di Carlo Benedetti

MOSCA. Il 16-17 febbraio Dmitrij Medvedev, Presidente della Russia, sarà in Italia su invito di Giorgio Napolitano. I due presidenti daranno il via all’Anno della lingua e della cultura russa in Italia e della lingua e della cultura italiana in Russia. Nell’agenda romana - segnata da forti motivazioni di politica internazionale - ci saranno ovviamente colloqui con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Poi una visita al Vaticano per incontrare il papa tedesco.

E sin qui, a parlare, é il freddo comunicato delle due diplomazie. Del resto è difficile aggiungere qualcosa oltre l’ufficialità del programma. I tempi non sono dei migliori. E a Mosca, con una buona dose di rude ironia slava, si dice che se la Russia non ride anche l’Italia non ha di che stare allegra. Si insiste, pertanto, nel “capire” il senso reale della missione di un Medvedev in libera uscita oltre le mura del Cremlino, perché sarebbe più logico, visti i precedenti, un blitz di Putin tutto concentrato sul rapporto con l’amico Silvio.

Tenendo conto, tra l’altro, che i veri amici si scoprono nei momenti di difficoltà… Misteri russi e roulette politica a parte ecco, quindi, il Medvedev in formato export che arriva per rivelare, forse, dinamiche nascoste o per mettere in luce, con un preciso percorso politico, trasformazioni sinora occultate.

Con Napolitano l’incontro sarà tutto in discesa. Non c’è alcun contenzioso da affrontare perché le grandi questioni tra i due Stati sono state da tempo appianate. Le “questioni” dei soldati italiani morti (o dispersi) in Russia - le tombe dell’Armir, i cimiteri di guerra - sono già accantonate e sistemate nei dossier della Storia. Sorte analoga per quei lontanissimi italiani (pugliesi) che andarono - prima della Rivoluzione d’Ottobre - a colonizzare le terre della Crimea: di loro restano in alcune remote valli solo i cognomi tramandati ormai da qualche generazione. E ancora: non ci sono problemi per la sparuta comunità “italiana” presente in varie località russe.

Complesso, quanto a tematiche, è invece quel dossier da esaminare con Berlusconi che - a livello dei due governi - si è andato formando sotto la gestione di Putin. Qui entrano in campo quadri politici e diplomatici di varia natura e spesso motivo di dibattito. Perché ci sono innanzitutto le conseguenze della globalizzazione che segnano fortemente le sfere politiche ed economiche dei due paesi. Il che, tra l’altro, comporta un’influenza smisurata, sulla vita degli stati, di istituzioni come il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).

Sul piano della bilateralità, intanto, va rilevato che l’Italia ha sviluppato con la Russia relazioni di un'intensità tale da poterle qualificare come "rapporto privilegiato". Si tratta tuttavia di un edificio che trova le sue fondamenta nella storia e, più di recente, nel sincero sostegno dell'Italia al progressivo avvicinamento della Russia alla "comunità occidentale" (UE, NATO, OMC, OCSE). Nel corso degli ultimi anni, appunto, le relazioni fra l'Italia e la Russia hanno conosciuto una fase d’intenso sviluppo che ha permesso non solo un approfondimento dei rapporti fra i due Paesi ma anche la realizzazione di progetti comuni in molteplici settori che spaziano dall'ambito culturale a quello economico.

Su queste basi, dalla formazione del governo Prodi in poi, si sono già svolte diverse visite ad alto livello: il Presidente del Consiglio ed il ministro degli Esteri si sono recati più volte in visita in Russia. E, in merito, una data importante fu quella del 14 marzo 2007 quando al vertice intergovernativo di Bari le relazioni bilaterali italo-russe trovarono un fondamentale momento di consolidamento e ulteriore slancio. Ci fu, tra l’altro, la missione di Putin, che incontrò Napolitano e Prodi e che contribuì ad avviare quel partenariato strategico articolato in un crescendo di dialogo politico e di collaborazione economica in svariati campi di primario interesse.

Notevoli poi quegli accordi intergovernativi come l’Accordo per la reciproca protezione della proprietà intellettuale nell'ambito della cooperazione tecnico-militare, il Protocollo sulla collaborazione per la realizzazione del Progetto "Super Jet 100" ed il Programma Esecutivo di Collaborazione Culturale 2007-2009. I vertici bilaterali hanno anche portato ad accordi tra banche, imprese ed enti. Tra questi, l'Accordo di Cooperazione tra Finmeccanica e Ferrovie Russe, gli accordi tra IntesaSan Paolo e le banche russe VTB e Sberbank, gli accordi finanziari tra Mediobanca e le banche russe VTB e VEB, il memorandum d'Intesa tra ENEL e ROSATOM e l'accordo fra la Città di Ferrara ed il Museo Ermitage per l'istituzione a Ferrara di una prima sede estera dell'Ermitage.

Più complessi sono, invece, i dossier di natura prettamente geopolitica. E questo tenendo conto che la Russia registra spinte contrapposte: una rivolta al passato, l’altra proiettata verso il futuro. A Mosca dominano, infatti, apparati politici, economici e militari che rivelano attitudini conservatrici. E ci sono anche forze che s’ispirano a gruppi economici internazionali e che, di conseguenza, operano per far entrare nel paese gruppi economici che potrebbero divenire forze di pressione.

Ed è proprio in questo contesto che si delinea la presidenza di Medvedev. Un personaggio del quale non si conoscono ancora a fondo gli obiettivi. Considerato come un liberale si dice che vorrebbe dare un volto liberista alla sua presidenza guardando più all’economia sociale di mercato sul modello tedesco che al liberismo di stampo anglosassone. Ma si dice anche che Medvedev starebbe lavorando in disaccordo, fosse anche solo parziale, con il suo mentore e attuale Primo Ministro Putin.

E non è un caso se nell’entourage del Cremlino si torna a porre l’accento su alcuni personaggi italiani (che avrebbero una certa influenza su Berlusconi) con i quali il giovane ed “inesperto” Medvedev si potrebbe trovare ad operare avendoli come interlocutori. Ma in questo rapporto di lavoro dovrebbe segnare la sua “diversità” da Putin.

I personaggi in questione, noti a Mosca, sono Valentino Valentini, strettissimo collaboratore di Berlusconi specialista nel tessere i rapporti tra L’Eni e i russi; Antonio Fallico (presidente di Intesa Sanpaolo Russia, advisor di Gazprom per l'Italia e interlocutore abituale di Eni ed Enel, profondo conoscitore dell’oligarchia russa ed insignito da Putin dell’Ordine di Lomonosov) e Bruno Mentasti, un manager di grande intelligenza legato agli ambienti economici della nuova Russia con una joint-venture personale collegata al Gazprom e basata a Vienna.

E’ questa, in sintesi, l’anticipazione sintetica delle questioni legate allo shopping italiano del presidente russo. Il quale, per rafforzare il suo prestigio dovrà necessariamente riportare a casa qualcosa di fondamentale. E potrebbe essere la volta buona (l’incontro con il papa tedesco che da tempo scalpita per arrivare accanto alle mura del Cremlino) per spianare definitivamente la strada dei rapporti tra il Vaticano e l’ortodossia russa. Per il suo paese Medvedev diverrebbe così il vero uomo-artefice del dialogo religioso.

 

di Carlo Musilli

 La violenza è tornata in Sudan prima del previsto. A circa un mese dal referendum, a neanche una settimana dall'annuncio dei primi risultati ufficiali che ne sanciscono l'autonomia, il sud del Paese è già teatro di nuovi scontri. Mercoledì i ribelli della regione di Jonglei hanno posto fine alla tregua stipulata il 5 gennaio scorso con il governo del Sud. A guidarli è l'ex generale George Athor, che accusa il partito leader del Paese di brogli alle elezioni dello scorso aprile. Secondo molti sarebbe sostenuto da Kartoum.

La prima vittima del nuovo clima di tensione è stata Jimmy Lemi Milla, ministro per le Cooperative e lo Sviluppo rurale. E' stato ucciso a colpi di pistola nel suo ufficio di Juba, futura capitale del nuovo stato. Pare che a fare fuoco sia stato un autista ministeriale, ma non si sa che fine abbia fatto. Forse si è ucciso, forse è stato arrestato, forse è fuggito. Di sicuro c'è soltanto che Lemi Milla era un membro del National Congress Party: lo stesso di El Bashir, premier al nord, e opposto al Sudan People's Liberation Movement, la cui ala armata è, di fatto, l'esercito del Sud Sudan.

E' quindi improbabile che ad organizzare l'assassinio del ministro siano stati i ribelli. Le speculazioni sono state tante: oltre al delitto politico si è parlato di moventi etnico-tribali e anche familiari-personali. Poco importa. Certo è che questo piccolo mistero dà la misura dell'instabilità che domina il paese.  Forse è stata una miccia, fatto sta che, a poche ore dall'esecuzione di Lemi Milla, nel Sud Sudan sono iniziati due giorni di vera e propria guerra civile.

Le milizie ribelli di Athor hanno attaccato le città di Dor e Fangak, riuscendo a conquistare la seconda. I combattimenti sono continuati giovedì, finché l'esercito del Sud non è riuscito a recuperare il terreno perduto. Venerdi, finalmente, gli scontri si sono interrotti. Ma le 48 ore precedenti sono bastate a causare la morte di circa 140 persone. Secondo fonti militari, fra le vittime ci sarebbero 89 civili (compresi donne e bambini), 30 uomini di Athor e 20 fra soldati e poliziotti del Sud.

L'esercito ha detto di aver reagito a un attacco dei ribelli che fanno capo ad Athor, il quale a sua volta ha accusato i militari di aver attaccato per primi. Paradossalmente, entrambe le parti si dicono disponibili a trattare, ma non sembra essere in vista alcun negoziato.

Nessuno sembra disposto a prendersi alcuna responsabilità. Athor ha perfino detto al Sudan Tribune di non aver nulla a che fare con le violenze, che invece sarebbero state causate dell’Esercito per la Liberazione del Sudan, il più grosso movimento indipendentista e ribelle della regione. Il portavoce dell'Esercito del Sud, invece, ha dichiarato che, nonostante tutto, "lo spirito della riconciliazione sopravvive, perché la tregua è ancora in vigore. Quindi se Athor smettesse di combattere, noi lo accoglieremmo per riappacificarci".

Parole commoventi, che stridono però con il riarmo che entrambe le parti hanno iniziato da diversi mesi. Nulla può essere più precario di uno stato che ancora deve nascere (la dichiarazione di indipendenza è prevista per il 9 luglio) e in cui ancora niente è stato deciso: né il percorso del confine, né le modalità di sfruttamento delle risorse economiche, né il destino dello spaventoso debito pubblico del vecchio Sudan unitario.

In un quadro del genere, appare veramente complesso che possa prevalere lo "spirito della riconciliazione".  Soltanto la settimana scorsa, ad esempio, più di 60 soldati originari del sud, ma arruolati nell'esercito del nord, sono morti per un ammutinamento causato dalla notizia dell'imminente secessione. La mancanza di sicurezza è totale. D'altra parte il Sudan meridionale, dopo oltre 20 anni di guerra civile, è al contempo uno dei paesi più sottosviluppati al mondo e uno dei più ricchi di armi di tutta l'Africa.

Qui oltre 10 milioni di persone vivono di agricoltura su terreni prevalentemente desertici, con meno di un dollaro al giorno. La percentuale di mortalità legata al parto è una delle più alte al mondo e il tasso di analfabetismo è alle stelle. In compenso, il mercato dei kalashnikov, degli Ak 47 e soprattutto delle armi di piccolo calibro è una delle attività più redditizie.

Da tutto ciò si comprende quanto possano apparire velleitari, anche se apprezzabili, certi atteggiamenti di Salva Kiir, ex ribelle durante la guerra civile diventato leader del nascente stato meridionale. Rivolgendosi al governo del nord, Kiir ha chiesto di "guardare a questo grande momento della nostra storia e di prendere una decisione logica per la pace". Ma forse i fronti da gestire sono troppi. I ribelli di Athor, infatti, potrebbero addirittura diventare una preoccupazione marginale. Il vero timore di Kiir è che riprendano i combattimenti fra l'Esercito di Liberazione del Sud e le truppe di Kartoum.

 

 

di Eugenio Roscini Vitali

Pur essendo il risultato di un’azione del tutto estranea alla rivolta che in queste settimane sta infiammando l’Egitto, il sabotaggio del gasdotto Arab Gas Pipeline, avvenuto lo scorso 5 febbraio nei pressi di El Lahafan, 15 chilometri a sud di El Arish, città portuale del Sinai settentrionale, non sembra essere un caso isolato e sarebbe inquadrato in una strategia volta a destabilizzare una delle aree più insicure del vicino Medio Oriente.

Secondo quanto riportato dalla televisione di Stato egiziana, il sabotaggio, che ha causato il ferimento di due persone e la temporanea sospensione del flusso di gas verso la Giordania e Israele, sarebbe infatti stato portato a termine da “elementi stranieri” che avrebbero agito a soli 45 chilometri da Rafah, in un settore non lontano dal locale aeroporto internazionale, base in gestione alla Egypt Air Express e sede della smobilitata Palestinian Airlines dal 2001, quando i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza danneggiarono irrimediabilmente la pista dello scalo internazionale Yasser Arafat.

Fonti della compagnia israelo-egiziana East Mediterranean Gas hanno reso noto che l’incendio, visibile in tutta la regione di Sheikh Zuwayid, ha coinvolto una stazione di misurazione che gestisce il flusso di gas verso Israele. Grazie al tempestivo intervento dei tecnici, i danni sarebbero stati comunque contenuti: le cariche, sistemate sotto le tubazione, sarebbero state a basso potenziale e il tempestivo intervento del personale in servizio e dei vigili del fuoco ha permesso di isolare l’area e domare le fiamme nell’arco di qualche ora.

Secondo la radio militare israeliana gli effetti del sabotaggio, che ha comunque interessato la parte della struttura diretta ad Ashkelon, sono stati contenuti; nonostante Israele riceva dall’Egitto più del 25 per cento del proprio fabbisogno nazionale, l’interruzione del flusso impiegato in alcune centrali elettriche non avrebbe avuto contraccolpi nella produzione di energia. Il ministro israeliano per le Infrastrutture, Uzi Landau, ha comunque disposto l’innalzamento del livello di sicurezza per le installazioni industriali più sensibili. L’Arab Gas Pipeline è un gasdotto di 1.200 chilometri che dall’Egitto arriva in Giordania, Siria e in Libano; una ulteriore implementazione dovrebbe estendere la pipeline fino a Kilis, nella Turchia meridionale, per poi collegarsi al Nabucco e seguire la via europea.

Realizzato da un consorzio che comprende le compagnie egiziane EGAS, ENPPI e GASCO, l’americana PETROGET e la siriana SPC, l’Arab Gas Pipeline è strutturato in tre segmenti. Il primo tratto, concluso nel 2003, va da El Arish ad Aqaba, in Giordania; ha una portata di 10 miliardi di metri cubi di gas naturale e comprende una sezione da 1,7 miliardi di metri cubi che si ramifica fino ad  Ashkelon, in Israele. La seconda sezione, di 390 chilometri, passa per Amman e attraversa la Giordania fino a El Rehab, 24 chilometri a sud del confine siriano. Il terzo tratto, completato nel febbraio 2008 con la collaborazione tecnica della Stroytransgaz, società controllata dalla russa Gazprom, prosegue in territorio siriano fino alla centrale elettrica di Deir Ali, 40 chilometri a sud di Damasco; da qui la pipeline si estende fino alla stazione di pompaggio di Al Rayan, nei pressi di Homs, area di estrazione al confine con il Libano settentrionale, e alla città libanese di Tripoli, sulle rive del Mediterraneo orientale.

Hamas si dice del tutto estranea all'esplosione ed esclude che l’operazione sia partita dai Territori: ad affermarlo è stato Hassan Abu Hashish, capo dell'Ufficio stampa del Movimento di resistenza nella Striscia di Gaza. Lo stesso afferma Sallah Al Bardawil, dirigente politico di Hamas, che ha smentito categoricamente le informazioni pubblicate dalla stampa egiziana e, in particolare, dal quotidiano Al Akhbar , che nei giorni scorsi ha parlato del coinvolgimento di palestinesi nei disordini divampati in Egitto. Al Bardawil ha inoltre ribadito che Hamas non intende interferire negli affari interni di altri Paesi e che l’ipotesi avanzate dal Cairo sono accuse fabbricate ad arte per cercare di esportare la crisi egiziana a Gaza. 

I dirigenti del Movimento di liberazione palestinese puntano piuttosto il dito contro le difficili relazioni che intercorrono tra il governo Mubarak e le tribù nomadi che abitano la regione; beduini che si dicono maltrattati e discriminati e che da qualche anno hanno deciso di reagire anche con l’uso delle armi. Nel giugno scorso alcuni nomadi ricercati dalla forze di sicurezza egiziana avevano addirittura minacciato di sabotare il gasdotto e questo aveva portato le autorità a rafforzare le misure di sicurezza in tutta la regione, contrastando la minaccia con operazioni che si erano spinte fino all’impervia valle del Wadi Omar, roccaforte dei clan che controllano gran parte della penisola e che si suppone siano implicati nella traffico di essere umani.

E che nel Sinai si giochino anche altre partite lo dimostrano le interviste rilasciate al Telegraph e al The National di Abu Dhabi da Abu Khaled, beduino palestinese appartenente alla tribù Rashaida che, senza alcun pudore, ha illustrato ai giornalisti le sue malefatte e i suoi rapporti con Abu Ahmed, gestore della fase finale del traffico di armi e di profughi verso Rafah.

Il governatore del Sinai settentrionale, Abdel Wahab Mabrouk, è invece convinto che il sabotaggio di El Lahafan sia di matrice terroristica e che in questa occasione i clan legati alle grandi tribù nomati abbiano operato in appoggio a strutture paramilitari provenienti dall’estero. Per il Cairo l’attentato al gasdotto è in stretta relazione con la fuga dalle carceri di numerosi estremisti legati al terrorismo islamico e con gli scontri a fuoco registrati alla fine di gennaio la regione di Sheikh Zuwayid  tra le Forze speciali del ministero degli Interni egiziano (CFF) e i miliziani delle Brigate Ezzedin al Qassam, ala militare di Hamas guidata da Mohammed Deifnel. In quei giorni il sito israeliano d’intelligence Debka ha registrato una serie di combattimenti ad est di El Arish e un raid contro il locale carcere dal quale sarebbero riusciti a fuggire alcuni detenuti.

Anche il Comando del Multinational Force and Observers (MFO) che opera a El Gorah sembra convinto che quelle cui stiamo assistendo non siano semplici scaramucce e per questo ha dichiarato lo stato di massima allerta e disposto un piano per l’evacuazione immediata dei membri della missione presenti nel campo militare situato a soli 7 chilometri da Rafah. L’escalation dei combattimenti è poi confermata da molte testate internazionali, tra cui il New York Times, che addirittura ipotizza un’operazione volta ad estendere la rivolta egiziana a tutto il Sinai e, in relazione agli ultimi giorni di gennaio, parla di scontri alla periferia del settore egiziano di Rafah, di due ore di combattimenti che avrebbero visto di fronte l’esercito egiziano e alcuni membri del gruppo Takfir wal-Hijra e del lancio di razzi e granate.

Per ora non ci sono conferme riguardo al coinvolgimento di Hamas nell’attacco alle carceri egiziane; al momento è però certo che nonostante la regione nord-orientale del Sinai sia da settimane teatro di scontri a fuoco e il valico di Rafah sia stato chiuso a tempo indeterminato - decisione presa il 31 gennaio scorso dalle autorità egiziane in seguito all’abbandono del posto di polizia da parte delle guardie di confine - un numero non precisato di palestinesi evasi delle prigioni egiziane è comunque riuscito (o attende il momento opportuno per farlo) a rientrare nella Striscia di Gaza. Il primo a parlarne è stato il sito islamico Muslm.net dove Imad Al Sayyid, portavoce dei prigionieri palestinesi in Egitto, che il 29 gennaio ha annunciato la fuga in massa dalle carceri egiziane e l’imminente rientro a Gaza di molti detenuti.

Il comunicato è stato confermata dall’agenzia di stampa Ma’an che ha anche dato notizia del ritorno al campo di Al Bureij di Ayman Nofal, membro di spicco delle Brigate Al Qassam fuggito dalla prigione di Al Marj. Citati anche i nomi di Omar Sha’th, Muhammad Abdul Hadi, Kom’a At-Talha e Mu’tasem Al Quka, scappati dal carcere di Abu Zaabal, distretto di Al Qalyoubiya a nord del Cairo. Tra quelli già rientrati a Rafah ci sarebbero Muhammad Ramadan Ash-Shaer (coordinatore dei traffici che attraverso i tunnel scavati sotto Philadelphi Route alimentano l’arsenale di Gaza) e Hassan Washah, miliziano del gruppo salafita Jaysh Al Islam (Esercito dell’Islam), evaso insieme a Muhammad Al Sayyid, fratello di Imad, dal penitenziario di Abu Zaabal.

Secondo gli egiziani alcuni elementi di Hamas potrebbero anche aver fatto parte della cellula libanese che i 30 gennaio scorso ha assaltato il carcere egiziano di Wadi El Natrun: il commando, composto presumibilmente da 25 uomini, ha  permesso la fuga di migliaia di detenuti, tra cui 22 membri di Hezbollah; tra loro ci sarebbe Sami Shehab, figura di spicco del movimento sciita libanese, arrestato nell’ottobre 2008 al Cairo con l’accusa di terrorismo. Shehab, la cui fuga è stata confermata anche dal giornale arabo Asharq Al-Awsat, era stato inviato in Egitto dallo stesso leader sciita, Hassan Nasrallah, per vendicare l’assassinio di Imad Mughniyeh, comandante operativo di Hezbollah ucciso il 12 febbraio 2008 a Damasco dagli agenti del Mossad.

 

di Fabrizio Casari

L’Egitto esulta, il primo obiettivo è stato raggiunto: il rais è diventato un ex. Dopo 18 giorni di proteste, manifestazioni, scioperi, scontri, Hosni Mubarak si è dimesso. Poche ore fa l’annuncio: Mubarak ha ceduto i poteri a Omar Suleiman e all’esercito. L’ex capo dei Servizi Segreti ha annunciato a reti unificate la decisione dell’ex rais di rifugiarsi a Sharm el Sheikh. Non aspettavano altro quelle centinaia di migliaia di persone di ogni età e professione, di ogni religione ed ogni ideologia, che sono diventati tutt’uno con ogni pietra di ogni piazza, di ogni città, in tutto il paese. Caroselli di auto, abbracci e grida di allegria, balli, canti ed autentiche esplosioni di giubilo. La felicità della piazza è divenuta incontenibile. Il nuovo Egitto, nato da una rivolta popolare senza precedenti nella storia del Paese, almeno per qualche ora è padrone delle sue strade.

Una rivolta, quella iniziata il 25 Gennaio scorso, che non ha avuto padrini e padroni; che non ha visto il ruolo predominante di partiti (anche perché gli oppositori erano stati ridotti al lumicino dalla dittatura di Mubarak) ma che ha avuto, nell’assenza di direzione politica classicamente intesa, un punto di forza invece che di debolezza. Poche assemblee per aspiranti leader, poche discussioni sfibranti per nascituri partiti, poche distinzioni di pochi con tutti e di tutti con pochi. Più che un’organizzazione abile a formare una piazza, l’Egitto ha offerto una piazza capace di costruire organizzazione. Nessuno si è tirato indietro, nemmeno di fronte alle minacce di un esercito che si è mosso come un pendolo, alternando avvertimenti e solidarietà. Gli egiziani, non i partiti egiziani, sono stati la direzione vera della protesta.

Dopo 30 anni di potere assoluto sulla Nazione, di consolidamento del suo potere e delle sue ricchezze, per lui e la sua famelica famiglia, il Faraone dell’Occidente se n’è quindi andato. E se n’è andato proprio perché quell’Occidente, cui aveva sempre obbedito, gli si è rivoltato contro, così come quelle Forze Armate, di cui fu altissimo ufficiale, hanno deciso di lasciarlo solo al suo destino. Perché proprio avendo perso l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Unione Europea aveva perso anche quello dei militari, che hanno scelto, appunto, di seguire l’Occidente. Ventiquattro ore prima, beffando le attese, aveva giocato l’ultima carta, tentando di proporre a Suleiman l’ultima mediazione possibile: elezioni libere in cambio della sua uscita di scena graduale e garantita. Il secondo obiettivo l’ha probabilmente raggiunto, il primo no.

Non era più difendibile, Mubarak, perché non era più affidabile. Non era ipotizzabile, come forse voleva Netanyahu, un’azione di forza, una repressione violenta su larga scala che seppellisse la rivolta, magari sotto una montagna di cadaveri. Non è più possibile nell’epoca della globalizzazione delle immagini, perché non è possibile, per la guida politica dell’Occidente, mostrarsi al mondo con il suo volto peggiore. E comunque non era questa la scelta di Usa e Ue. Soprattutto - va detto - di Obama che ha dimostrato, nella circostanza, una caparbietà nel perseguimento dell’obiettivo degna di un leader politico di statura internazionale.

Nè più né meno, gli Stati Uniti hanno ritenuto di non dover continuare a sostenere l’insostenibile. La visione della leadership internazionale che la Casa Bianca di Obama intende veicolare con forza è quella di una direzione politica che, pur ad assetti variabili, coincide nel richiamo fermo alle regole della democrazia liberale. E’ con questo profilo ideologico che Obama ritiene di dover invertire la discesa progressiva degli Stati Uniti nella governance planetaria.

Le Forze armate egiziane assumeranno il comando e decideranno la formazione di un governo provvisorio; se questo sarà il primo passo verso la strada della democrazia o se invece sarà il primo atto di un golpe, lo vedremo presto. Quello che è certo, è che la caduta del rais non altererà in profondità gli equilibri politici e militari di tutto il Medio Oriente. La sua alleanza con Israele, infatti, ha rappresentato una garanzia di esercizio del controllo politico della regione. Mubarak, ben lontano dal panarabismo nasseriano, è stato un alleato prezioso del governo israeliano nel controllo militare e d’intelligence sulla striscia di Gaza.

Difficile immaginare, anche per il ruolo Usa nella crisi, che quest’assetto subirà variazioni significative. Troppo delicato per gli equilibri geopolitici il ruolo dell’Egitto, paese più popolato del mondo arabo. Ma va registrato come, diversamente da quanto avvenuto in Turchia e in Algeria (pur in contesti diversi tra loro ed entrambi diversi da quello egiziano), i militari hanno scelto - almeno per ora - di esercitare un ruolo di garanzia, rifiutandosi d’imporre con la forza il mantenimento del quadro politico.

I prossimi giorni chiariranno meglio verso quale futuro s’incammina il paese che ha abbandonato per sempre il silenzio e la rassegnazione. Quale soluzione politica, con quali personaggi e con quali garanzie in ordine all’apertura di una fase democratica nuova, sono alcuni degli interrogativi che ora si aprono.

Ma sono i temi che dovranno essere affrontati da domani: stasera il Paese è solo una festa immensa, non c’è posto per analisi e valutazioni, per timori e previsioni. Il rais dell’Egitto, almeno stasera, è il suo popolo.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è concluso in questi giorni un altro capitolo della storia decennale delle occupazioni illegali di Berlino. La polizia ha sgomberato Liebigstr 14, uno degli ultimi condomini occupati dell’ex-Berlino est, tra le violente proteste dei gruppi autonomi anarchici. Non resta che chiarire l’identità dei protagonisti di un fenomeno, quello delle case progetto abusive, che appare ormai quasi fuori luogo e fuori dal tempo: disadattati in cerca di violenza gratuita, o giovani che, per non rinunciare a un sogno, provano difendere con i denti un’utopia? 

Allo sgombero di Liebig 14 hanno preso parte 2’500 poliziotti, piazzati già dalle prime ore del mattino attorno al condominio e in tutto il quartiere; qualche giorno prima sono stati chiusi due asili e diversi negozi della zona per ragioni di sicurezza. Lo scontro diretto tra forze dell’ordine e gli inquilini è durato solo poche ore: nel primo pomeriggio di mercoledì, nel condominio di Liebig 14 era già tornato il silenzio. Non soddisfatti, gli autonomi hanno continuato a protestare violentemente nei quartieri circostanti fino a notte tarda. I giornali parlano di centinaia di migliaia di euro di danni, che qualcuno arriva a stimare in un milione. Senza dimenticare i 60 poliziotti feriti e le decine di arresti tra i manifestanti.

Occupata dal 1990, Liebig 14 era un’icona per i movimenti anarchici e antifascisti berlinesi, ma non solo. Numerose manifestazioni di solidarietà sono state organizzate anche a Copenhagen, Amburgo e Amsterdam, quasi a ribadire ancora una volta a gran voce una filosofia, quella delle occupazioni illegali, che appare in pericolo. Chi occupa vuole essere libero dagli obblighi e dalle convenzioni sociali per dimostrare che l’uomo sa portare avanti una convivenza pacifica e intellettualmente produttiva senza leggi. Lo scopo è costruire una vita di comunità al di fuori di regolamenti imposti dall’alto, al di là dallo schema di vita prefissato dalla società in cui viviamo. Ideologie che hanno vissuto il loro tempo, forse, e che, alla luce dei privilegi di cui godiamo nella nostra società, potrebbero apparire utopie senza senso. Eppure non è sempre stato così.

Le prime occupazioni abusive risalgono agli anni ’70: la finanza si stava preparando a trasformare Francoforte sul Meno (Sud della Germania) nella capitale dell’economia europea, ma a qualcuno il progetto non piaceva. Gli uffici scintillanti degli istituti bancari tedeschi avrebbero dovuto sostituire le vecchie abitazioni del centro storico.

Già era tutto scritto, eppure il movimento studentesco ha cominciato a occupare gli stabili proprio per provare a impedirlo. È stata una lotta vera e propria contro il nuovo sistema capitalista che considerava gli immobili alla stregua di oggetti di speculazione, senza tenere conto della necessità dei cittadini. Tra i giovani militanti di Francoforte, tra l’altro, c’erano alcuni futuri ministri del Bundestag, il Parlamento tedesco.

L’occupazione abusiva si diffonde poi in Germania per ragioni più concrete. Siamo all’inizio degli anni ’80 e nel Paese, come del resto in tutta l’Europa, abbondano i condomini vuoti in attesa di ristrutturazione: le agenzie cacciano gli inquilini per modernizzare gli stabili, ma li lasciano vuoti per anni aspettando i periodi più lucrosi per la vendita. Risultato? Tanta la gente senza casa, poche e costose le abitazioni rinnovate, centinaia e centinaia i condomini in rovina senza proprietari veri e propri. “Occupare per recuperare, piuttosto che possedere per lasciare andare in rovina”, hanno cominciato a gridare i giovani.

Il centro nevralgico delle occupazioni abusive in territorio tedesco è stata Berlino, forse proprio in ragione della sua storia travagliata. Nel 1981 la parte ovest della città contava ben 300 stabili occupati: gli effetti della seconda Guerra mondiale sono stati devastanti e l’attuale capitale tedesca ha impiegato molto tempo per risanarsi e riempire i vuoti, forse più di altre città.

Nei confronti delle numerose case occupate, la Berlino degli anni Ottanta ha adottato una politica di tolleranza che ha fatto storia, la cosiddetta “linea berlinese”: la polizia impediva con ogni mezzo le nuove occupazioni, ma tollerava le vecchie finché i proprietari non avessero richiesto espressamente lo sgombero. Nel frattempo si arrivava a patti tra gli inquilini “abusivi” e i proprietari. Da centinaia che erano, nel 1985 una malinconica Belino ovest contava 78 case “occupate”, i cui inquilini pagavano affitti simbolici ai proprietari.

Dopo la caduta del Muro sono state occupate un centinaio di case anche nei quartieri dell’ex-Berlino est,;una quantità non indifferente per cui la capitale riunificata ha rispolverato la “linea berlinese”. Liebig 14 era una degli ultimi immobili adattati dagli attivisti a progetto culturale ed è stata sgomberata dopo ventuno anni di occupazione proprio alla luce della richiesta dei nuovi proprietari.

Il centro di Berlino, così come già quello di altre metropoli prima di lei, sta diventando un territorio monotono, standardizzato e accessibile esclusivamente ai benestanti: per il suo carattere di città giovane ancora in evoluzione, i risultati della speculazione edilizia sono più visibili a Berlino che altrove, forse proprio perché ancora “in atto”.

Uno fra tanti, fenomeno sociologico per eccellenza, la gentrificazione. E non occorre essere d’accordo con il carattere a volte violento delle occupazioni illegali per notarlo e affermarlo. Eppure, il tempo ha mostrato che per cambiare il volto di una società non serve la violenza e non bastano le occupazioni illegali. Credere in un’utopia non è sbagliato: serve anche ad imparare a scendere a compromessi con la società per trasformarla in traguardo. Difenderla con i mezzi sbagliati, purtroppo, non porta a niente. Ma non basta, di per sé, a dichiararla sbagliata per principio.

 


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