di Emanuela Pessina

BERLINO. Nonostante le polemiche di alcuni liberali in merito alle opinioni poco adulatorie (a volte imbarazzanti) espresse da Philip Murphy sui politici tedeschi, trapelate di recente tramite l’irriverente WikiLeaks, Angela Merkel non ha intenzione di procedere in alcun modo nei confronti dell’ambasciatore statunitense a Berlino. La Cancelliera ha fatto sapere di non ritenere necessaria nessuna spiegazione in merito e ha escluso con decisione l’idea sventolata da alcuni liberali di chiedere la revoca dell’incarico di Murphy.

In realtà è proprio Guido Westerwelle (FDP) a risultare tra i più criticati dai dispacci “segreti” nell’ambito tedesco. Secondo quanto riporta il settimanale Der Spiegel, gli appunti lo descrivono come incompetente, frivolo e antiamericano: peggio di così non gli poteva andare. L’ambasciata americana lo considera un vero e proprio elemento di disturbo per i rapporti bilaterali Berlino-Washington, forse più dell’opposizione rossa.

Nove giorni prima delle legislative del 2009, l’ambasciatore americano a Berlino Philip Murphy invia la sua opinione in proposito a Washington: “Come un esperto di politica estera di nostra conoscenza ha commentato, Westerwelle manca di personalità ed è considerato troppo opportunista per essere credibile come ministro degli Esteri” continua Murphy, esprimendo a chiare parole i suoi dubbi in proposito. “Con Westerwelle a capo del ministero degli Esteri ci dobbiamo aspettare difficoltà: si vanta di essere un nostro grande amico, ma in realtà è molto scettico nei nostri confronti”.

Le opinioni di Murphy, in realtà, lasciano poco al caso, in quanto si fondano su una conoscenza molto approfondita delle forze di Governo teutoniche. I dispacci pubblicati da Wikileaks raccontano nei minimi dettagli alcuni dibattiti interni del Governo federale: tra questi, ad esempio, la discussione sulle testate atomiche statunitensi presenti su suolo tedesco. Siamo a inizio ottobre 2009, legislative si sono appena concluse e a Berlino si tratta per un governo di coalizione tra FDP e CDU/ CSU. Durante questa riunione, riferiscono i dispacci di Murphy, Westerwelle si è espresso a favore di un ritiro delle armi nucleari americane. Wolfgang Schaeuble (CDU), attuale ministro delle Finanze, ha spiegato che le armi nucleari servono a intimidire l’Iran e a relaivizzarne, quindi, la minaccia.

La risposta di Westerwelle è tanto secca quanto - per gli Stati Uniti - inopportuna: secondo il ministro liberale, le testate nucleari non possono in alcun modo raggiungere la potenza mediorientale per ovvie questioni di distanza. È Angela Merkel (CDU) a interrompere diplomaticamente la discussione: la Cancelliera puntualizza che un’azione individuale della Germania a favore del disarmo nucleare non porterebbe a nulla.

Ma la questione delle testate nucleari è solo una dei tanti temi affrontati dai dispacci e tutti gli argomenti vengono affrontati con la stessa ricchezza di dettagli. Si parla della presenza delle truppe tedesche in Afghanistan, dell’approvazione del sistema di sicurezza antiterrorismo Swift al Consiglio europeo, dell’atteggiamento negativo di “Sua Eminenza grigia” Schaeuble nelle questioni economiche. Ce n’è per tutti. La Cancelliera diventa “Angela Teflon Merkel”, in riferimento forse al materiale antiaderente delle moderne pentole e alla sua capacità di farsi scivolare addosso le critiche.

Secondo Murphy, Horst Seehofer, leader della CSU, avrebbe mostrato di non sapere neppure quanti soldati statunitensi siano stazionati per il momento in Baviera. Dopo alcune sue esternazioni contro la partecipazione dello Stato tedesco alla missione in Afghanistan, risalenti a dicembre 2009, l’ambasciatore statunitense avrebbe ricevuto una chiamata di giustificazione da un contatto nelle fila dei cristiano-sociali. Il misterioso personaggio esprimeva la sua “frustrazione per gli interventi di Seehofer, che ha parlato ancora una volta senza consultarsi con nessuno”.

Ma non sono solo i contenuti trapelati, che hanno a tratti il sapore dei pettegolezzi di paese, a imbarazzare la politica tedesca. I dispacci americani parlano di un membro del partito dei liberali che racconta “ingenuamente e volentieri” le discussioni interne del Governo tedesco e delle singole forze di coalizione all'ambasciata americana. Si tratta di un verbalizzatore che si prende la briga di passare poi all’ambasciata americana presenze, orari, gruppi di lavoro, così come appunti scritti a mano di tutto ciò che è stato detto durante le riunioni e documenti interni delle forze di coalizione. In poche parole, una catastrofe. Secondo Der Spiegel, gli Stati Uniti sanno più dello scenario politico tedesco di tanti politici tedeschi stessi. Rimangono ancora da chiarire i criteri che impediscono di considerare l’informatore una spia a tutti gli effetti.

Westerwelle ha reagito a questa indiscrezione nell’unico modo possibile: non crede assolutamente all’esistenza di questo fantomatico verbalizzatore per conto terzi, il ministro liberale ha piena fiducia nei suoi. Inoltre, secondo Guido Westerwelle, le informazioni di Wikileaks non vanno a intaccare in alcun modo i rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Germania. La preoccupazione del ministro degli Esteri tedesco va piuttosto a quelle persone che la pubblicazione dei documenti segreti ”potrebbe mettere in pericolo di vita”, riferendosi forse agli informatori delle superpotenze democratiche occidentali che collaborano da Paesi sotto regime o di guerra. Una prospettiva molto interessante, vista la bufera che l’imbarazzo che certe indiscrezionii avrebbero potuto sollevare in Germania.

A quanto pare, dopo i segreti militari degli Stati Uniti, ora Wikileaks ha sferrato un colpo alla diplomazia: le vittime sono i due pilastri della strategia di potere americano, sottolinea Der Spiegel. Anche l’autorevole settimanale di sinistra tedesco sfocalizza l’attenzione sul problema della vulnerabilità del sistema informativo statunitense. Ad essere messa in discussione è la fiducia sistema di protezione degli Stati Uniti, una mancanza che gli Stati Uniti non si possono permettere visto il ruolo di superpotenza che si arrogano da decenni. Ed è proprio questo, secondo Der Spiegel, più che i contenuti dei dispacci in sé, che potrebbe intaccare i rapporti bilaterali tedesco- statunitensi e non solo.

Si tratta di un malloppo di 243’270 dispacci diplomatici che la ambasciate americane hanno mandato alla centrale e di 8’017 direttive inviate dallo State Departement alle sue ambasciate in tutto il mondo. Se ne stanno occupando il New York Times, il Guardian, Le Monde, El País e Der Spiegel: l’analisi di questi giornali è mirata a mostrare come gli Stati Uniti vedono il mondo, le influenze che esercitano e le sconfitte che devono venire accettate.

I primi dispacci segreti sono datati 28 dicembre 1966, gli ultimi febbraio 2010. Per la maggior  parte si documentano gli anni di Georg W. Bush e l’inizio del mandato di Barack Obama: secondo Der Spiegel, ben 49’446 di questi avvisi sono stati mandati dal 2008, l’anno delle elezioni di Obama.

 

 

 

di Carlo Musilli

Hanno detto ancora sì. Un anno dopo aver proibito la costruzione di minareti sul territorio nazionale, gli svizzeri hanno dato il proprio assenso anche al referendum "per l'espulsione degli stranieri che commettono reati". L'ostracismo durerà dai 5 ai 15 anni, 20 per i recidivi. Sarà colpito chi, non essendo elvetico purosangue, si macchierà di gravi colpe quali omicidio, stupro, rapina, traffico di droga e tratta di esseri umani. Curiosamente, alla lista di abomini gli svizzeri aggiungono anche l' "abuso di prestazioni sociali". Il provvedimento è stato approvato dal 52,9% dei votanti, con una netta cesura territoriale: a favore tutti i cantoni di lingua tedesca  (fatta eccezione per Basilea Città), contrari tutti quelli francofoni (tranne il Vallese).

L'iniziativa era stata lanciata durante la campagna elettorale del 2007 dall'Unione di Centro (Udc), che a dispetto del nome è un partito di estrema destra populista, xenofobo e nemico dell'Unione Europea. In tempi record, gli uomini dell'Udc hanno raccolto 211mila firme, più del doppio di quelle necessarie a indire il referendum. Tre anni dopo, l'aria che si respira è ancora quella elettorale: l'esito della recente consultazione rappresenta una vittoria politica fondamentale per l'Udc in vista delle elezioni federali dell'ottobre 2011.

Quanto alla realizzabilità concreta del progetto, invece, i dubbi da sciogliere sono ancora molti. La proverbiale precisione svizzera stavolta lascia davvero a desiderare. Una serie di abnormi problemi giuridici si frappone fra l'idea proposta nel referendum e l'eventuale approvazione della legge. Il più risolvibile è quello relativo all'ordinamento interno della Svizzera: la nuova iniziativa richiederà una modifica della Costituzione per consentire la revoca del permesso di soggiorno e l'espulsione automatica dei malefici stranieri. A sua volta, la riforma costituzionale dovrà essere preceduta da una legge ad hoc ancora tutta da scrivere.

Il secondo ostacolo è invece ben più pericoloso. Quello che gli svizzeri hanno in mente di fare rischia di compromettere la loro posizione all'interno della Comunità Europea. L'iniziativa prevede infatti che anche i cittadini comunitari residenti in Svizzera possano essere espulsi senza tante storie, il che - fanno notare da Bruxelles - è un tantino in contraddizione con l'accordo bilaterale sulla libera circolazione che il Paese ha firmato con l'Ue. Da notare che gli accordi di Schengen risalgono al 1985, ma la sottoscrizione della Svizzera è arrivata solo nel 2008.

Ammesso che gli astuti elvetici riescano a superare anche questo scoglio, come la mettiamo con i diritti umani? Secondo Mevlut Cavusoglu, presidente dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, le misure che la Svizzera vuole introdurre "non sarebbero in conformità con quanto previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo", perché le espulsioni sarebbero automatiche e non soggette ad alcuna procedura d'appello. Questo, a sentire Cavusoglu, comporterebbe il rischio di rispedire qualche straniero in paesi dove potrebbe essere "torturato o perseguitato".

L'Udc è stato l'unico dei grandi partiti presenti nel parlamento svizzero a sostenere questo delirante programma d'espulsioni. Gli altri erano contrari. Tutti. E allora come hanno fatto gli ultraconservatori a spuntarla? La risposta è drammaticamente semplice. Per amor di pluralismo, o più probabilmente per non dispiacere troppo all'elettorato in un momento in cui la situazione sembrava ancora gestibile, il parlamento decretò a suo tempo che il testo non violava il diritto pubblico internazionale e che quindi poteva essere sottoposto al voto del popolo. A quel punto, per arginare il progetto dell'Udc è emersa un’idea tristemente nota in Svizzera: il "Controprogetto".

In sostanza, il documento prevedeva sempre l'espulsione degli stranieri per reati gravi, ma stabiliva che non dovesse essere automatica. Anzi, bisognava valutare caso per caso, garantendo agli interessati la possibilità di fare ricorso, in modo da rispettare il diritto svizzero ed europeo. In uno slancio di titanico progressismo, si ribadiva perfino il dovere di promuovere l'integrazione degli stranieri in Svizzera.

I verdi hanno bocciato il "Controprogetto", mentre i socialisti si sono spaccati (tutto il mondo è paese). Alcuni lo hanno rifiutato perché non distingueva fra gli stranieri di passaggio e quelli nati in Svizzera e perché venivano posti sullo stesso piano reati economici e delitti come l'assassinio o lo stupro, in palese violazione del principio di proporzionalità della pena.

Le uniche forze politiche davvero rilevanti a sostenere questa riforma light sono state il Partito Liberale Radicale (Plr) e il Partito Popolare democratico (Ppd). Risultato: il povero "Controprogetto", anch'esso sottoposto a referendum, è stato bocciato con il 54,2% dei no. Non è stato approvato in nessuno dei 26 cantoni.

A vincere è stata l'Udc. I super-conservatori hanno saputo cavalcare le paure più ingenue, quelle che si accontentano di associazioni rozze, del tipo straniero-criminale. Paure istintive, che di fronte a problemi complessi trovano rassicurazione in risposte chiare, semplici e sbagliate. 

di Fabrizio Casari

Gli Stati Uniti sono nervosi. Balbettano scuse e lanciano accuse. Chiedono e ottengono dall’Interpol un mandato d’arresto internazionale per Assange. Lo scopo è quello d’incolpare il messaggero per salvare il messaggio. Infatti, non arrivano scuse per quanto scritto e, meno che mai, per quanto detto e fatto ai quattro cantoni del pianeta. Bisogna distinguere i due livelli, cioè il testo e il contesto. Sul primo, infatti, le rivelazioni del sito di Assange non sono poi così sconcertanti. Davvero serviva Wikileaks per raccontarci cosa scrivono, pensano e dicono le diplomazie e le robuste differenze che intercorrono tra i tre diversi momenti?

In attesa di leggere le restanti migliaia di file annunciati, sappiamo che i funzionari statunitensi ritengono Berlusconi “il portavoce di Putin”, lo giudicano “inabile” a governare causa festini e lo considerano di scarso spessore politico. Ma è una novità solo per Emilio Fede. Ed é nuovo sapere che Gheddafi usa il botox, perché la Rivoluzione sarà anche Verde ma l’età non lo è più e si fa accompagnare dall’infermiera ucraina in quanto ipocondriaco? O ci giunge nuovo che Sarkozy raccoglie nei suoi 160 centimetri dosi massicce di arroganza e dispotismo?

C’è invece il contesto nel quale le rivelazioni avvengono a segnare in profondità questa vicenda, e il contesto chiama in causa il vero nocciolo della questione: la perforabilità del sistema di comunicazione interno alla superpotenza planetaria. Se questo è il tema, la guerra contro Wikileaks gli Usa l’hanno già persa. Le rivelazioni del sito hanno dimostrato che un budget miliardario e un migliaio di hacker a disposizione della cyber-guerra non sono stati sufficienti a tutelare la sicurezza delle comunicazioni interne, trasformando il Cyber-comando Usa in una confraternita di incapaci. Un tizio qualunque copia, incolla e riversa su un cd interi pacchi di mail e li consegna a chi vuole.

Eppure, per tutelare le loro comunicazioni interne, gli statunitensi avevano predisposto un sistema di sicurezza denominato Siprnet, (Secret Internet Protocol Router Network). Per capirci, una specie di Internet militare separato dalla Rete, dove sono veicolate tutte le informazioni confidenziali tra il Dipartimento di Stato e le ambasciate, oltre che tra il Pentagono e le basi Usa sparse per il mondo a difesa degli interessi dell’impero.

Ma ciò che doveva rimanere uno strumento utilizzabile da pochi, un canale riservato alle comunicazioni di qualche centinaio di persone, è stato in seguito messo a disposizione di quasi tutte le ambasciate e molti dei reparti militari all’estero e che ora é alla portata di circa tre milioni di utenti. Questa è la vera sostanza del problema: nonostante gli sforzi e gli investimenti, le minacce e le esibizioni di muscoli, gli Usa sono perforabili tecnologicamente. E’ forse per questo che il Ministro Frattini (esagerando assai) definisce le rivelazioni di Wikileaks “l’11 Settembre della diplomazia”.

Questa vicenda sembra confermare quanto previsto dal padre della comunicazione moderna, Marshall Mc Luhan, che insegnava come più che il messaggio in sé, ai fini della sua efficacia, importa più il mezzo attraverso cui lo stesso viene veicolato. Più che il contenuto delle mail, infatti, é il veicolo Wikileaks a distruggere la reputazione della sicurezza statunitense nelle comunicazioni interne.

Insomma, quello che Wikileaks ha messo a nudo è la capacità di utilizzare gli strumenti tecnologici per definizione “made in Usa” contro gli stessi Usa e che le risorse infinite possono subire scacco matto da un gruppo di abili redattori. Eccetto questo, nell’occasione ha diffuso tutto ciò che già si sapeva o che era facile immaginare.

Quello che invece non era da tutti conosciuto - e ora lo é - è che il sistema di sicurezza delle comunicazioni è un colabrodo e che la diplomazia statunitense é ridotta davvero male, al punto d’inviare report sulla situazione politica non a seguito di analisi di contesto argomentate ed approfondite, ma dopo aver letto i settimanali di gossip e i quotidiani generalisti, per i quali, parafrasando Von Clausewitz, il gossip è la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ proprio la diplomazia Usa, quindi, la seconda vittima di quanto rivelato. Una diplomazia che si rivela superficiale persino quando pare discettare su cose serie, tra le quali la pressione dei regimi arabi filo-statunitensi affinché si colpisca l’Iran o le lamentele cinesi sull’ottusità dei cugini nordcoreani, sopportati solo per esigenze di controllo dell’area e del relativo parallelo. Ovviamente, se si volesse aggiungere altro sale sulla ferita, basterebbe ricordare le continue dimostrazioni d’incapacità politica e analisi del quadro socio-economico e politico dei funzionari del Dipartimento di Stato sparsi in ogni ovunque dell’America latina.

Ma se si ritiene che le mail intercettate e i giudizi ivi contenuti possano mettere in imbarazzo la diplomazia statunitense, s’incorre in errore. Mail come quelle pubblicate si possono riscontrare da e verso ogni ambasciata e cancelleria del mondo. Contengono giudizi, opinioni, non analisi. Queste, infatti, viaggiano su altri canali, criptati e orali. E sulla qualità dei report delle ambasciate indirizzate ai dirigenti della politica estera non c’è da meravigliarsi in ordine a quanto venuto alla luce.

Ogni Stato ha nei suoi diplomatici estensori di rapporti scarsamente interessanti e, tranne rari casi (quasi tutti europei, scuola di diplomazia antica ed efficiente e i paesi socialisti, di eguale tradizione) difficilmente le ambasciate occidentali e arabe raccolgono il meglio del personale politico cresciuto nelle scuole quadri delle rispettive cancellerie. Per gli Usa, poi, il problema è ancora più serio: personaggi di quarta fila, inviati scopo carriera dovuta, parentele da ossequiare e finanziatori elettorali da risarcire, sono la norma negli uffici delle rappresentanza diplomatiche a stelle e strisce. E a leggere le rivelazioni di Wikileaks, si è autorizzati a pensare che anche sul fronte dell’intelligence le cose, apparentemente, non vadano meglio, dal momento che l’attività di controllo spionistico nei confronti del Segretario Generale delle Nazioni Unite (per fare un esempio) è cosa risaputa e dimostrata come il teorema di Pitagora.

Alla fine, le rivelazioni di Wikileaks sono poco più che la diffusione di mail inutili. Indicative, é vero, ma inutili. Certo, l'offerta di esibizione fotografica e televisiva del proprio Presidente a colloquio con un premier qualunque in cambio dell'accettazione di 2 prigionieri a Guantanamo, non aiuta ad elevare la considerazione per la Casa Bianca e per il suo inquilino.

Ci piacerebbe invece leggere i messaggi cifrati, quelli che sotto la dicitura "Top Secret" vengono inviati dai capistazione Cia a Langley. Lì, ci si può scommettere, ben altre sono le informazioni contenute e ben altro interesse avrebbe leggerle. Per scoprire che gli Usa spiano, manipolano, finanziano, corrompono, minacciano e colpiscono tutto ciò e tutti coloro che a Washington si ritiene siano una minaccia non alla sicurezza nazionale, ma ai loro interessi politici, finanziari, commerciali e militari.

Le “Covert action” della Cia e del Pentagono, però, difficilmente verranno scoperte dal sito di Assange, che per pubblicare ha bisogno di ricevere, cioé ha bisogno di una “talpa” che raccolga e consegni documentazione quanto più pubblica, proprio per evitare che l’individuazione della fonte diventi operazione semplice.

A squadernare le "covert action" della Cia, a smascherare le provocazioni ed i piani che a Washington e Langley studiano per mantenere ad ogni costo la capacità di dominio unipolare, furono giornalisti come i premi Pulitzer Bob Woodward e Carl Bernstein, che pubblicarono sul Washington Post l’inchiesta sul Watergate, obbligando Nixon a dimettersi.

Ancor di più, se davvero si volesse sapere ciò che non è permesso sapere, se davvero si volesse denudare il Re, servirebbero martiri della libera informazione come Gary Webb, anch’egli due volte Premio Pulitzer grazie alle inchieste sul coinvolgimento della Cia nell’introduzione del crack nei sobborghi di Los Angeles e di New York per finanziare la guerra illegale contro il Nicaragua sandinista negli anni '80. La Cia, infatti, vendette centinaia di tonnellate di cocaina e crack negli stessi Usa, al fine di ricavare fondi con i quali finanziare i contras antisandinisti.

Un piccolo giornale, il San José Mercury News e un libro, “The dark alliance”, fecero danni incommensurabili ai criminali che sedevano nel Pentagono, nella Cia e alla Casa Bianca. Oggi per Assange si muove l’Interpol, mentre per Gary Webb si misero i sicari di Langley. A Gary Webb non provarono a fermarlo con il discredito. Lo fermarono con due colpi di fucile e affermarono poi che era morto suicida. Evidentemente sparandosi il primo colpo ancora vivo e il secondo colpo dopo che era momentaneamente risorto. Certamente allo scopo di non lasciare il lavoro a metà.

 

di Mario Braconi

Un documentaro del giornalista canadese Neil MacDonald, trasmesso dalla CBC (Canadian Broadcasting Corporation) la scorsa domenica, mette in fibrillazione il Medio Oriente: un reportage approfondito sull’omicidio dell’ex premier libanese Hariri, che fornisce elementi concreti a sostegno del coinvolgimento del braccio armato del Partito di Dio (Hezbollah) nell’attentato.

In realtà il pezzo di MacDonald non fa che aggiungere elementi alla ricostruzione più ovvia del contesto in cui maturò l’omicidio Hariri: quella tonnellata di TNT che il giorno di San Valentino del 2005 lo cancellò dalla faccia della terra (uccidendo anche altre 22 persone) indubbiamente non poteva dispiacere più di tanto alla Siria, visto che obiettivo dichiarato di Hariri è sempre stato quello di allentare la morsa di Damasco sul suo Paese, trasformatosi nel tempo in un protettorato siriano di fatto.

Se la pista siriana si dimostrasse valida e provata, non sarebbe scandaloso attribuire l’attentato al braccio armato di Hezbollah, un’organizzazione, che, con tutta la benevolenza e la cautela, non può essere certamente definita pacifista e né estranea al brodo di coltura del terrorismo islamico (specie se si pensa che i suoi principali finanziatori sono Iran e Siria).

E’ d’altra parte innegabile che le sue conclusioni risultino urticanti e potenzialmente esplosive per il fragilissimo equilibrio in cui si barcamena il Paese dei Cedri, specialmente perché esse vengono lette dai commentatori locali come un’anticipazione del verdetto del Tribunale Speciale per il Libano de L’Aja, l’organismo che è succeduto alla Commissione di Investigazione Indipendente delle Nazioni Unite sull’omicidio Hariri, assorbendone le competenze. Il pezzo di MacDonald, oltretutto, per la prima volta identifica tra i possibili sospetti niente meno che il Colonnello Wissam Hassan, ovvero l’ex capo della sicurezza del defunto Hariri ed attuale capo dell’intelligence libanese.

In effetti, è per lo meno curioso che la proprio la persona incaricata di proteggere Rafik Hariri sia miracolosamente sfuggito all’attentato che lo ha ucciso, specie se si considerano le modalità con cui tale “miracolo” si è realizzato. Sin dall’inizio, le giustificazioni fornite da Hassan alla Commissione non sono parse particolarmente solide.

La sera prima dell’attentato, racconta Hassan, lo avrebbe chiamato un professore universitario, per comunicargli che l’indomani avrebbe dovuto sostenere un esame. E infatti, risulta che Hariri lo autorizzò a prendersi la giornata successiva per dedicarsi allo studio e all’esame; così Hassan, nel pomeriggio del 14 febbraio 2005, più o meno nel momento in cui Hariri saltava in aria con la sua scorta, entrò negli edifici dell’Università, spegnendo il  telefonino.

Sfortunatamente, i tabulati telefonici acquisiti dalla polizia e poi anche dalla Commissione raccontano una storia piuttosto diversa: non solo fu lui a chiamare il professore, e non viceversa, ma a quanto pare lo fece dopo, e non prima, di aver parlato con Hariri; inoltre passò l’intera mattina del 14 al telefono effettuando ben 24 telefonate, un comportamento curioso per uno “studente” che sta per sostenere una prova; il tutto senza contare che normalmente (e comprensibilmente) in Libano gli alti ufficiali dei Servizi non fanno esami all’università. Per stessa ammissione della Commissione, “l’alibi di Hassan non è stato mai verificato in modo indipendente”.

I tabulati telefonici giocano un ruolo essenziale in questa storia: è grazie alla certosina analisi delle mappe che identificano quali telefonini sono agganciati ad una data cella che un giovane e brillante ufficiale della polizia libanese, Wissam Eid, fece progressi decisivi nell’indagine sulla morte di Hariri, che purtroppo, come vedremo, non vennero sfruttati nel modo dovuto. Eid identificò 8 cellulari che si trovavano nell’area dell’attentato il giorno in cui Hariri venne eliminato.

Si trattava di una specie di rete virtuale, gestita dagli utilizzatori con grande disciplina, al punto che le chiamate in entrata e in uscita provenivano da o raggiungevano esclusivamente numeri del gruppo: vennero chiamati i numeri “rossi” e coincidevano con le utenze presumibilmente usate dal gruppo di fuoco terrorista, visto che si trovavano sempre agganciate a celle vicine a quelle su cui era collegato Hariri e i suoi. Eid si accorse anche di un certo numero di altri telefoni costantemente agganciati sulle stesse celle su cui erano agganciati quelli della rete “rossa”: si trattava di altri telefonini che gli utenti della rete rossa impiegavano per comunicazioni dirette ad una platea di contatti più ampia (“rete blu”).

I cellulari della rete rossa sparirono dai radar delle compagnie telefoniche dopo il 14 febbraio 2005, mentre dello “smaltimento” di quelli della rete azzurra venne incaricato Abd al Majid al Ghamloush, al quale un investigatore ONU affibbiò il poco commendevole epiteto di “idiota”. Come in ogni storia di detective che si rispetti c’è di mezzo una donna: Ghamloush, infatti, sarà anche stato un idiota, ma era innamorato e forse a corto di quattrini: scoprendo che su almeno uno dei numeri “blu” c’era ancora credito, ha creduto bene di chiamare la sua fidanzata Sawan, un comportamento che ha fatto “uscire” allo scoperto il numero, fino ad un minuto primo operante solo su reti “amiche”. Tanto è bastato per consentire l’identificazione dell’improvvido “smaltitore” e a dare la stura ad una messe infinita di altre SIM, tutte in qualche modo connesse all’Ospedale del Grande Profeta a Beirut Sud, un probabile quartier generale della milizia islamica di Hezbollah.

Eid arrivò così alla cosiddetta Rete Rosa, che conteneva quattro numeri facenti capo al Governo libanese ed ufficialmente assegnati ad esponenti del Partito di Dio. A quel punto, secondo la ricostruzione di MacDonald, Eid ricevette una telefonata da una persona dell’intelligence di Hezbollah che lo invitò cortesemente a tenere a freno la sua curiosità, dato che quei numeri erano in uso ad operativi del Partito di Dio impegnati in una (poteva essere diversamente?) azione di controspionaggio contro il Mossad.

Che il lavoro di Eid stesse dando fastidio a qualcuno si capisce dal fatto che, a settembre del 2006, il suo capo, il tenente-colonnello Shehadeh, sfugge per puro caso ad un attentato dinamitardo, e, molto malconcio, è costretto a riparare in Canada (si noti la coincidenza forse non casuale con la nazionalità del giornalista che ha rivelato i retroscena) per sottoporsi ad un delicato intervento e ad una successiva riabilitazione.

In ogni caso, Eid stese un dettagliato rapporto e lo consegnò alla Commissione, la quale non riuscì a fare niente di meglio che smarrirlo. Quando finalmente, ad inizio 2008, il documento di Eid venne riesumato, perfino i non acutissimi e non sempre obiettivi investigatori ONU si accorsero di aver avuto sottomano una possibile chiave di volta per le indagini e di non essere stati in grado di sfruttarla finché forniva tracce “fresche”. Ma i nemici di Eid non devono aver gradito questo rinnovato sodalizio tra l’informatico della polizia libanese e la Commissione: il 25 gennaio 2008 Eid, a soli 30 anni, viene assassinato con un’autobomba che uccide anche la sua guardia del corpo e tre passanti innocenti.

Le informazioni provenienti dal dossier di MacDonald contengono indizi che puntano dritto verso Hezbollah, al punto che, come segnala un commentatore libanese del fronte anti-sirirano sul suo blog, perfino nel lontano Canada si sono fatti un’idea di come devono essere andate le cose quel maledetto giorno del 2005 (e dopo). E’ possibile che la Commissione (almeno prima di diventare un monumento all’ignavia orientale ed occidentale) sia stata uno strumento nelle mani della CIA e degli USA; seppure Hezbollah sia molto attiva nel sociale e si ammanti di principi vagamente socialisti, è lecito porsi qualche seria domanda sulla digeribilità morale delle sue azioni “militari” in generale, ma anche sulla sua reale autorevolezza politica (spiccano in questo senso la totale chiusura della organizzazione nei confronti di un verdetto che colleghi suoi operativi all’assassinio di Hariri, o alle farneticazioni su possibili coinvolgimenti del Mossad nel delitto).

Ma sarebbe intellettualmente disonesto accogliere con una scrollata di spalle il lavoro (serio e documentato) di un giornalista che peraltro nel suo Paese è considerato (come del resto anche la Rete per cui lavora) fin troppo liberal, e che oltretutto ha passato anni in Medio Oriente come corrispondente. Anche perché la gente del Libano, e in particolare tutti i morti innocenti finiti sotto le bombe dei terroristi e i loro parenti e amici, meritano un briciolo di verità; quella che un governo debole e ricattato, infiltrato da personaggi contigui al terrorismo, forse non può proprio permettersi di rivelare.

di Michele Paris

A pochi giorni dallo scontro a fuoco tra Seoul e Pyongyang, la tensione tra le due Coree non sembra essere scesa di molto. L’appoggio incondizionato offerto all’alleato meridionale da parte di Washington ha contribuito anzi ad inasprire un’escalation fatta di minacce e dichiarazioni incendiarie da entrambi i lati del trentottesimo parallelo. L’invito degli Stati Uniti alla Cina per intercedere sul regime nordcoreano, assieme all’invio di navi da guerra nella regione, appare poi l’ennesima provocazione all’interno di una ormai consolidata strategia dell’amministrazione Obama per contrastare il peso sempre crescente esercitato da Pechino in Asia e altrove.

L’ennesima disputa tra la Corea del Nord e quella del Sud, com’è noto, era andato in scena martedì scorso, quando un bombardamento delle forze di Pyongyang aveva colpito l’isola di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, causando la morte di quattro sudcoreani (due militari e due civili). Secondo fonti nordcoreane, il fuoco sarebbe giunto in risposta a colpi sparati dal sud e caduti a poca distanza dalle coste settentrionali. L’episodio ha subito scatenato il panico tra la popolazione sudcoreana e profonde divisioni all’interno del gabinetto del presidente conservatore Lee Myung-bak.

Ad alimentare le preoccupazioni per una situazione che sembra a molti la più delicata dalla fine della guerra tra le due Coree, suggellata dall’armistizio del 1953, ci si è messa anche l’immediata presa di posizione americana. Per tutta risposta, gli Stati Uniti hanno inviato nel Mar Giallo la nave da guerra George Washington, che trasporta velivoli equipaggiati con ordigni nucleari, per dare inizio ad esercitazioni congiunte con la marina sudcoreana. Washington continua ad avere quasi trentamila soldati sul suolo sudcoreano e considera Seoul un alleato fondamentale nel continente asiatico.

All’iniziativa americana, da Pyongyang si è risposto con sdegno, avvertendo che “la situazione nella penisola coreana si sta avviando verso un nuovo conflitto”. Contemporaneamente, a Seoul il ministro della Difesa sudcoreano ha finito per dimettersi in seguito alle critiche dei falchi del proprio partito per l’impreparazione all’attacco nordcoreano e la risposta troppo debole. Sull’isola di Yeonpyeong sono poi giunti rinforzi e armamenti pesanti, pronti ad una durissima reazione contro eventuali nuove incursioni dei vicini settentrionali.

Lo stesso presidente Lee Myung-bak, eletto nel 2008 grazie anche alla linea dura promessa verso la Corea del Nord, è finito sotto accusa per essersi mostrato fin troppo tenero con il regime di Kim Jong-il. In realtà, il taglio drastico agli aiuti verso il nord e la fine della politica di riconciliazione promossa dal suo predecessore, Roh Moo-hyun, hanno contribuito in questi anni a riaccendere le tensioni nella penisola coreana. A ciò va aggiunto il fatto che Pyongyang non ha mai riconosciuto la linea di demarcazione nelle acque del Mar Giallo stabilita dagli USA nel 1953.

La Corea del Nord, anzi, fissò il proprio spartiacque nel 1999, in seguito al quale si verificarono una serie di scontri. Nel 2002 una scaramuccia tra le due marine costò la vita a quattro militari sudcoreani e a trenta nordcoreani. Più recentemente, nel novembre 2009, una nave di Seoul entrò in contatto con un’imbarcazione del Nord proprio alla vigilia della visita di Obama in Asia. L’apice della tensione è stato poi raggiunto a marzo di quest’anno in seguito all’affondamento della nave da guerra sudcoreana Cheonan proprio nel Mar Giallo, nella quale morirono 46 marinai. Per l’affondamento, USA e Corea del Sud hanno accusato Pyongyang, da dove si è negata invece ogni responsabilità.

Le ostilità nella penisola coreana sono dunque state subito sfruttate da Washington per intensificare le pressioni sulla Cina, di fatto il più importante alleato – anzi, l’unico - della Corea di Kim Jong-il. In una serie di dichiarazioni, i vertici dell’amministrazione Obama hanno chiesto a Pechino di intercedere nei confronti di Pyongyang per desistere da ulteriori provocazioni. Lo stesso presidente americano pare abbia parlato direttamente con il suo omologo cinese, Hu Jintao, mentre un inviato di Pechino ha incontrato il presidente sudcoreano, in attesa della visita di un alto esponente della Corea del Nord.

L’invio della nave da guerra George Washington nel Mar Giallo, per stessa ammissione statunitense, è rivolta proprio a persuadere la Cina. Le esercitazioni congiunte americano-sudcoreane nelle acque al largo della Cina, secondo quanto dichiarato da anonimi membri dell’amministrazione Obama alla stampa d’oltreoceano, servirebbero a mettere di fronte Pechino alla realtà di una maggiore presenza americana nella regione nell’eventualità di un aumento dell’aggressività della Corea del Nord.

Ciò che nell’ottica di Washington la Cina dovrebbe fare nei confronti di Pyongyang  è verosimilmente minacciare la fine dei massicci aiuti che garantisce ad un paese che soffre di una estrema povertà, anche a causa di decenni di dure sanzioni imposte dagli USA e dall’Occidente. I cinesi, da parte loro, se da un lato desidererebbero aprire la Corea del Nord alle proprie aziende alla ricerca di manodopera a bassissimo costo, dall’altro dispongono di limitati mezzi di persuasione nei confronti di un regime che si sente continuamente sotto assedio. La destabilizzazione della Nord Corea potrebbe provocare, infatti, non solo un massiccio afflusso di disperati verso la Cina ma significherebbe per quest’ultima ritrovarsi appunto una maggiore presenza americana alle porte.

La dimostrazione della potenza militare americana a due passi dalla Cina rappresenta solo la più recente offensiva di Washington in estremo Oriente. Negli ultimi mesi, gli Stati Uniti hanno ad esempio sostenuto fermamente le ragioni dei paesi dell’Asia sud-orientale nelle loro dispute territoriali con la Cina. Agli stessi governi, inoltre, l’amministrazione Obama si sta riavvicinando costruendo partnership strategiche sempre in funzione anti-cinese. Un rilancio della propria presenza in Asia quello americano che accresce il pericolo di una nuova guerra tra le due Coree e che l’inevitabile coinvolgimento cinese renderebbe ancora più rovinosa per l’intero pianeta.


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