di Carlo Musilli

Anche un monarca assoluto può avere paura. Re Abdullah domina sull'Arabia Saudita dal 2005, ma gli ultimi tre mesi li ha passati all'estero. Doveva prendersi cura della sua salute. Ora è tornato. E ha iniziato a sentire il tic-tac del timer che scandisce l'ora in cui anche per lui inizieranno i problemi. La voglia di libertà che circola in Maghreb, infatti, ha iniziato a contagiare anche i sauditi.

Centinaia di utenti Facebook stanno organizzando per l'11 marzo la “Giornata della rabbia” per chiedere elezioni libere e il rilascio dei detenuti politici. Sempre su internet, domenica scorsa oltre cento intellettuali hanno lanciato un appello per riforme politiche, economiche e sociali. Vogliono che la monarchia assoluta diventi costituzionale, con tanto di separazione dei poteri. Vogliono anche "misure che riconoscano alle donne il diritto al lavoro, all'istruzione, alla proprietà e alla partecipazione alla vita pubblica".

Nel frattempo, sono iniziate le proteste anche nel mondo reale. Per la precisione nella parte orientale del regno, dove la confessione sciita è prevalente. Erano oltre 200 i manifestanti a Qatif, 100 nella città di Awamiyya, altri ancora ad al-Hufuf. Sono scesi in piazza per chiedere il rilascio dei prigionieri sciiti. Fra questi, c'è anche il leader religioso Tawfeeq Sheikh Al-Amer. Secondo quanto rivelato alla Cnn da Ibrahim Al-Mugaiteeb, presidente della Human Rights First Society, Amer è stato arrestato venerdì scorso per aver sostenuto in un sermone che l’Arabia Saudita dovrebbe diventare una monarchia costituzionale.

Certo, tutto questo può sembrare poca cosa se si pensa a ciò che sta accadendo in Maghreb. Il confronto non regge: sarebbe come paragonare un colpo di tosse a un coro da stadio. Eppure, questi accenni di protesta sono stati sufficienti a far drizzare le antenne al malandato re Abdullah. Prevenire è meglio che curare, avrà pensato il sovrano. E così ha aperto il forziere, stanziando 36 miliardi di dollari per aiutare la popolazione. Finanziamenti per compensare l'inflazione, per aiutare i giovani a trovare lavoro e per sostenere le famiglie nel loro diritto ad avere un'abitazione. Aumenti salariali e controllo dei prezzi dei beni alimentari. Non solo: é arrivata perfino la promessa di un piano quadriennale da 400 miliardi di dollari per migliorare scuola ed università.

Nel complesso, un gigantesco tentativo di corruzione di massa. Ma Abdullah deve aver capito che, per dimostrare tutta la sua buona volontà al Paese, il denaro non è sufficiente. Ed ecco la trovata geniale. Secondo quanto riportato dal quotidiano Al Watan, il sovrano starebbe valutando l'ipotesi di concedere il diritto di voto alle donne. Potrebbe sembrare una rivoluzione epocale per un Paese in cui se hai la disgrazia di nascere femmina ti tocca passare la vita sotto la tutela giuridica di un parente maschio. In realtà, anche questa è una presa in giro. Se pure fosse concesso loro di votare, infatti, potrebbero farlo solo a favore di altri uomini. Mai e poi mai le donne saranno eleggibili. E un diritto a metà, non è un diritto.

Com'è ovvio, ai sauditi questo non è sfuggito. Le promesse di Abdullah sono state giudicate insufficienti. Un'evidente ruffianata per tentare di dribblare il problema delle riforme politiche. L'Arabia Saudita non ha un Parlamento eletto, né partiti politici e non tollera alcuna forma di pubblico dissenso. Il governo è nominato dal sovrano, che trasmette il suo potere per via dinastica. Il re attuale ha 83 anni e il suo successore, almeno in via teorica, dovrebbe essere il fratello, un 81enne malato di alzheimer. Le elezioni sono state introdotte come primo contentino solo nel 2005 e servono unicamente ad eleggere i politici locali.

Stante questa situazione invidiabile di potere, oggi le preoccupazioni di Abdullah sono legate alla minoranza sciita del Paese. Come detto, questa è concentrata soprattutto nella provincia orientale, una zona desertica ma ricca di giacimenti d’idrocarburi e di compagnie petrolifere. Soprattutto, una zona che confina con il Bahrein. Nel piccolo emirato del Golfo Persico gli sciiti costituiscono il 70% della popolazione e lo scorso 14 febbraio hanno iniziato a manifestare contro il regime sunnita che guida il Paese dal 1971, anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna.

Anche i manifestanti del Bahrein chiedono di trasformare la monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono poi le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il governo da 40 anni è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Come sta accadendo oggi in Arabia Saudita, anche in Bahrein la protesta si è gonfiata su internet. Anzi, è probabile addirittura che, sempre per via telematica, i manifestanti siano stati influenzati e spronati proprio dai correligionari sauditi. Una gestazione cibernetica che ha portato quindi allo scontro aperto con l'esercito, sporcando di sangue le strade di Manama, la capitale. Forse è stato allora che re Abdullah ha iniziato a preoccuparsi. A sentire il tic-tac del timer. 
 
 

 

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