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di Michele Paris
Come ampiamente previsto alla vigilia, le elezioni per il rinnovo del Parlamento irlandese hanno segnato venerdì scorso il tracollo dei due partiti di governo. A pesare sulle sorti del Fianna Fáil del premier Brian Cowen e sui Verdi è stata la rovinosa crisi economica che dal 2008 ha colpito il paese e le conseguenti misure di austerity adottate senza scrupolo per rimediare ad un enorme buco di bilancio.
Per il Fianna Fáil la sconfitta elettorale ha assunto i contorni di una vera e propria disfatta. Dei 78 seggi ottenuti quattro anni fa, sui 166 del Dáil (parlamento), il partito che ha governato l’Irlanda negli ultimi quattordici anni ne conserverà non più di 25, alla luce di un consenso tra gli elettori sceso al 17,4 per cento (dal 41,5 per cento). Si tratta della peggiore prestazione elettorale dal 1926, anno della sua fondazione.
A dare la misura della batosta per il partito guidato dal ministro degli Esteri, Micheál Martin, sono stati i risultati di Dublino, dove dei tredici seggi in palio che deteneva, il Fianna Fáil ne ha conservato appena uno, quello del ministro delle Finanze Brian Lenihan. Per il Green Party, poi, il voto del fine settimana ha comportato la sparizione dal panorama politico irlandese. Il misero 1,8 per cento conquistato significa che i Verdi non avranno nessun seggio nel prossimo parlamento.
A beneficiare dell’impopolarità del governo uscente è stato in primo luogo il Fine Gael, di centro-destra, che ha messo a segno la migliore prestazione elettorale della sua storia. Il partito del prossimo Taoiseach (primo ministro), Enda Kenny, ha raccolto poco più del 36 per cento dei consensi (27,3 per cento nel 2007) e porterà al parlamento di Dublino 76 rappresentanti.
La seconda forza nel paese è diventata il Partito Laburista, appena sotto il 20 per cento e con circa 36 seggi nel nuovo Dáil. Il principale raggruppamento di centro-sinistra entrerà a far parte di un governo di coalizione con il Fine Gael che in grandissima parte percorrerà la stessa politica di lacrime e sangue del gabinetto uscente.
Significativi passi avanti hanno fatto anche il Sinn Fein (10 per cento, 13 seggi) - con il proprio leader, Gerry Adams, eletto nella contea di Louth dopo che si era dimesso dal Parlamento di Londra e dall’assemblea di Belfast per correre nella repubblica d’Irlanda - e gli Indipendenti (12,6 per cento, 13 seggi). Nemmeno al tre per cento è giunta invece l’Alleanza Unita di Sinistra, formata dal Partito Socialista e da altre conformazioni minori come teorica alternativa di sinistra al Labour.
La punizione inflitta dagli elettori irlandesi ai partiti di governo riflette il profondo malessere diffuso nel paese per le misure draconiane imposte come condizione per accedere al maxi prestito da 85 miliardi di euro erogato l’anno scorso dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale. A questo percorso obbligato - fatto di tagli alla spesa sociale e licenziamenti nel settore pubblico - non si sono viste alternative concrete nel corso della campagna elettorale appena terminata, così che il voto di protesta si è concentrato sui due principali partiti di opposizione.
Il premier in pectore, Enda Kenny, appena appreso del successo elettorale, ha spiegato ancora una volta come il suo governo intenderà muoversi nel prossimo futuro. “Voglio lanciare un messaggio a tutto il mondo”, ha affermato il ministro del Turismo e del Commercio tra il 1994 e il 1997 dopo aver conquistato il suo seggio nella contea di Mayo. “Questo paese ha chiaramente legittimato il mio partito a formare un governo forte e stabile, con un programma ben definito”. Dichiarazioni queste che lasciano intuire come l’obiettivo primario del nuovo esecutivo irlandese sarà quello di rassicurare i mercati, garantendo l’implementazione dei drastici tagli alla spesa pubblica adottati dal Fianna Fáil e ampiamente appoggiati anche dal Fine Gael.
Quest’ultimo partito, che non si differenzia sensibilmente dal punto di vista ideologico dalle posizioni del Fianna Fáil, ha basato la propria campagna elettorale sulla promessa di rinegoziare il prestito EU-IMF. L’impegno, tuttavia, prevede esclusivamente il tentativo di ottenere tassi di interesse più contenuti e la possibilità di ripagare il prestito in un periodo di tempo più lungo. Per il resto, il programma di governo include ulteriori tagli di bilancio, il licenziamento di 30 mila dipendenti pubblici nei prossimi quattro anni ed una nuova campagna di privatizzazioni per quelle poche aziende rimaste in mano pubblica.
Il bilancio di emergenza approvato poco prima del voto, e che prevede tagli per 4,5 miliardi di euro solo per l’anno in corso, aveva trovato d’altra parte il sostegno sia del Fine Gael che del Labour, così da immettere l’Irlanda sulla strada della riduzione del deficit al di sotto del tre per cento del PIL entro cinque anni. Per raggiungere tale obiettivo saranno chiesti nuovi pesanti sacrifici ai lavoratori e alla middle-class irlandese.
Una prospettiva che minaccia l’esplosione del conflitto sociale in un paese dove, ad esempio, la disoccupazione è salita dal 4,2 per cento del 2005 al 13,8 per cento attuale. Il ruolo dei Laburisti, legati a doppio filo con i sindacati ufficiali, diventerà perciò fondamentale per far digerire agli strati più penalizzati della popolazione le devastanti misure che già si annunciano a breve.
Lo scenario che attende l’Irlanda è dunque quello che già si sta profilando anche per altri paesi in Europa e altrove. Anche nella ormai ex Tigre Celtica a scatenare la crisi fu l’esplosione di una colossale bolla immobiliare speculativa nel 2008. La decisione del governo Cowen di salvare i profitti delle banche coinvolte aprì una voragine nei bilanci pubblici, per ripianare la quale si è messa in atto una drastica riduzione della spesa pubblica.
Anche con queste misure, in ogni caso, sono in pochi a scommettere sull’effettiva capacità dell’Irlanda di ripagare il proprio debito con le istituzioni che ora dettano, di fatto, la politica economica di Dublino (EU e IMF). Con la ripresa delle emigrazioni di massa e una popolazione sempre più impoverita, l’economia irlandese continua infatti a contrarsi. Per questo, anche se la coalizione Fine Gael-Labour ha conquistato una chiara affermazione elettorale, la strada verso la guarigione dell’Irlanda si presenta ancora tutta in salita.
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di Carlo Musilli
La campanella che ha svegliato l'Onu dal suo sonno diplomatico, stavolta, si chiama Barack Obama. Con una presa di posizione fra le più dure del suo mandato, il presidente degli Stati Uniti ha firmato venerdì scorso una serie di sanzioni contro la Libia, aggiungendo poi che Gheddafi "se ne deve andare ora, per il bene del suo Paese", avendo "perso ogni credibilità e legittimità a governare".
Dopo l'intervento americano è finalmente arrivato l'accordo anche fra i quindici membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che, in linea con l'Unione Europea, ieri notte hanno approvato la risoluzione contro il regime libico. I 192 paesi che fanno parte delle Nazioni Unite dovranno imporre un embargo sulle forniture di armi verso Tripoli e congelare i beni del Colonnello e dei suoi familiari, a cui si impedirà anche di viaggiare nell'Unione Europea. Il documento prevede sanzioni specifiche contro Gheddafi, otto dei suoi figli, due cugini implicati nel massacro dei dissidenti e altri undici esponenti del regime. Fra questi figurano il capo delle Forze Armate, il ministro della Difesa e il capo dell'antiterrorismo.
La risoluzione contiene inoltre il deferimento del rais alla Corte penale internazionale dell'Aja, competente in tema di crimini di guerra e contro l'umanità. Proprio questo è stato il nodo più difficile da sciogliere, a quanto pare, a causa della Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto. Anche a Pechino c'è un regime che, com'è ovvio, non vede di buon occhio il Tribunale dell'Aja. Per questo pare che i cinesi, pur non discutendo nella sostanza il contenuto delle sanzioni alla Libia, abbiano chiesto di sfumare il riferimento al possibile intervento della Corte internazionale. Nel Palazzo di Vetro si è seriamente temuto che il gigante asiatico si mettesse di traverso, ma alla fine lo scoglio è stato superato e il voto è stato unanime.
Eppure, una voce contraria alla risoluzione c'è stata. Secondo il primo ministro turco Erdogan, l'Occidente si sta muovendo solo per "calcolo", in funzione del petrolio, e il provvedimento non farà altro che aggravare la situazione del popolo libico. Se si fosse limitato alla questione umanitaria, forse, avrebbe suscitato maggiore attenzione. Ma Erdogan se l'è presa con l'"Occidente" e per questo può facilmente essere liquidato come un leader incauto, che ragiona in ottica islamica.
Il premier turco ha però sicuramente ragione quando sostiene che "non si può assicurare la pace nel mondo ricorrendo sempre e solo a sanzioni". Non tanto perché queste non siano giustificate, ma perché ormai è tardi. In questi ultimi anni i governi di mezzo mondo si sono macchiati di connivenze e collaborazioni con il regime di Gheddafi. Le misure adottate oggi non possono farcelo dimenticare, risolvendo un decennio di ingloriosa diplomazia in un manicheismo da quattro soldi. Non può bastare così poco per scaricarsi la coscienza e ripulirsi l'immagine.
Anche perché, in effetti, le sanzioni non avranno alcun effetto su quello che in Libia sta accadendo. Per un inspiegabile senso del pudore, o forse per semplice pedanteria semantica, in molti si rifiutano ancora di chiamarla col suo nome: guerra civile. In ogni caso, è evidente che nessuna delle misure decise dall'Onu favorirà materialmente la risoluzione del conflitto, almeno non in tempi brevi. Per questo, come indicato dall'ambasciatrice degli Stati Uniti, Susan Rice, il documento emanato fa riferimento anche all'articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che "non esclude un intervento internazionale se necessario".
Ma che genere d'intervento? Sul fronte militare, piuttosto che ad un'operazione di sbarco vecchia maniera, si è parlato nei giorni scorsi della creazione di una "no fly zone" sulla Libia. Un provvedimento che però andrebbe prima approvato dall'Onu, poi messo in pratica dalla Nato. Ecco spiegato uno dei cambiamenti più significativi nel passaggio dalla bozza alla risoluzione vera e propria: la frase che faceva riferimento all'uso di "tutte le misure necessarie" si è addolcita, limitandosi ad affermare una generica "cooperazione per facilitare e sostenere" l'ingresso degli aiuti umanitari. Meglio non rischiare altre brutte figure.
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di mazzetta
I militari americani e le aziende che li riforniscono del necessario hanno seri problemi nel mantenere i loro budget ai livelli stratosferici raggiunti durante l'amministrazione Bush. La realtà sul campo rende evidente che gli Stati Uniti non hanno bisogno di grandi e sofisticati sistemi d'arma in teatri come l'Iraq o l'Afghanistan, dove i militari si sono innamorati dei droni che hanno il terribile difetto di costare poco in confronto a un moderno aereo multiruolo o a navi che sembrano uscite dai fumetti.
Molti sistemi d'arma possono essere giustificati solo con la presenza di una minaccia bellico-tecnologica adeguata e quella “islamica” proprio non è sufficiente a giustificare le spese stellari in certi casi. I paesi islamici più dotati militarmente hanno armi fornite dagli USA e il povero Iran è del tutto privo di aviazione militare e di una marina da guerra minimamente credibile, quanto le sue sopravvalutate capacità missilistiche non riescono a giustificare la costruzione di uno scudo che protegga l'Europa da vettori persiani.
Non si possono giustificare gli investimenti in aerei da combattimento quando la supremazia aerea è già incontrastata e nulla, nemmeno nell'orizzonte di decenni, sembra insidiarla. Non si possono chiedere navi fantascientifiche quando già non esistono marine da guerra capaci di mettere indubbio il dominio assoluto di tutti i mari. Le marine da guerra più capaci hanno qualche decina di navi da guerra, gli Stati Uniti ne possiedono centinaia, tra le quali le più grandi e le più potenti di ogni classe.
Così non resta che la minaccia cinese. E se i cinesi non sono militarmente credibili per il ruolo, si può sempre contare sulla diffusa percezione del grande avanzamento e della grande espansione commerciale della Cina tra le opinioni pubbliche occidentali e collegarla a un'analoga volontà d'espansione militare. La costruzione della “minaccia cinese” intesa come minaccia commerciale, del tutto simile alla vecchia “minaccia giapponese” degli anni '80 che ci avvertiva che i giapponesi ci avrebbero comprati tutti, è già in marcia da tempo.
Un esempio di quest’approccio si ritrova nella ricorrente accusa di voler colonizzare l'Africa, scaturita dal grande successo dei cinesi nel continente, ma del tutto priva di fondamento visto che i cinesi non mandano soldati in Africa e non sembrano ingerire negli affari dei terrificanti governi africani, per lo più al potere con il sostegno di quelli occidentali di riferimento.
I cinesi investono poco in armi, il loro budget aumenta nel tempo, ma sono inferiori a quelle dell'India e rappresentano solo una frazione della spesa corrente americana; qualche decina di miliardi di dollari all'anno contro le centinaia degli statunitensi, al netto delle spese per le guerre in corso.
I cinesi tra un po' avranno la loro prima portaerei, a gasolio. Inutile dire che non è paragonabile a quelle americane a propulsione nucleare, così come i “moderni” sottomarini a gasolio che hanno comprato dalla Germania hanno poco a che fare con i mostri atomici degli americani o dei russi. I russi, con i quali è tramontata qualsiasi ipotesi di confronto militare, sono ancora l'avversario più dotato, ma molto più lontano di un tempo dalle dotazioni americane.
I russi vendono ai cinesi aerei e motori già vecchi in confronto a quelli americani, i cinesi ci lavorano su e appena presentano un aereo modesto che entrerà in produzione tra qualche anno, ne parlano tutti i giornali del mondo. L'aviazione cinese ha le sue armi più terribili negli aerei russi, ma manca ad esempio della capacità di agire a lungo raggio perché non ha mezzi per il rifornimento in volo e negli ultimi anni non ha comprato dai russi a causa di un contenzioso su una vecchia fornitura che i cinesi hanno contestato.
Anche il lancio di un missile cinese contro un satellite ha destato grande scalpore, ma poi sono gli stessi americani a dire che una cosa è colpire un bersaglio fermo e un'altra un satellite che può essere spostato senza troppi patemi in caso d'attacco. Pare che lo stato dell'arte non lo consenta nemmeno agli americani.
Ma tutto ciò importa poco; a Washington giungono di continuo rapporti che raccontano del timore dei cari alleati alla vista dell'aumento delle spese militari cinesi e vanno ad auto-alimentare un circuito poco virtuoso destinato a tener desta l'attenzione anche di questi fantastici stati-cliente ai quali gli Stati Uniti vendono di tutto. Giappone, Corea, India, Australia, Indonesia e altri fino al Pakistan sono armati dagli USA per “contenere” la Cina, circondandola con armi che per i cinesi sono ancora fantascienza.
Purtroppo per i volenterosi lobbysti e per i generali che poi entreranno nei consigli di amministrazione delle aziende che li pagano, c'è la crisi. Sono finiti i tempi nei quali Bush, in nome della guerra santa, poteva spendere quel che voleva e provare persino la grande truffa dell'ombrello antimissile. Nemmeno con la minaccia cinese riescono però a mantenere i vecchi livelli di spesa, ma forse è già un successo il riuscire a limitare un'inversione di tendenza inevitabile quanto per ora modesta.
Senza neppure la minaccia cinese gli americani potrebbero permettersi, per qualche anno almeno, di non spendere un dollaro in molti sistemi d'arma, senza alcun indebolimento della loro supremazia militare su ogni teatro.
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di Michele Paris
Il moribondo movimento sindacale degli Stati Uniti ha visto negli ultimi giorni un improvviso risveglio, in seguito ad una serie di manifestazioni contro gli attacchi ai diritti e agli stipendi degli impiegati pubblici che dal Wisconsin si stanno rapidamente espandendo ad altri stati americani. Il motivo scatenante la protesta è la legge di bilancio presentata dal governatore repubblicano Scott Walker, deciso ad ottenere dai dipendenti dello stato le stesse concessioni a cui i lavoratori del settore privato hanno dovuto acconsentire per pagare le conseguenze di una crisi che nessuno di loro ha contribuito a provocare.
Praticamente tutti gli stati americani si trovano oggi a dover fare i conti con enormi deficit di bilancio che già hanno portato all’adozione di drastiche misure per ridurre la spesa pubblica, con gravi conseguenze come la chiusura di scuole e ospedali, la soppressione di programmi di assistenza sociale e licenziamenti di massa. Se pure il Wisconsin non presenta una situazione dei propri conti così drammatica come quella di altri stati - come California, Illinois o New York - il neo-governatore Walker si è dimostrato pronto a tutto per chiudere a suo modo un buco di circa 3,6 miliardi di dollari previsto per il prossimo biennio.
Le misure in attesa di approvazione prevedono, tra l’altro, un maggiore contributo da parte dei dipendenti pubblici ai loro piani sanitari e previdenziali. Un incremento che andrebbe ad intaccare direttamente le buste paga, concretizzandosi in una riduzione effettiva di circa il venti per cento dello stipendio netto, il tutto a fronte dei sacrifici già richiesti più volte negli ultimi due anni. Inoltre, Walker e i repubblicani, che controllano entrambi i rami del parlamento locale del Wisconsin, intendono portare attacchi diretti al diritto di associazione dei lavoratori statali.
Tra le iniziative in discussione ci sono l’abolizione pressoché totale della contrattazione collettiva, tranne che sulle questioni riguardanti l’adeguamento delle retribuzioni, l’obbligatorietà di ripetere annualmente le elezioni per le rappresentanze sindacali, l’assegnazione di poteri straordinari al governatore per porre fine agli scioperi dichiarando lo stato di emergenza e la proibizione ad alcune categorie di lavoratori di aderire ai sindacati. Ciò che soprattutto preoccupa le varie sigle sindacali é però la fine della raccolta automatica dei contribuiti a loro destinati tramite le detrazioni in busta paga. Un sistema che verrebbe sostituito da contributi volontari e che, con ogni probabilità, ridurrebbe drasticamente la fonte principale delle loro entrate.
Di fronte a tali assalti, sono scattate proteste spontanee, con migliaia di dipendenti pubblici che hanno invaso pacificamente la sede del Congresso statale del Wisconsin, nella capitale Madison, dove tra l’altro i senatori democratici da giorni non si presentano in aula, facendo mancare il numero legale necessario al voto sui provvedimenti voluti dal governatore Walker. Le manifestazioni hanno immediatamente raccolto l’appoggio di molti lavoratori del settore privato, mentre iniziative simili sono andate in scena in stati anche molto lontani, come Maryland, Nevada, New Hampshire, Washington e West Virginia, dove la scure dei falchi del deficit si sta abbattendo allo stesso modo.
Il conflitto sociale riesploso negli Stati Uniti, in seguito al radicalizzarsi dell’offensiva della classe politica - repubblicana e democratica - contro i diritti e le condizioni di vita dei lavoratori, giunge dopo decenni di sporadiche mobilitazioni che hanno segnato il mondo lavoro in questo paese a partire almeno dalla durissima soppressione dello sciopero dei controllori di volo (PATCO) nel 1981 da parte dell’amministrazione Reagan. Uno scenario, quello americano, che ha di fatto causato il progressivo allargamento delle disuguaglianze sociali e l’impoverimento di ampi strati di lavoratori.
Se le associazioni sindacali americane possono contare oggi su un misero 6,9 per cento di aderenti nel settore privato, contro il 36 per cento a metà degli anni Cinquanta, le ragioni vanno ricercate principalmente nel loro stesso ruolo svolto per soffocare le rivendicazioni dei lavoratori e assicurare il sostegno alle condizioni imposte dal capitale. La trasformazione dei sindacati in enormi macchine burocratiche interessate quasi esclusivamente alla loro sopravvivenza, di fronte ad una classe di lavoratori che ha visto perdere a poco a poco i diritti faticosamente conquistati in decenni di lotte, spiega anche la diffusa ostilità nei loro confronti in buona parte della popolazione americana.
La difesa dei loro privilegi è apparsa in tutta evidenza proprio nel corso delle proteste del Wisconsin. I sindacati maggiormente coinvolti nella mobilitazione - il Wisconsin Education Association Council (WEAC) e la sezione locale dell’American Federation of State, County and Municipal Employee (AFSCME) - dopo aver chiesto lo scorso fine settimana ai propri affiliati di interrompere le manifestazioni di protesta, hanno fatto intendere chiaramente di essere disposti a dare il via libera ai tagli agli stipendi dei lavoratori, pur di salvaguardare il diritto alla contrattazione collettiva.
Quest’ultima rivendicazione appare peraltro del tutto priva di significato, dal momento che il ruolo del sindacato nelle negoziazioni non è servito ad altro che a far accettare ogni imposizione proveniente dai vertici delle aziende, annullando le resistenze dei lavoratori stessi e trasformando la contrattazione collettiva in una farsa. Ciò sta portando alla luce una sostanziale divergenza d’interessi tra le organizzazioni sindacali e i lavoratori che dovrebbero teoricamente rappresentare. Ciononostante, è comunque evidente come sia del tutto legittima la lotta per la salvaguardia della contrattazione collettiva da parte dei dipendenti pubblici del Wisconsin, ai quali la scelta dei loro rappresentanti non può essere imposta da politici ultraconservatori.
Praticamente identica a quella della burocrazia sindacale è stata poi la reazione alle manifestazioni da parte del Partito Democratico. I democratici hanno cioè criticato l’atteggiamento anti-sindacale del governatore Walker, pur elogiando più o meno apertamente la sua volontà di ridurre il deficit statale tramite misure draconiane. L’intervento dello stesso presidente Obama - il cui recente bilancio federale non a caso prevede ugualmente una serie di pesanti tagli alla spesa pubblica - mira a difendere la posizione di privilegio dei sindacati al tavolo delle trattative con le aziende.
Una battaglia irrinunciabile per i democratici, non tanto per tutelare i lavoratori quanto per assicurare la sopravvivenza di organizzazioni sindacali che rappresentano fonti di finanziamento importanti durante le campagne elettorali e che svolgono un ruolo fondamentale nel reprimere le rivendicazioni dei lavoratori, così da poter perseguire quasi senza opposizione politiche che beneficiano unicamente i grandi interessi economici e finanziari del paese.
Per raggiungere il proprio scopo, Partito Democratico e sindacati intendono perciò convincere i repubblicani del Wisconsin ad abbandonare i provvedimenti relativi allo smantellamento della contrattazione collettiva, in modo da far passare per una vittoria dei lavoratori un compromesso che preveda “soltanto” un taglio pari a non meno di un quinto delle loro retribuzioni.
La tesi principale che i politici di entrambi gli schieramenti e i media istituzionali cercano di promuovere è d’altra parte quella della necessità di porre fine a “privilegi” di cui godrebbero i lavoratori pubblici, causando pesanti buchi di bilancio alle casse statali. Così, il governatore del New Jersey, il repubblicano Chris Christie, nel presentare a sua volta un bilancio che prevede tagli agli stipendi per finanziare un programma di detrazioni fiscali, ha recentemente definito i lavoratori statali come una specie di “casta” che può contare su benefit e impieghi stabili, ormai una rarità nel settore privato. Come se ciò fosse realmente un privilegio e lo standard per tutti sia destinato a diventare, piuttosto, precarietà e impoverimento.
A questo gioco al ribasso, per cui tutti i lavoratori - pubblici e privati - sembrano dover diventare un’unica classe senza diritti, contribuiscono però anche i governatori democratici, come dimostrano i severi bilanci presentati, ad esempio, da Jerry Brown in California e da Andrew Cuomo nello stato di New York. In una situazione di questo genere, gli scontri e le proteste sono destinate allora a crescere ben presto in tutti gli USA. In pochi giorni, infatti, dal Wisconsin le manifestazioni e le occupazioni dei parlamenti locali si sono diffuse ai vicini Ohio e Indiana, dove sono in discussione identiche leggi di bilancio infarcite di tagli indiscriminati e gravi minacce ai diritti di tutti i lavoratori.
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di Michele Paris
Mentre il vento della rivolta continua a soffiare su tutto il Nord-Africa e il Medio Oriente, la risposta più dura alle richieste di libertà e giustizia sociale provenienti da popolazioni impoverite sta giungendo da quello che resta del regime di Muammar Gheddafi in Libia. Il “leader” ha definito, in una fugace apparizione televisiva, “drogati e ratti” i manifestanti, chiarendo che la repressione sarà ancora maggiore e che, comunque, di fuga non se ne parla: lui morirà in Libia.
I bombardamenti aerei sui manifestanti e lo spiegamento di squadre di mercenari per le strade hanno già provocato centinaia di vittime, rivelando al tempo stesso la disperazione e la volontà del dittatore libico di impiegare qualsiasi mezzo per rimanere al potere. Con un altro autocrate arabo potenzialmente vicino alla fine, i governi occidentali, nonostante le dichiarazioni ufficiali, si trovano di nuovo a fronteggiare con estremo timore la perdita di un regime con il quale condividono profondi legami economici e interessi strategici.
Le parole di Gheddafi confermano quanto si attendeva: la minaccia del pugno di ferro contro i rivoltosi era infatti già stata prospettata la scorsa domenica dal figlio del rais, Seif al-Islam, in una confusa apparizione televisiva che indicava la guerra civile come conseguenza inevitabile delle proteste di piazza. Un breve discorso dello stesso Gheddafi nella notte tra lunedì e martedì aveva smentito poi ogni voce sulla sua possibile fuga in Venezuela. L’irrigidimento del regime si è manifestato così con le identiche tattiche che già avevano caratterizzato le fasi iniziali dell’insurrezione in Egitto e che il presidente Saleh continua ad impiegare in Yemen, mandando nelle piazze gruppi armati di sostenitori del governo che attaccano in maniera violenta gli oppositori.
A detta di testimoni libici citati dalla stampa internazionale, da giorni infatti, in una base aerea di Tripoli, starebbero sbarcando centinaia di mercenari provenienti da vari paesi africani per contribuire alla durissima repressione in corso. Di fronte alla strage messa in atto da Gheddafi, sembrano però emergere divisioni all’interno del regime. Oltre ai più volte citati aerei libici atterrati a Malta, dopo che i piloti si erano rifiutati di sparare sulla folla, membri del governo, ufficiali dell’esercito e una schiera di diplomatici nelle ultime ore hanno abbandonato i propri incarichi in segno di protesta.
Secondo un giornale vicino alla famiglia Gheddafi, ad esempio, il ministro della Giustizia, Mustafa Abud al-Jeleil, avrebbe rassegnato le dimissioni. Lo stesso avrebbe fatto uno dei più anziani ufficiali libici, il colonnello Abdel Fattah Younes, di stanza a Bengasi, mentre Gheddafi ha messo agli arresti domiciliari il generale Abu Bakr Younes, accusato di aver disobbedito all’ordine di usare la forza per disperdere le proteste in svariate città. I delegati della Libia all’ONU hanno poi rinunciato alle loro funzioni, chiedendo a Gheddafi di andarsene, così come il rappresentante di Tripoli presso la Lega Araba, Abdel Monem al-Howni.
La risposta dei governi occidentali alle violenze in Libia è apparsa come al solito fin troppo moderata. La responsabile degli affari esteri dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ripetuto il consueto appello alla calma a entrambe le parti in causa, come se le ragioni delle due parti, o ancor più i mezzi della popolazione e di un regime con le sue forze di sicurezza, fossero in qualche modo equiparabili. L’Italia, il paese occidentale più vicino alla Libia e al suo leader, ha emesso da parte sua un comunicato di circostanza per condannare l’uso della forza sui civili.
Queste reazioni, d’altra parte, come per le altre rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo, sono dettate dalle preoccupazioni di governi che in questi anni si sono dati da fare per stabilire contatti e fare affari con il regime di Gheddafi. A partire almeno dagli anni Novanta, il governo libico ha intrapreso una serie di iniziative volte ad ammorbidire le posizioni occidentali nei propri confronti. Un’evoluzione culminata nel 2004 con la decisione presa dall’amministrazione Bush di rimuovere le sanzioni economiche precedentemente implementate.
In Europa, l’Italia - con i governi Berlusconi - e la Gran Bretagna sono state in prima fila nella corsa ad assicurarsi le risorse energetiche libiche e gli investimenti del clan Gheddafi. La Libia oggi esporta infatti verso i paesi UE circa l’80 per cento del proprio petrolio, di cui oltre il 30 per cento a beneficio dell’Italia, tanto che sul fronte del greggio Tripoli è attualmente il terzo fornitore europeo, dopo Norvegia e Russia.
Il governo di Londra ha fatto di tutto per ristabilire rapporti cordiali con Gheddafi, così da aprire la strada a lucrosi contratti per le proprie compagnie petrolifere, come la BP. La stessa liberazione nel 2009 di Abdelbaset al-Megrahi, l’unico condannato per l’esplosione sopra Lockerbie del volo Pan Am 103 nel dicembre 1988, detenuto in un carcere scozzese, venne da molti descritta come un favore concesso a Tripoli in cambio di un importante contratto petrolifero proprio per la BP.
Notevoli sono anche gli interessi dell’ENI, detentore di svariate commesse in Libia, e le cui attività sono ora in serio pericolo, come dimostra il rimpatrio d’urgenza di tutto il personale operante nel paese. Un’iniziativa questa già adottata anche dalla norvegese Statoil, dalla francese Total, dalla spagnola Repsol e dalla stessa BP, la quale ha sospeso le trivellazioni esplorative in programma nel Golfo della Sirte.
I legami economici tra Europa e Libia non riguardano però solo il settore energetico, come sa bene il governo italiano. I fondi libici, sostanzialmente controllati dalla famiglia Gheddafi, hanno effettuato massicci investimenti in parecchie compagnie del nostro paese, delle quali detengono quote significative, a cominciare da FIAT, Unicredit e Mediobanca, ma anche Finmeccanica e lo stesso ENI.
Relazioni economiche e militari legano poi Londra e Tripoli. La Gran Bretagna da tempo addestra e rifornisce infatti l’esercito e le forze di sicurezza della Libia. Gli equipaggiamenti militari destinati a Tripoli sono stati congelati solo di recente, dopo lo scoppio della rivolta nel paese.
Come se non bastasse, ingenti riserve di valuta estera che Gheddafi e il suo entourage hanno accumulato, costringendo in uno stato di povertà gran parte del paese, si trovano su conti esteri e possono influenzare addirittura il comportamento di questo o quel governo.
Uno degli esempi più lampanti si ebbe nell’estate del 2008, in seguito all’arresto in un hotel di Ginevra di un altro figlio del rais, Hannibal Gheddafi, e della moglie, accusati di aver maltrattato due domestici marocchini. In quell’occasione, la Libia adottò una serie di ritorsioni, tra cui la minaccia di chiudere i propri conti in Svizzera, mettendo a repentaglio la tenuta stessa del sistema bancario di quel paese. Poco dopo l’arresto, la famiglia Gheddafi ottenne le scuse ufficiali da parte delle autorità elvetiche e la liberazione della coppia di maneschi rampolli.
I timori occidentali sono dunque quelli di ritrovarsi senza un regime stabile che fino ad ora ha garantito regolari forniture di gas e petrolio, investimenti e, nel caso dell’Italia, un più o meno rigido controllo dei flussi migratori. Le paure che animano soprattutto il nostro governo sono state espresse a Bruxelles dal Ministro degli Esteri Frattini, il quale ha messo in guardia dalla possibile instaurazione in Libia di un regime islamico radicale.
Se in Libia, come altrove, le proteste di piazza non sembrano in ogni caso avere un carattere religioso, ciò che preoccupa non è tanto l’Islam, dal momento che Frattini e gli altri governi occidentali non si fanno scrupoli nell’intrattenere ad esempio stretti legami con un regime oscurantista come quello dell’Arabia Saudita. La loro inquietudine è bensì per un eventuale governo che risponda finalmente alle richieste del popolo e che sia in grado di costruire un percorso autonomo e non più disposto ad assecondare passivamente gli interessi occidentali.
La repressione del regime, intanto, non fa altro che inasprire la protesta, con i disordini che sempre più stanno interessando la capitale Tripoli, dopo che i rivoltosi da qualche giorno sembrano aver conquistato il controllo di Bengasi e delle regioni orientali del paese. Allo stesso tempo, cominciano ad arrivare notizie di numerosi scioperi che fanno pensare all’inizio di una mobilitazione dei lavoratori, come già accadde in Egitto poco prima della spallata decisiva a Mubarak.
Anche in Libia i manifestanti chiedono la fine della dittatura e l’instaurazione di un governo temporaneo secolare guidato dall’esercito e dai rappresentanti dei gruppi tribali nei quali è divisa la popolazione. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, le prospettive della rivoluzione appaiono più complicate rispetto a Tunisia o Egitto. In più di quarant’anni di regime assoluto, Gheddafi ha fatto leva su un senso di appartenenza tribale più profondo rispetto all’identità nazionale, stabilendo rapporti di favore con i clan più fedeli ed emarginando quelli rivali. In un tale scenario, il rischio concreto è appunto l’esplosione di violenze settarie e lo scivolamento verso una sanguinosa guerra civile.