia erano saldamente nelle mani di Washington. Oggi la regia televisiva è passata di mano, dice la signora Clinton, che però sembra lasciare agli stessi media americani l'onere di raccogliere la sfida.
Resta da vedere se il discorso del Segretario di Stato troverà orecchie interessate e capaci di comprenderne l'essenza, estremamente allarmante per gli interessi degli Stati Uniti, e se emergerà una credibile risposta occidentale o americana a quello che oggi appare il dominio incontrastato di Al Jazeera.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Doveva essere una manifestazione a favore di Karl- Theodor zu Guttenberg (CSU), l’ex- ministro della Difesa tedesco dimessosi pochi giorni fa a seguito dello scandalo plagio, ma si è risolta in una vera e propria presa in giro nei suoi confronti. È successo sabato pomeriggio a Berlino, dove un centinaio di dimostranti si son presi la briga di fare conoscere la propria opinione nei confronti del cosiddetto “ministro copione”: chi lo acclamava beffardamente imperatore, chi paragonava ironicamente il suo “copia e incolla” a un moderno Bonnie & Clyde, chi esaltava il prototipo mediatico “bellezza VS verità” incarnato da zu Guttenberg, di sicuro sotto la porta di Brandeburgo non sono mancati sarcasmo e buon umore.
Ma l’atmosfera di ambigua perplessità che si respira tra i cittadini tedeschi non sorprende e, soprattutto, sembra andare a rispecchiare perfettamente la confusione che regna nel Governo di Angela Merkel (CDU): perché, anche in ambito politico, il dopo- zu Guttenberg si anticipa più turbolento e meno chiaro del previsto e non smette di sollevare dubbi.
La manifestazione a favore del barone zu Guttenberg è stata organizzata tramite il social network Facebook, grazie a un profilo a sostegno del ministro dimissionario accusato di aver copiato gran parte della sua tesi di dottorato e costretto dalla pressione mediatica a dare le dimissioni. Nel giro di pochi giorni si erano raccolte quasi 500mila adesioni: una partecipazione di tutto rispetto che sembrava incoraggiare un eventuale ritorno di zu Guttenberg in politica, probabilità già sventolata da alcuni giornali tedeschi.
Ma i social network, si sa, non sempre rispecchiano la realtà delle cose. E, in effetti, da quasi mezzo milione di adesioni virtuali é conseguita una sola manifestazione vera e propria a favore del ministro copione, e cioè a Guttenberg stesso (Sud Ovest delle Germania), suo luogo di nascita. Organizzata dal padre, il barone (e dirigente) zu Guttenberg senior, la protesta pro- zu Guttenberg ha radunato 4.000 sostenitori circa.
Che hanno cercato di difendere la causa dell’ex-incaricato alla Difesa cristiano sociale con slogan del tipo “Gutti era troppo in gamba per voi” o “l’invidia è difficile da digerire”, in riferimento all’enorme successo personale di zu Guttenberg figlio e alla sua (finora) impeccabile carriera. A dominare la scena nella maggior parte delle città tedesche, tuttavia, è stato il provocante dileggio anti- ministro copione.
Meno beffarda ma altrettanto ambigua rimane la situazione anche in ambito politico, dove la bufera sembra tutt’altro che passata nonostante le rapidissime decisioni prese dal Governo della Cancelliera Merkel in risoluzione al vuoto dopo- zu Guttenberg. Il nuovo ministro alla Difesa tedesco è stato nominato inaspettatamente dopo sole ventiquattro ore dalle dimissioni di zu Guttenberg: è Thomas de Maizière, cristiano democratico, 57 anni, definito uno degli “uomini della Merkel”, che ha lasciato il suo posto di capo degli Interni per assumersi le responsabilità della Difesa e, c’è proprio da dirlo, tutti gli oneri del caso.
Perché, in realtà, la situazione lasciata da zu Guttenberg non è delle più lineari: de Maizière si troverà a risolvere ingombranti grovigli mediatici quali gli scandali della cadetta morta a gennaio sulla nave di addestramento della marina federale, la Gorch Fork, e del soldato morto in Afghanistan lo scorso dicembre, ma non solo.
Lo scoglio fondamentale rimarrà la riforma dell’arma introdotta ufficialmente dall’ex- ministro zu Guttenberg l’anno scorso, che avrebbe dovuto compiersi a breve, ma che non sembra essere nata sotto i migliori auspici: se il cambio di guardia autorizzerà il nuovo ministro a una rivisitazione della riforma, questo rimane ancora da chiarire. E, quasi a conferma dei dubbi che aleggiano in questo senso, il leader dei cristiano sociali Horst Seehofer ha già diffidato de Maizière da un tale passo.
In particolare, zu Guttenberg aveva previsto l’introduzione del servizio militare volontario in sostituzione della vecchia prestazione obbligatoria in vigore in Germania da 58 anni: l’obbligo di leva per i giovani tedeschi avrebbe dovuto terminare proprio quest’estate. Per l’anno in corso, tuttavia, all’arma si sono presentati solo 2’500 giovani, contro un minimo indispensabile di 12mila. Zu Guttenberg pensava di risolvere con una considerevole campagna pubblicitaria e di migliorare le condizioni del servizio militare, trasformazione che avrebbe richiesto sicuramente un investimento di fondi considerevole. Si stava addirittura pensando, in futuro, di permettere agli stranieri di far parte dell'arma. Un cambiamento importante quindi, che certo giustifica le perplessità di popolazione e ceto politico.
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di Carlo Musilli
Anche un monarca assoluto può avere paura. Re Abdullah domina sull'Arabia Saudita dal 2005, ma gli ultimi tre mesi li ha passati all'estero. Doveva prendersi cura della sua salute. Ora è tornato. E ha iniziato a sentire il tic-tac del timer che scandisce l'ora in cui anche per lui inizieranno i problemi. La voglia di libertà che circola in Maghreb, infatti, ha iniziato a contagiare anche i sauditi.
Centinaia di utenti Facebook stanno organizzando per l'11 marzo la “Giornata della rabbia” per chiedere elezioni libere e il rilascio dei detenuti politici. Sempre su internet, domenica scorsa oltre cento intellettuali hanno lanciato un appello per riforme politiche, economiche e sociali. Vogliono che la monarchia assoluta diventi costituzionale, con tanto di separazione dei poteri. Vogliono anche "misure che riconoscano alle donne il diritto al lavoro, all'istruzione, alla proprietà e alla partecipazione alla vita pubblica".
Nel frattempo, sono iniziate le proteste anche nel mondo reale. Per la precisione nella parte orientale del regno, dove la confessione sciita è prevalente. Erano oltre 200 i manifestanti a Qatif, 100 nella città di Awamiyya, altri ancora ad al-Hufuf. Sono scesi in piazza per chiedere il rilascio dei prigionieri sciiti. Fra questi, c'è anche il leader religioso Tawfeeq Sheikh Al-Amer. Secondo quanto rivelato alla Cnn da Ibrahim Al-Mugaiteeb, presidente della Human Rights First Society, Amer è stato arrestato venerdì scorso per aver sostenuto in un sermone che l’Arabia Saudita dovrebbe diventare una monarchia costituzionale.
Certo, tutto questo può sembrare poca cosa se si pensa a ciò che sta accadendo in Maghreb. Il confronto non regge: sarebbe come paragonare un colpo di tosse a un coro da stadio. Eppure, questi accenni di protesta sono stati sufficienti a far drizzare le antenne al malandato re Abdullah. Prevenire è meglio che curare, avrà pensato il sovrano. E così ha aperto il forziere, stanziando 36 miliardi di dollari per aiutare la popolazione. Finanziamenti per compensare l'inflazione, per aiutare i giovani a trovare lavoro e per sostenere le famiglie nel loro diritto ad avere un'abitazione. Aumenti salariali e controllo dei prezzi dei beni alimentari. Non solo: é arrivata perfino la promessa di un piano quadriennale da 400 miliardi di dollari per migliorare scuola ed università.
Nel complesso, un gigantesco tentativo di corruzione di massa. Ma Abdullah deve aver capito che, per dimostrare tutta la sua buona volontà al Paese, il denaro non è sufficiente. Ed ecco la trovata geniale. Secondo quanto riportato dal quotidiano Al Watan, il sovrano starebbe valutando l'ipotesi di concedere il diritto di voto alle donne. Potrebbe sembrare una rivoluzione epocale per un Paese in cui se hai la disgrazia di nascere femmina ti tocca passare la vita sotto la tutela giuridica di un parente maschio. In realtà, anche questa è una presa in giro. Se pure fosse concesso loro di votare, infatti, potrebbero farlo solo a favore di altri uomini. Mai e poi mai le donne saranno eleggibili. E un diritto a metà, non è un diritto.
Com'è ovvio, ai sauditi questo non è sfuggito. Le promesse di Abdullah sono state giudicate insufficienti. Un'evidente ruffianata per tentare di dribblare il problema delle riforme politiche. L'Arabia Saudita non ha un Parlamento eletto, né partiti politici e non tollera alcuna forma di pubblico dissenso. Il governo è nominato dal sovrano, che trasmette il suo potere per via dinastica. Il re attuale ha 83 anni e il suo successore, almeno in via teorica, dovrebbe essere il fratello, un 81enne malato di alzheimer. Le elezioni sono state introdotte come primo contentino solo nel 2005 e servono unicamente ad eleggere i politici locali.
Stante questa situazione invidiabile di potere, oggi le preoccupazioni di Abdullah sono legate alla minoranza sciita del Paese. Come detto, questa è concentrata soprattutto nella provincia orientale, una zona desertica ma ricca di giacimenti d’idrocarburi e di compagnie petrolifere. Soprattutto, una zona che confina con il Bahrein. Nel piccolo emirato del Golfo Persico gli sciiti costituiscono il 70% della popolazione e lo scorso 14 febbraio hanno iniziato a manifestare contro il regime sunnita che guida il Paese dal 1971, anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna.
Anche i manifestanti del Bahrein chiedono di trasformare la monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono poi le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il governo da 40 anni è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Come sta accadendo oggi in Arabia Saudita, anche in Bahrein la protesta si è gonfiata su internet. Anzi, è probabile addirittura che, sempre per via telematica, i manifestanti siano stati influenzati e spronati proprio dai correligionari sauditi. Una gestazione cibernetica che ha portato quindi allo scontro aperto con l'esercito, sporcando di sangue le strade di Manama, la capitale. Forse è stato allora che re Abdullah ha iniziato a preoccuparsi. A sentire il tic-tac del timer.
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di Fabrizio Casari
Diventa ogni giorno che passa più complessa la situazione in Libia. La Cirenaica è in mano ai rivoltosi e la Tripolitania é ormai il campo di battaglia dove si misurano la capacità militare di Gheddafi e quella degli insorti. Le truppe del colonnello sembrano controllare ancora la capitale e la zona della Sirte, mentre l’unica zona dove non si registrano scontri è il Fezzan, storicamente vicina (come la Tripolitania) alle tribù alleate di Gheddafi. L’opposizione al regime conferma intanto di avere una identità peculiare, molto diversa da quelle viste negli altri paesi dell’area, che hanno portato l’Egitto e la Tunisia alla cacciata dei rispettivi Rais e che mettono Barhein e Algeria (e Yemen) alle strette. In Libia, infatti, non ci sono manifestazioni oceaniche pacifiche; c’è invece un vero e proprio esercito in abiti civili a combattere contro le truppe governative.
Non è un caso che le milizie oppositrici riescano a muoversi per centinaia di chilometri in ormai tutte le regioni del Paese ingaggiando scontri che denotano preparazione militare, conoscenze tattiche e possesso di armi decisamente anomalo per dei civili. La favola dell’opposizione che si arma saccheggiando i depositi e disarmando i militari lealisti possiamo annoverarla come uno dei capitoli della propaganda mista tra Occidente e monarchie saudite, cioè le due versioni del controllo imperiale del Golfo e del Medio Oriente.
E nella morsa contro Gheddafi anche i rispettivi compiti sono ben delineati: alle monarchie saudite è stato affidato il ruolo della propaganda tramite i suoi canali televisivi satellitari, mentre sono proprio Usa, Francia e Gran Bretagna che, dal 26 febbraio scorso, hanno inviato in Cirenaica diverse centinaia di militari per addestrare militarmente gli insorti ed agenti dei rispettivi servizi segreti incaricati di costruire le operazioni d’intelligence militare.
A rivelarlo è stato Debkafile, sito israeliano d’intelligence, che aveva anche anticipato la notizia delle navi iraniane in transito nel canale di Suez. La notizia è stata ripresa anche da diverse fonti internazionali (ultimo il Pakistan Observer) ma non in Italia, dove solo un take dell’agenzia Agi ha ritenuto di darla; ma senza insistere troppo, che non si sa mai.
Lo scontro militare sul campo è quindi destinato a concludersi con la vittoria di uno dei due contendenti e rende inutili ipotesi di riconciliazione e di tavoli negoziali. La stessa proposta di Hugo Chavez, che si è proposto come mediatore tra le parti in conflitto, sebbene sia stata caldeggiata da Spagna e Russia, ha incontrato sia il “no grazie” da parte del regime libico, sia il “no” dell’opposizione filo-monarchica della Cirenaica e dei suoi principali sponsor, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele.
Dunque nessuna mediazione internazionale, che invece avrebbe il merito di far tacere le armi e scoprire le carte, tirando fuori le notizie e i fatti dalle bocche interessate dei media internazionali al seguito di Al-Jazeera e Al Arabiya, che dipingono un’insurrezione come una rivoluzione; a queste si contrappone quelle del colonnello, che dipingono una vera e propria rivolta popolare come un complotto ordito da qualche centinaio d’islamisti radicali.
D’altra parte le aperture offerte del Gheddafi-figlio sembrano in realtà tentativi di prendere tempo per riorganizzare il proprio fronte interno; alternando minacce e mitragliate sul suo popolo a dichiarazioni di pace, il figlio è ancor meno credibile del padre. E comunque, la variegata coalizione di persone senza apparenti sigle che combattono il regime non ha nessuna intenzione di fermarsi a discutere.
Perché l’unico generale che dirige le operazioni in Libia è il "Generale Tempo". La soluzione militare confligge più che mai con quella politica: fermare le ostilità significa perdere. Chi per primo accettasse il “cessate il fuoco”, scambiando polvere e sangue per tavoli e parole, dichiarerebbe, di fatto, la sua incapacità a superarsi, ad andare oltre dove è già arrivato; in una parola, dichiarerebbe la resa. Ed é evidente che la situazione non può durare ancora per molto: la prossima saràla settimana decisiva per l'evoluzione finale del conflitto e chi si ferma per primo ha perso .
Gli analisti internazionali si domandano cos’abbia intenzione di fare l’Occidente nei confronti della Libia. Si dà per scontato che il voto sulle sanzioni a Gheddafi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non potrebbe trovare uguale esito nel caso di una proposta d’intervento militare diretto, pur mascherato da “intervento umanitario” sul modello di quello nei Balcani. L’opposizione di Cina e Russia lo impedirebbe. Un intervento della Nato, poi, non è proponibile, se non si vuole trasformare Gheddafi nel nuovo Omar El Muktar e sputtanare pubblicamente la cosiddetta “opposizione” come strumento dell’impero a stelle e strisce.
Le sue fila ne riuscirebbero seriamente mutilate dai combattenti che ritengono di lottare per la fine di una dinastia dittatoriale e non per la riconquista coloniale della Libia, e la presenza di truppe dì occupazione straniere sarebbe solo il preludio ad una nuova Jihad islamica contro il “Grande Satana” che, in primo luogo, rafforzerebbe Ahmadinejihad, i Fratelli musulmani, Hezbollah e Hamas. Entrambe le ipotesi, non sono certo le più gradite a Washington e Bruxelles.
E del resto, oltre a ciò, si deve aggiungere che imbarcarsi in un nuovo Kossovo ai margini del Sahara non fa parte dei piani occidentali: non solo la centralità dei Balcani nello scacchiere geopolitico internazionale è decisamente superiore a quello del Maghreb, ma la storia insegna che gli interventi militari hanno nei bombardamenti solo la prima fase. Poi, per forza, si deve scendere a terra, occupare il paese, gestire politicamente, socialmente ed economicamente l’ingresso stabile di questo nell’alveo politico ed economico occidentale.
E i paesi Nato, spossati sotto tutti i punti di vista dalle fallimentari avventure in Irak e Afghanistan, non dispongono nemmeno delle risorse minime a garantire tutto ciò: un territorio immenso e costituito socialmente da tribù e clan, porterebbe più credibilmente ad una nuova Somalia, più che ad un nuovo Kossovo. Un altro spettro assolutamente da evitare.
Quando Gheddafi ha denunciato la mano di Al-queda in funzione di spauracchio per l’Occidente, ha dimostrato di non avere più - se mai l’ha avuto nel recente passato - non solo il polso del suo Paese, ma anche quello delle cancellerie occidentali. L’Occidente, che ha ritenuto di dover mantenere al potere tutti i leader maghrebini (Gheddafi compreso) in funzione di baluardo contro l’estremismo islamismo, è oggi consapevole di come Al-queda e compari siano sostanziali sette minoritarie, comunque non in grado di proporre alternative concrete di governo nei paesi musulmani. Un pericolo di prospettiva, semmai, non imminente.
Il problema é quindi il "come" disfarsi oggi di regimi quarantennali che, per quanto docili o divenuti tali, rappresentano nella loro follia dinastica proprio un elemento potenzialmente destabilizzante per quegli stessi popoli che dovrebbero governare. In questo senso, da utili idioti diventano pericolosi proprio per la stabilità dei loro stessi paesi. Che, invece, è fondamentale: la Libia, infatti, è oggetto di scontro per il riassetto generale dei regimi maghrebini e anche per la ridefinizione delle quote di petrolio disponibili sul mercato, e di conseguenza del suo prezzo. Non sono ammesse variabili impazzite che mettano in discussione questo processo di riassestamento. L'idea di Gheddafi di bombardare i pozzi, é stata, in questo senso, anche la più stupida: era convinto forse di mettere paura all'Occidente, ma gli ha solo messo più fretta di liberarsi di lui,
Nessuna illusione quindi: né a Washington, né a Londra o a Parigi importa un fico secco dello scontro interno alla Libia; quello che interessa - e molto - è la caduta di Gheddafi e, con essa, la riconquista dei rubinetti del petrolio libico. Infatti, benché con una produzione minore rispetto a quella dei paesi del Golfo, la sua qualità é particolare, adatta a un processo di raffinazione che lo rende particolarmente redditizio. E anche perché la Libia non é che il primo dei due obiettivi per la riconquista energetica del Maghreb: poi toccherà all’Algeria, il cui gas è particolarmente utile anche per ridurre la dipendenza europea da Putin.
E forse, in questo senso, non è strano che la regione del Fezzan, confinante proprio con l’Algeria, sia ancora l’unica dove non si registrano scontri: non è interesse di chi muove i fili della rivolta libica investire da subito un’area che potrebbe aprire scenari difficili - per migrazioni e scontri - in grado di destabilizzare prematuramente Algeri. Ci sarà tempo per farlo: difficile governare la rivolta in un paese, difficilissimo sarebbe allargarla contemporaneamente anche ad un altro.
Sembra aver trovato la quadratura del cerchio, l’Occidente: invece di spedire i propri militari a morire, sostenendo grandi spese per il bilancio pubblico, in cambio dei grandi affari per quello privato, oggi si trova a poter metter le mani sul controllo delle fonti energetiche del Maghreb facendo pagare ai suoi popoli il tributo del sangue cui seguirà il tributo del petrolio. Il primo si paga in arabo, il secondo si riscuote in inglese.