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di Carlo Benedetti
MOSCA. Per la sua diretta dipendenza dall’ex presidente della Russia Putin, è stato sempre definito (anche sulla base della sua statura) come “Liliputin”, il “piccolo Putin”... Ora però Dmitrij Anatol’evic Medvedev (classe 1965, al vertice della Russia dal maggio 2008) si libera dall’etichetta che gli è stata affibbiata. E lo fa in modo clamoroso (mostrando una orgogliosa autonomia) in un’intervista a reti unificate dei tre maggiori canali televisivi della Russia e dopo che Putin aveva occupato la tv statale con una intervista fiume di oltre quattro ore densa di affermazioni autoritarie ed antidemocratiche.
Ed ora Medvedev si è preso il gusto della rivincita a tutto campo mettendo in luce tendenze e traiettorie nuove. Stanco, evidentemente, di essere un secondo, umiliato ed offeso. E così vuota il sacco. Lo fa dapprima mettendo in rilievo i più importanti eventi dell’anno uscente nella vita interna del paese (superamento della crisi, svolta nella politica nei confronti del mondo d’infanzia, caldo anomalo di questa estate, 65esimo anniversario della Vittoria sul nazismo, sicurezza e Start 2 in dirittura d’arrivo). Poi, in appena due ore, sferra l’attacco. Ed è - pur se con giri di parole - che affronta il rapporto con Putin.
Prende spunto dalle gravi affermazioni fatte ultimamente dal premier, in tv, a proposito del processo che vede imputato l’oligarca Michail Borisovic Chodorkovskij (classe 1963) arrestato nel 2003 per evasione fiscale e da allora in galera. Putin – con una battuta ripresa da un telefilm di successo e relativa al fatto che “i ladri devono stare in prigione” – ha in pratica dettato la sua linea alla magistratura, violando ogni regola di elementare diritto. E così Medvedev lo ha sconfessato, riportando l’intera questione sul piano giuridico e facendo notare che chi dirige il Paese non deve fornire risposte in grado di fare pressioni sulla Magistratura.
A questo proposito - respingendo piccoli giochi politici interni - ha voluto ricordare che in Russia la democrazia sta uscendo dall’ambito parlamentare, in quanto non è rappresentata soltanto dalle istituzioni e da norme procedurali, ma è anche espressione diretta dell’opinione pubblica, pure attraverso Internet. Ha poi parlato di democrazia diretta e, quindi, un nuovo affondo su Putin.
Perchè ha voluto mettere in evidenza che ci sono, in Russia, anche altri esponenti del mondo politico e sociale che possono venire avanti sino ad arrivare alle più alte cariche del Paese. E non a caso ha fatto i nomi di una serie di nemici personali di Putin... “Voglio fare - ha detto Medvedev - una dichiarazione ufficiale. Per dire che vi sono personaggi nel mondo politico attuale ed anche persone che non sono nel giro del Parlamento - come Michail Kasjanov, Eduard Limonov, Boris Nemtsov e Garry Kasparov - che possono benissimo salire ai vertici del Paese…”.
Un avvertimento molto esplicito alla vasta schiera di laudatores del primo ministro. Tutto questo per non parlare di altri due goal messi a segno da questo presidente che si sta ritagliando un suo grande spazio politico. Sullo sfondo c’è la cacciata dell’oligarca Jurij Michailovic Luskov da sindaco di Mosca (e della sua banda dominata dalla moglie Elena Baturina, una palazzinara di livello mondiale...) e la nomina del nuovo capo della città l’ingegnere Serghiei Semionovic Sobianin, classe 1968, un siberiano pragmatico che potrebbe divenire il “castigatore” degli oligarchi che imperversano in una Mosca (sono parole sparate in diretta tv da Medvedev) “sempre più corrotta”. Si può dire - senza paura di essere smentiti visto l’imprimatur presidenziale - che comincia l’era di Medvedev. Prima covava sotto le ceneri. Ora no.
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di Michele Paris
Tra i provvedimenti più importanti che l’amministrazione Obama adotterà nei primi mesi del 2011, secondo alcune indiscrezione della stampa americana confermate dalla Casa Bianca, c’è una misura che legittimerà definitivamente la detenzione illegale dei presunti terroristi ospitati nel carcere di Guantánamo. La direttiva giungerà sotto forma di decreto presidenziale e, ricalcando le orme della precedente amministrazione, autorizzerà la detenzione a tempo indeterminato dei prigionieri, senza che nessuna accusa formale venga sollevata nei loro confronti.
Appena insediato alla Casa Bianca nel gennaio del 2009, Barack Obama promise solennemente di chiudere la struttura detentiva di Guantánamo entro un anno. Di fronte alle resistenze del Congresso (a maggioranza democratica) e in seguito alla politica sulla sicurezza nazionale da allora perseguita dalla stessa amministrazione, a quasi due anni di distanza non solo il famigerato carcere rimane operativo, ma ci si prepara addirittura ad un riconoscimento ufficiale degli abusi ai quali l’allora neo-presidente aveva promesso di porre fine.
A preparare l’opinione pubblica americana per l’imminente annuncio sono stati recentemente due articoli apparsi sul Washington Post e sulla testata investigativa indipendente ProPublica. Fonti governative anonime avrebbero rivelato come la nuova politica dell’amministrazione Obama sia in fase di elaborazione da oltre un anno, mentre l’addetto stampa di Obama, Robert Gibbs, ha successivamente confermato come la Casa Bianca stia studiando una soluzione per quei “prigionieri che necessitano di detenzione indefinita”.
L’iniziativa del presidente istituirà un sistema di revisione periodico della situazione di quei detenuti a Guantánamo - attualmente 48 - che vengono considerati troppo pericolosi per essere rilasciati e, allo stesso tempo, che non possono essere perseguiti legalmente in quanto sottoposti a tortura per ottenere presunte prove dei loro legami con organizzazioni terroristiche. Nel carcere di Guantánamo sono rinchiusi anche altri 126 accusati di terrorismo, la cui sorte risulta ancora incerta.
La valutazione dei singoli casi verrà affidata ad una commissione speciale, teoricamente simile alle commissioni per la libertà vigilata del sistema penale americano, con la differenza che queste ultime hanno a che fare con prigionieri che hanno subito una condanna definitiva. Tramite audizioni periodiche, i membri di questa commissione dovrebbero esaminare se i detenuti continuino a rappresentare una minaccia o se al contrario possano essere rilasciati e trasferiti in un paese terzo senza rischi per la loro incolumità.
Tale sistema dovrebbe rimpiazzare le procedure stabilite in precedenza dall’amministrazione Bush, già congelate da Obama e che prevedevano un’audizione annuale davanti ad una commissione militare, di fronte alla quale i detenuti non potevano essere rappresentati da avvocati difensori. La nuova direttiva in fase di formulazione, invece, dovrebbe comprendere membri della commissione non solo militari, una rappresentanza legale per i sospettati e l’accesso alle prove raccolte nei loro confronti.
Gli ospiti di Guantánamo vengono da anni tenuti in stato di detenzione sotto la categoria di “nemici in armi”, una definizione adottata all’indomani dell’11 settembre per aggirare il diritto internazionale e la stessa costituzione americana nel nome della cosiddetta guerra al terrore. In questo modo, presunti affiliati ad Al-Qaeda o a gruppi talebani possono essere imprigionati e tenuti in un limbo legale per un periodo di tempo indefinito.
Nonostante la condanna pronunciata più volte da Obama in campagna elettorale e all’inizio del suo mandato alla Casa Bianca verso i metodi anti-democratici promossi dal suo predecessore, l’eventuale chiusura di Guantánamo non era peraltro dettata da particolari scrupoli per il mancato rispetto dei diritti umani. Il carcere sull’isola di Cuba rappresentava per il presidente il simbolo dell’odio verso gli Stati Uniti, da qui la necessità di mettere in atto un’operazione di facciata e quindi chiuderlo definitivamente.
La fine delle detenzioni a Guantánamo, così, non ha mai rappresentato la premessa dell’abbandono definitivo degli abusi. Tant’è vero che da subito il Dipartimento di Giustizia si era adoperato per individuare strutture carcerarie sul territorio americano idonee ad ospitare i presunti terroristi. Il propagandato ritorno alla legalità promesso da Obama, insomma, non è mai stato altro che un trasferimento di massa da un lembo di terra su un isola caraibica ad un carcere negli Stati Uniti, dove i detenuti avrebbero continuato a rimanere imprigionati senza alcuna giustificazione legale.
Ora, l’ordine esecutivo del presidente che si annuncia a breve lascia pensare che nessuna chiusura di Guantánamo avverrà in tempi ragionevoli. Tanto più che nell’ultima seduta dell’anno il Congresso ha approvato una misura che stabilisce severe restrizioni al trasferimento in territorio americano dei sospettati di terrorismo rinchiusi a “Gitmo”, anche se per sottoporli ad un processo in sede civile. Ciò complica ulteriormente i piani di Obama, il quale inoltre difficilmente metterà il proprio veto sulle restrizioni al trasferimento perché approvate all’interno del provvedimento che rifinanzia le guerre di Iraq e Afghanistan.
Le conseguenze della posizione che prenderà ufficialmente l’amministrazione Obama sulle detenzioni illegali sono state prospettate dalle varie associazioni a difesa dei diritti civili che si battono da tempo per il ritorno alla legalità negli USA. Per il Center for Constitutional Rights, organizzazione che rappresenta molti prigionieri di Guantánamo, il decreto presidenziale in arrivo “getta le basi per trasformare le carceri americane in luoghi dove persone da tutto il mondo vengono rinchiuse senza accuse né processi, erodendo enormemente i principi della Costituzione e il diritto internazionale”. Per l’American Civil Liberties Union, una tale misura finirebbe per “normalizzare e istituzionalizzare la detenzione indefinita e altri metodi implementati dall’amministrazione Bush”.
Le rivelazioni della stampa americana, in ogni caso, non devono cogliere troppo di sorpresa, dal momento che l’amministrazione Obama ha già fatto ampiamente ricorso ai procedimenti anti-democratici nei confronti dei sospettati di terrorismo e autorizzati dal Congresso americano nel settembre del 2001. Ciò lascia pensare che il sistema che sarà ufficializzato tra pochi mesi verrà applicato anche ad altri prigionieri, oltre a quelli detenuti a Guantánamo.
La politica anti-terrorismo di Obama, d’altra parte, non si è discostata di molto da quella di chi lo ha preceduto. In questi due anni, infatti, oltre ad assicurare l’impunità per i responsabili degli abusi nella precedente amministrazione, il presidente democratico non ha esitato ad autorizzare detenzioni senza fondamento legale, omicidi mirati anche di cittadini americani all’estero e bombardamenti indiscriminati in paesi non in guerra con gli USA che hanno mietuto centinata di vittime civili.
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di Fabrizio Casari
Le elezioni bielorusse hanno avuto l’esito che s’immaginava. Un vero e proprio plebiscito per il presidente Lukashenko nelle urne, un vero e proprio ripudio alla sua vittoria e al suo sistema sui media occidentali. Dall’Osce al Dipartimento di Stato, fino al Cremlino, le trombe hanno squillato, per evitare che il Paese, il suo Presidente, i suoi elettori e i suoi stessi oppositori potessero risultare oggetto di analisi e riflessioni sul voto.
Lukashenko è il tipico “uomo forte”, certo poco avvezzo alla dialettica con l’opposizione; ma anche poco abituato a vederla, almeno una degna di tal nome. Ed é possibile che abbia forzato la mano, ma non ci sono notizie verificabili in questo senso, mentre gli stessi rapporti degli osservatori internazionale lo escludono.
Ma per i media e le cancellerie occidentali la percentuale vicina all’80 per cento dei voti sembrerebbe voler assegnare, di per sé, una patente di elezione truffa. E il fatto che i candidati dell’opposizione - divisi e reciprocamente ostili - abbiano raccolto pochi punti percentuali, invece di stimolare ragionamenti sull’effettivo livello di rappresentanza dei partitini da essi fondati (e da altri sostenuti e finanziati) è sembrata la prova provata di un’elezione truccata. Si é insomma assistito, come in altre occasioni, ad una vera campagna ideologica contro un Paese accusato di ideologia superata.
Il metro é sempre lo stesso: se i paesi sono occidentali o, comunque, hanno politiche filo-occidentali, la democrazia é certa e il ricorso alle urne diventa affidabile e indiscutibile; se invece il paese non inneggia al capitalismo ultraliberista e si schiera con "l'impero del male" (vedi Chavez, Castro, Lula, Ortega e altri) allora il governo diventa un regime, il Presidente un dittatore e le elezioni un imbroglio.
Va detto, peraltro, che l’anticipazione delle elezioni era stata definita “illegale” e “da eliminare” sia dai partitini oppositori sia dall’Osce, come se il ricorso anticipato alle urne non fosse pratica consueta in tutti i paesi occidentali. Ma, evidentemente, quello che vale in Europa e Usa non può valere in Bielorussia. Perché?
E non sono certo i disordini di piazza a stabilire il tasso di affidabilità dell’opposizione; il film già visto in Ucraina e Repubblica Ceka racconta bene come certe opposizioni vengono costruite a tavolino dalla NED e quanto al tasso di democraticità dei nuovi regimi dell’Est Europa (vedi, da ultimo, il caso Ungheria, con la legge che proibisce la libera stampa) è cosa tutta da discutere.
Eppure, se si considerano le elezioni una prova del gradimento popolare delle politiche governative, se si ritiene che il voto (a maggior ragione se anticipato) possa rappresentare una sorta di referendum nei confronti del sistema e di chi lo incarna, bisognerebbe chiedersi come mai quattro giorni di urne aperte, con osservatori internazionali attenti ad ogni minimo inconveniente, producano un plebiscito governativo e riducano l’opposizione e i suoi alleati internazionali a poco.
Alla vigilia del voto, il britannico The Guardian, aveva scelto di analizzare la situazione della Bielorussia senza utilizzare le lenti deformate degli interessi di Usa, Europa e Russia verso un paese di 10 milioni di abitanti, ricco di minerali e confinante con Russia, Polonia, Lettonia, Lituania, Ucraina. Un paese sul quale l’influenza altalenante di Mosca ha prodotto problemi e vantaggi, secondo le strategie del Cremlino e della loro variabilità per il controllo diretto e indiretto dell’area.
Ebbene, scriveva il The Guardian, in uno dei suoi reportage da Minsk: “Può qualcuno immaginarsi che un leader europeo, sotto il cui mandato gli ingressi reali della popolazione crescono in maniera notevole e stabile, visto che la crescita è attestata sul 24% nell’ultimo anno, possa essere sconfitto nelle elezioni?” “Per di più - aggiungeva il quotidiano inglese - è riuscito a tenere a bada l’inflazione e in sette anni ha ridotto del 50% il numero delle persone che vivevano in povertà, evitando convulsioni sociali grazie alla distribuzione della rendita più equitativa della Regione?
Va poi aggiunto che durante l’ultimo piano quinquennale la Bielorussia ha raggiunto risultati ancora maggiori: la disoccupazione è al livello più basso che in qualunque altro paese del mondo e sia lo sviluppo economico, sia la distribuzione equa delle rendite, hanno classificato la Bielorussia tra i dieci paesi al mondo dove la distanza economica tra le persone più ricche e quelle più povere è la minore. Perché mai, con questi risultati il popolo bielorusso avrebbe dovuto votare per l’opposizione?
Ad ogni modo, si potrà anche obiettare sulla scarsa adattabilità di Lukaschenko alla dottrina liberale; si potrà anche definirlo un dittatore, secondo gli stessi parametri, ma è evidente che il nocciolo del problema è tutto politico e riguarda l’assetto politico e costituzionale di una Repubblica presidenziale che, fuori moda e fuori dal coro, attua una politica economica pianificata e centralizzata e si definisce “socialista”. Socialista e nel cuore dell’Europa: affronto intollerabile sia per chi non lo è mai stato, sia per chi odia ormai il fatto di esserlo stato.
Ovvio quindi, che da questa parte del mondo risulta molto più affascinante il modello liberista, contro il quale ci si può opporre nei fine settimana o con qualche amaro commento su quotidiani editi da bancarottieri, attenti a criticarne le storture, al limite, ma non a riconoscerle come elemento fondativo del sistema, che invece viene reputato il migliore. Anzi, l'Unico.
Ma perché un modello come il nostro, che fa dell’ingiustizia e dell’iniquità due peculiarità tra le più amare ed evidenti, che vive d’impunità per i potenti e privilegi per pochi, che è basato sulla corruzione e sul conflitto d’interessi, sul capitalismo assistito e sulla guerra dello stesso contro il lavoro, sulla pressione fiscale più forte a fronte dei servizi sociali peggiori, sulla selezione di classe e sulla disoccupazione strisciante, con il 50 per cento della ricchezza in mano al 9% della popolazione, con un modello di relazioni industriali mutuato dal secolo scorso, dovrebbe risultare affascinante anche per chi vive ad altre latitudini? E perché mai una legge elettorale come la nostra, che regala deputati a chi non ha avuto i voti corrispettivi, dovrebbe risultare più democratica di una che assegna deputati in proporzione ai voti?
Lukashenko non è un campione di democrazia e il suo modello non è certo nemmeno auspicabile - e tantomeno riproducibile - nel cuore dell’Impero. Ma scegliere una via diversa da quella del pensiero unico, puntare sull’inclusione sociale invece che sull’esclusione e ritenere le libertà collettive quali garanzie di quelle private e non come conseguenza delle stesse, non può essere derubricato come illiberale e, dunque, dittatoriale. Invece che far squillare le trombe della propaganda, sarebbe meglio squadernare lo spartito e imparare a leggere la musica. Quella che suona la sinfonia gradita e quella che, più che stonata, appare sconosciuta.
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di Giuliano Luongo
Ormai non si contano più le magagne che, grazie agli sforzi di Assange e dello staff di Wikileaks, vengono a galla a cadenza settimanale. Nonostante l’argomento più gettonato riguardi sempre l’incompetenza radicata degli Stati Uniti a gestire qualsiasi conflitto in cui vadano usate armi più pericolose delle fionde, sono stati evidenziati dei dettagli interessanti su di un altro argomento: i rapporti tra Berlusconi e Putin in ambito approvvigionamento gas.
Il sito di Assange è riuscito a far focalizzare nuovamente l’attenzione di alcuni giornali sul fatto che il nostro governo avesse deliberatamente remato contro la strategia dell’Unione Europea per la diversificazione dei fornitori di energia, in favore di accordi diretti con la Russia: inutile dire che accanto agli accordi ufficiali c’è un abbondante sospetto di “spinte motivazionali” per gonfiare le tasche del nostro premier.
Ma prima di lanciarci in accuse di genere, o semplicemente in qualsiasi altra attività, è opportuno riassumere l’intero quadro energetico, onde ovviare alle migliaia di falle che l’informazione mainstream ha contribuito a produrre dai primi mesi del 2009 ai giorni nostri.
Anche ai più disinteressati è ben nota la situazione dell’approvvigionamento energetico non solo strettamente nostrana, ma dell’Europa occidentale tutta: per farla breve, anche per cause geologiche unite al continuo rifiuto del rinnovabile, siamo non solo grandi importatori di petrolio, ma anche di gas naturale. Il gas proviene essenzialmente da due rotte: quella nordafricana (buondì Gheddafi) e quella dell’Europa dell’est, con la Russia come “sorgente” e l’Ucraina come paese di transito.
Censuriamo il circo libico e per un attimo e concentriamoci su quello post-sovietico. Il transito nel territorio ucraino ha, di fatto, sempre posto i russi in una strana posizione nei confronti del governo di Kiev: una qualsiasi mancanza di questi ultimi - sia in fatto di pagamenti delle forniture dello stesso gas che per i più disparati motivi politici - portava Mosca a controbattere premendo semplicemente il tasto OFF sull’erogazione di metano.
Metodo di pressione fortissimo, ma controproducente: essendo l’Ucraina paese di transito, il gas non arrivava nemmeno più nelle amene case europee. Conseguenza: sedere congelato per noi, portafogli vuoto per Mosca. Fu così che alla Gazprom - il colosso nazionalizzato del gas russo - venne l’ideona di costruire un gasdotto alternativo, in grado di bypassare l’intero territorio ucraino e di portare la tanto agognata “aria fritta” direttamente in casa dei clienti, lasciando così la chance di lasciare al freddo l’eventuale partner economico fedifrago in maniera strettamente mirata. Il progetto si componeva - e si compone tutt’ora - di due rami, denominati Nord e South Stream.
Il primo avrebbe attraversato il Mare del Nord per arrivare in Germania (Kiel), mentre il secondo dovrebbe attraversare il Mar Nero per arrivare direttamente in Bulgaria, onde poi ramificarsi in Austria e, soprattutto, Italia. Mentre il progetto settentrionale trovò appoggio dal cancelliere tedesco Schroeder, quello meridionale si schiantò contro il “no” secco di Romano Prodi, a causa non solo del timore di ampliare ulteriormente l’egemonia energetica russa, ma anche a causa della presenza di una soluzione alternativa che andava nascendo proprio in casa europea.
Potrà stupire, ma è già dal 2002 (ben prima quindi delle due peggiori crisi energetiche russo-ucraine, datate 2005 e 2009) che Bruxelles ha in mente un progetto di approvvigionamento gas alternativo, il Nabucco. I capoccioni comunitari sfruttavano un’intesa nata dalle menti delle compagnie energetiche OMV (austriaca) e Botas (turca) assieme a partners bulgari ed ungheresi: costoro avevano studiato un percorso alternativo che andava a prendere il gas alla fonte, partendo dal Medio Oriente, per attraversare la Turchia arrivando infine a Vienna. Questo progetto “adottato” dalle UE non ebbe però il seguito sperato: nonostante si siano aggiunte una compagnia romena e una compagnia minore tedesca, il progetto è rimasto arenato per una serie di fattori non strettamente economici.
In primo luogo, la Germania ha dato un apporto inferiore a quanto auspicato, visto il suo maggiore interesse per le “offerte dirette” di Mosca e la scarsa fiducia nella cooperazione comunitaria (senza dimenticare che un grosso pacchetto del colosso crucco E-On è in mano ai russi). In secondo luogo, una serie di condizioni poste dalla Turchia - tra cui l’ipotesi di una pre-accessione alla comunità europea - hanno scoraggiato i potenziali partner più nazionalisti dal prendere parte a questa iniziativa. Tra questi la Germania, che già aveva i suoi motivi, la Francia (una delle tante scuse per promuovere il suo nucleare) ed infine l’Italia. E finalmente siamo arrivati a noi.
Una volta cestinato il governo Prodi, le ambizioni del cavaliere si sono allontanate sempre più da un’ipotetica convergenza con i piani europei. La prima decisione è stata quella di riaprire i contatti con la Gazprom per mettere in atto il South Stream. Inaspettatamente, in tema di costruzione gasdotti, l’Italia ha un vantaggio: la nostrana Saipem (controllata da Eni) è stata a lungo tempo monopolista nella tecnologia per la costruzione di condotte sottomarine di qualità, cosa che rendeva l’Italia un partner davvero appetibile nel settore. La nostra geniale strategia geoeconomica è consistita nel dare un metaforico calcio nel sedere al piano europeo - invitando anche i paesi già partecipanti ad uscirne - per dare spazio maggiore ad un colosso dal quale siamo già dipendenti.
Gli accordi firmati con Gazprom hanno permesso l’entrata dei russi nella proprietà di numerose compagnie italiane (in SeverEnergia al 51%, 49% in Promgas, 51% in Volta SpA) nelle quali prima era l’Eni a farla da padrona: pare manchi poco al regalo anche di parte della stessa Saipem, o almeno della sua preziosa tecnologia. Nota di costume: non si dimentichi che a fine ’09 anche una grossa compagnia francese sia entrata nell’orbita South Stream, dando un altro colpo alle mire europee. Il gasdotto russo, dai tempi di costruzione più lunghi del Nabucco, permetterebbe un afflusso maggiore di gas da riserve “sicure” garantite dagli affidabili e poco iracondi moscoviti.
Bene. Mentre si cercava di mantenere alte le speranze del Nabucco con la mediazione USA e gli investimenti della BIRS lungo l’estate ’09, l’Italia ha corso per chiudere definitivamente i propri accordi con Gazprom, come in una vera competizione. Colpisce il quasi totale silenzio della stampa in quel periodo: solo i giornali più vicini al premier davano un minimo spazio alla notizia, dipingendola ovviamente come un grande successo della nostra “diplomazia”.
Se è diplomazia svendere le proprie aziende in favore di una strategia che disintegra gli sforzi congiunti europei per l’indipendenza energetica, siamo davvero a cavallo. Meglio: siamo a pecora. Come ciliegina sulla torta, di recente Wikileaks ha ventilato l’ipotesi di una sorta di “guadagno al metro” sul gas per Silvio, come regalo di Putin per aver avuto un’altra chance per allungare il controllo russo sull’energia europea.
Di certo questa possibilità lancia interessanti speculazioni sul futuro, ma per ora non rimane che assistere all’evolversi della situazione. Ah già, a proposito, assieme al gas Putin ci ha anche rifilato centrali nucleare di vecchia generazione che funzionano solo con carburante russo. Ma di questo altro gran successo magari ne parliamo un’altra volta.
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di Alessandro Iacuelli
Con i voti della coalizione di governo conservatrice, il Parlamento ungherese ha approvato oggi con una maggioranza dei due terzi quella che nel Paese è già stata ribattezzata "legge bavaglio": una riforma del sistema di comunicazione dei mass media che consente al governo un ampio controllo su tutti gli organi di informazione, radio, televisione, giornali e anche internet.
In base alla legge, viene costituita l'Autorità nazionale delle comunicazioni, nominata unicamente dal partito di maggioranza del premier Viktor Orban, alla guida di una coalizione di destra. L'Autorità potrà sanzionare con multe salate tutti i media in casi di non meglio precisate "violazioni dell’interesse pubblico". La controversa legge prevede inoltre la soppressione delle redazioni di news alla tv e alla radio, che confluirebbero in un unico "centro di notizie" presso l'agenzia di stampa nazionale, MTI, volto ad assicurare una confezione uniforme delle notizie per tutti i media pubblici.
Sembra l'attuazione del XXI secolo delle famose "veline" di memoria fascista, ma non c'è solo questo, nella nuova legge, che tanto piacerebbe anche a tanti politici italici. Per cominciare, i giornalisti investigativi saranno tenuti a rivelare le loro fonti e i telegiornali dovranno rispettare un tetto del 20% per notizie di cronaca nera. Non manca una nota di nazionalismo, tanto caro al partito del premier: il 40% della musica mandata in onda dovrà essere di provenienza ungherese. Il capo dell'Autorità, nominato direttamente dal capo del Governo con un mandato di nove anni, avrà facoltà di emanare decreti.
"D'ora in poi, giornalisti e redattori dovranno essere molto cauti su cosa pubblicheranno", ha messo in guardia il direttore del Nepszabadsag, il maggiore quotidiano indipendente magiaro. La testata ha annunciato ricorso alla Corte costituzionale contro la legge. Tutti gli organi di stampa liberali e di sinistra temono che le multe previste per i trasgressori possano soffocare le testate economicamente deboli.
Csaba Belenessy, direttore generale dell'agenzia MTI, chiamata a dirigere la nuova "centrale di notizie", ha invece dichiarato senza molti peli sulla lingua che i giornalisti dovranno essere leali al governo. Le news della centrale saranno gratuite per gli utenti e l’agenzia sarà finanziata unicamente dal bilancio statale. L'agenzia sarà composta, come ha più volte ribadito Belenessy, da professionisti fedeli al governo.
Nel tentativo di dissipare timori e preoccupazioni, il premier Orban, in visita prima a Vienna e poi a Londra, ha detto che le nuove norme per i media sono in tutto conformi alle norme europee. Non è molto d'accordo una delegazione dell'Ipi (Istituto Internazionale della Stampa), che la settimana scorsa ha espresso preoccupazioni per la situazione della stampa in Ungheria. Critiche severe sono state formulate anche nell’ultimo rapporto del garante per la libertà di stampa dell’Osce, l'organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
In pratica, d'ora in avanti, stampa, radio e tv in Ungheria finiscono sotto il controllo del governo. La minaccia è pesante soprattutto per gli editori deboli e non allineati al pensiero del partito politico di maggioranza: l'Autorità per le comunicazioni sarà autorizzato a sanzionare giornalisti ed editori responsabili della diffusione di notizie "inappropriate e squilibrate" con multe che possono arrivare fino a 90.000 euro. La legge non fissa alcuna regola per stabilire cosa sia inappropriato e squilibrato.
Le associazioni dei giornalisti ungheresi e internazionali denunciano questa normativa che "limita la libertà di informazione". All'inizio di dicembre per protesta contro questa "legge bavaglio", voluta dal premier Viktor Orban, due settimanali e un quotidiano sono usciti in edicola con la prima pagina bianca. In risposta, il ministro della Funzione pubblica, in un'intervista ad Euronews, ha chiesto "a tutti un po' di pazienza: dimostreremo che le misure adottate vanno nella giusta direzione".
Intanto il risultato è quello di un notevole consolidamento del controllo esercitato dal governo conservatore di Orban sulla totatlià dei mezzi di informazione del paese. Una legge simile in un Paese dell'Unione europea non si era mai vista. Soprattutto per quanto riguarda soppressione delle redazioni di news alla tv e alla radio.
L'approvazione della "legge bavaglio" non è un aspetto isolato, ma fa parte di un più ampio progetto politico. E' l'ultima mossa di un disegno preciso della maggioranza conservatrice. A luglio, dopo aver ottenuto in aprile una maggioranza di due terzi alle elezioni (senza precedenti dopo la caduta del regime comunista in Ungheria) che consente di modificare la Costituzione e la struttura dello Stato, il primo ministro Orban ha subito istituito un'Autorità nazionale delle telecomunicazioni con a capo la garante Annamaria Szalai, vicina al premier, e composta da cinque membri, tutti nominati dal partito di governo. In pratica, si punta al controllo completo di tutti i flussi d’informazione.
Circa 1.500 persone, la sera di lunedì 20, hanno dato vita ad una fiaccolata davanti il Parlamento a Budapest. A partecipare, soprattutto giovani universitari. I manifestanti hanno reclamato la libertà di stampa, minacciata a loro avviso dalla nuova legge che prevede interferenze sul contenuto per tutti segmenti dei media: televisione, radio, stampa e internet. Il timore dei dimostranti e di molti osservatori e che, per evitare sanzioni e multe salate che potrebbero significare la fine soprattutto dei giornali più piccoli e indipendenti, le testate si autoregoleranno, praticando l'autocensura.
Orban si è giustificato con il fatto che la tv pubblica, per esempio, era senza presidente da anni perché l'Autorità, nella quale c'erano tutti i partiti, non riusciva ad accordarsi su un nome. Giornali e radio liberali e di sinistra stanno denunciando da mesi che si tratta di una campagna del governo per imbavagliare il dissenso. Campagna che ora sta arrivando alla sua vittoria finale: la possibilità di multare fino a 90.000 euro i quotidiani, fino a 48.000 i siti internet d'informazione, e fino a 240.000 euro per Tv e radio.