di Eugenio Roscini Vitali

Pur essendo il risultato di un’azione del tutto estranea alla rivolta che in queste settimane sta infiammando l’Egitto, il sabotaggio del gasdotto Arab Gas Pipeline, avvenuto lo scorso 5 febbraio nei pressi di El Lahafan, 15 chilometri a sud di El Arish, città portuale del Sinai settentrionale, non sembra essere un caso isolato e sarebbe inquadrato in una strategia volta a destabilizzare una delle aree più insicure del vicino Medio Oriente.

Secondo quanto riportato dalla televisione di Stato egiziana, il sabotaggio, che ha causato il ferimento di due persone e la temporanea sospensione del flusso di gas verso la Giordania e Israele, sarebbe infatti stato portato a termine da “elementi stranieri” che avrebbero agito a soli 45 chilometri da Rafah, in un settore non lontano dal locale aeroporto internazionale, base in gestione alla Egypt Air Express e sede della smobilitata Palestinian Airlines dal 2001, quando i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza danneggiarono irrimediabilmente la pista dello scalo internazionale Yasser Arafat.

Fonti della compagnia israelo-egiziana East Mediterranean Gas hanno reso noto che l’incendio, visibile in tutta la regione di Sheikh Zuwayid, ha coinvolto una stazione di misurazione che gestisce il flusso di gas verso Israele. Grazie al tempestivo intervento dei tecnici, i danni sarebbero stati comunque contenuti: le cariche, sistemate sotto le tubazione, sarebbero state a basso potenziale e il tempestivo intervento del personale in servizio e dei vigili del fuoco ha permesso di isolare l’area e domare le fiamme nell’arco di qualche ora.

Secondo la radio militare israeliana gli effetti del sabotaggio, che ha comunque interessato la parte della struttura diretta ad Ashkelon, sono stati contenuti; nonostante Israele riceva dall’Egitto più del 25 per cento del proprio fabbisogno nazionale, l’interruzione del flusso impiegato in alcune centrali elettriche non avrebbe avuto contraccolpi nella produzione di energia. Il ministro israeliano per le Infrastrutture, Uzi Landau, ha comunque disposto l’innalzamento del livello di sicurezza per le installazioni industriali più sensibili. L’Arab Gas Pipeline è un gasdotto di 1.200 chilometri che dall’Egitto arriva in Giordania, Siria e in Libano; una ulteriore implementazione dovrebbe estendere la pipeline fino a Kilis, nella Turchia meridionale, per poi collegarsi al Nabucco e seguire la via europea.

Realizzato da un consorzio che comprende le compagnie egiziane EGAS, ENPPI e GASCO, l’americana PETROGET e la siriana SPC, l’Arab Gas Pipeline è strutturato in tre segmenti. Il primo tratto, concluso nel 2003, va da El Arish ad Aqaba, in Giordania; ha una portata di 10 miliardi di metri cubi di gas naturale e comprende una sezione da 1,7 miliardi di metri cubi che si ramifica fino ad  Ashkelon, in Israele. La seconda sezione, di 390 chilometri, passa per Amman e attraversa la Giordania fino a El Rehab, 24 chilometri a sud del confine siriano. Il terzo tratto, completato nel febbraio 2008 con la collaborazione tecnica della Stroytransgaz, società controllata dalla russa Gazprom, prosegue in territorio siriano fino alla centrale elettrica di Deir Ali, 40 chilometri a sud di Damasco; da qui la pipeline si estende fino alla stazione di pompaggio di Al Rayan, nei pressi di Homs, area di estrazione al confine con il Libano settentrionale, e alla città libanese di Tripoli, sulle rive del Mediterraneo orientale.

Hamas si dice del tutto estranea all'esplosione ed esclude che l’operazione sia partita dai Territori: ad affermarlo è stato Hassan Abu Hashish, capo dell'Ufficio stampa del Movimento di resistenza nella Striscia di Gaza. Lo stesso afferma Sallah Al Bardawil, dirigente politico di Hamas, che ha smentito categoricamente le informazioni pubblicate dalla stampa egiziana e, in particolare, dal quotidiano Al Akhbar , che nei giorni scorsi ha parlato del coinvolgimento di palestinesi nei disordini divampati in Egitto. Al Bardawil ha inoltre ribadito che Hamas non intende interferire negli affari interni di altri Paesi e che l’ipotesi avanzate dal Cairo sono accuse fabbricate ad arte per cercare di esportare la crisi egiziana a Gaza. 

I dirigenti del Movimento di liberazione palestinese puntano piuttosto il dito contro le difficili relazioni che intercorrono tra il governo Mubarak e le tribù nomadi che abitano la regione; beduini che si dicono maltrattati e discriminati e che da qualche anno hanno deciso di reagire anche con l’uso delle armi. Nel giugno scorso alcuni nomadi ricercati dalla forze di sicurezza egiziana avevano addirittura minacciato di sabotare il gasdotto e questo aveva portato le autorità a rafforzare le misure di sicurezza in tutta la regione, contrastando la minaccia con operazioni che si erano spinte fino all’impervia valle del Wadi Omar, roccaforte dei clan che controllano gran parte della penisola e che si suppone siano implicati nella traffico di essere umani.

E che nel Sinai si giochino anche altre partite lo dimostrano le interviste rilasciate al Telegraph e al The National di Abu Dhabi da Abu Khaled, beduino palestinese appartenente alla tribù Rashaida che, senza alcun pudore, ha illustrato ai giornalisti le sue malefatte e i suoi rapporti con Abu Ahmed, gestore della fase finale del traffico di armi e di profughi verso Rafah.

Il governatore del Sinai settentrionale, Abdel Wahab Mabrouk, è invece convinto che il sabotaggio di El Lahafan sia di matrice terroristica e che in questa occasione i clan legati alle grandi tribù nomati abbiano operato in appoggio a strutture paramilitari provenienti dall’estero. Per il Cairo l’attentato al gasdotto è in stretta relazione con la fuga dalle carceri di numerosi estremisti legati al terrorismo islamico e con gli scontri a fuoco registrati alla fine di gennaio la regione di Sheikh Zuwayid  tra le Forze speciali del ministero degli Interni egiziano (CFF) e i miliziani delle Brigate Ezzedin al Qassam, ala militare di Hamas guidata da Mohammed Deifnel. In quei giorni il sito israeliano d’intelligence Debka ha registrato una serie di combattimenti ad est di El Arish e un raid contro il locale carcere dal quale sarebbero riusciti a fuggire alcuni detenuti.

Anche il Comando del Multinational Force and Observers (MFO) che opera a El Gorah sembra convinto che quelle cui stiamo assistendo non siano semplici scaramucce e per questo ha dichiarato lo stato di massima allerta e disposto un piano per l’evacuazione immediata dei membri della missione presenti nel campo militare situato a soli 7 chilometri da Rafah. L’escalation dei combattimenti è poi confermata da molte testate internazionali, tra cui il New York Times, che addirittura ipotizza un’operazione volta ad estendere la rivolta egiziana a tutto il Sinai e, in relazione agli ultimi giorni di gennaio, parla di scontri alla periferia del settore egiziano di Rafah, di due ore di combattimenti che avrebbero visto di fronte l’esercito egiziano e alcuni membri del gruppo Takfir wal-Hijra e del lancio di razzi e granate.

Per ora non ci sono conferme riguardo al coinvolgimento di Hamas nell’attacco alle carceri egiziane; al momento è però certo che nonostante la regione nord-orientale del Sinai sia da settimane teatro di scontri a fuoco e il valico di Rafah sia stato chiuso a tempo indeterminato - decisione presa il 31 gennaio scorso dalle autorità egiziane in seguito all’abbandono del posto di polizia da parte delle guardie di confine - un numero non precisato di palestinesi evasi delle prigioni egiziane è comunque riuscito (o attende il momento opportuno per farlo) a rientrare nella Striscia di Gaza. Il primo a parlarne è stato il sito islamico Muslm.net dove Imad Al Sayyid, portavoce dei prigionieri palestinesi in Egitto, che il 29 gennaio ha annunciato la fuga in massa dalle carceri egiziane e l’imminente rientro a Gaza di molti detenuti.

Il comunicato è stato confermata dall’agenzia di stampa Ma’an che ha anche dato notizia del ritorno al campo di Al Bureij di Ayman Nofal, membro di spicco delle Brigate Al Qassam fuggito dalla prigione di Al Marj. Citati anche i nomi di Omar Sha’th, Muhammad Abdul Hadi, Kom’a At-Talha e Mu’tasem Al Quka, scappati dal carcere di Abu Zaabal, distretto di Al Qalyoubiya a nord del Cairo. Tra quelli già rientrati a Rafah ci sarebbero Muhammad Ramadan Ash-Shaer (coordinatore dei traffici che attraverso i tunnel scavati sotto Philadelphi Route alimentano l’arsenale di Gaza) e Hassan Washah, miliziano del gruppo salafita Jaysh Al Islam (Esercito dell’Islam), evaso insieme a Muhammad Al Sayyid, fratello di Imad, dal penitenziario di Abu Zaabal.

Secondo gli egiziani alcuni elementi di Hamas potrebbero anche aver fatto parte della cellula libanese che i 30 gennaio scorso ha assaltato il carcere egiziano di Wadi El Natrun: il commando, composto presumibilmente da 25 uomini, ha  permesso la fuga di migliaia di detenuti, tra cui 22 membri di Hezbollah; tra loro ci sarebbe Sami Shehab, figura di spicco del movimento sciita libanese, arrestato nell’ottobre 2008 al Cairo con l’accusa di terrorismo. Shehab, la cui fuga è stata confermata anche dal giornale arabo Asharq Al-Awsat, era stato inviato in Egitto dallo stesso leader sciita, Hassan Nasrallah, per vendicare l’assassinio di Imad Mughniyeh, comandante operativo di Hezbollah ucciso il 12 febbraio 2008 a Damasco dagli agenti del Mossad.

 

di Fabrizio Casari

L’Egitto esulta, il primo obiettivo è stato raggiunto: il rais è diventato un ex. Dopo 18 giorni di proteste, manifestazioni, scioperi, scontri, Hosni Mubarak si è dimesso. Poche ore fa l’annuncio: Mubarak ha ceduto i poteri a Omar Suleiman e all’esercito. L’ex capo dei Servizi Segreti ha annunciato a reti unificate la decisione dell’ex rais di rifugiarsi a Sharm el Sheikh. Non aspettavano altro quelle centinaia di migliaia di persone di ogni età e professione, di ogni religione ed ogni ideologia, che sono diventati tutt’uno con ogni pietra di ogni piazza, di ogni città, in tutto il paese. Caroselli di auto, abbracci e grida di allegria, balli, canti ed autentiche esplosioni di giubilo. La felicità della piazza è divenuta incontenibile. Il nuovo Egitto, nato da una rivolta popolare senza precedenti nella storia del Paese, almeno per qualche ora è padrone delle sue strade.

Una rivolta, quella iniziata il 25 Gennaio scorso, che non ha avuto padrini e padroni; che non ha visto il ruolo predominante di partiti (anche perché gli oppositori erano stati ridotti al lumicino dalla dittatura di Mubarak) ma che ha avuto, nell’assenza di direzione politica classicamente intesa, un punto di forza invece che di debolezza. Poche assemblee per aspiranti leader, poche discussioni sfibranti per nascituri partiti, poche distinzioni di pochi con tutti e di tutti con pochi. Più che un’organizzazione abile a formare una piazza, l’Egitto ha offerto una piazza capace di costruire organizzazione. Nessuno si è tirato indietro, nemmeno di fronte alle minacce di un esercito che si è mosso come un pendolo, alternando avvertimenti e solidarietà. Gli egiziani, non i partiti egiziani, sono stati la direzione vera della protesta.

Dopo 30 anni di potere assoluto sulla Nazione, di consolidamento del suo potere e delle sue ricchezze, per lui e la sua famelica famiglia, il Faraone dell’Occidente se n’è quindi andato. E se n’è andato proprio perché quell’Occidente, cui aveva sempre obbedito, gli si è rivoltato contro, così come quelle Forze Armate, di cui fu altissimo ufficiale, hanno deciso di lasciarlo solo al suo destino. Perché proprio avendo perso l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Unione Europea aveva perso anche quello dei militari, che hanno scelto, appunto, di seguire l’Occidente. Ventiquattro ore prima, beffando le attese, aveva giocato l’ultima carta, tentando di proporre a Suleiman l’ultima mediazione possibile: elezioni libere in cambio della sua uscita di scena graduale e garantita. Il secondo obiettivo l’ha probabilmente raggiunto, il primo no.

Non era più difendibile, Mubarak, perché non era più affidabile. Non era ipotizzabile, come forse voleva Netanyahu, un’azione di forza, una repressione violenta su larga scala che seppellisse la rivolta, magari sotto una montagna di cadaveri. Non è più possibile nell’epoca della globalizzazione delle immagini, perché non è possibile, per la guida politica dell’Occidente, mostrarsi al mondo con il suo volto peggiore. E comunque non era questa la scelta di Usa e Ue. Soprattutto - va detto - di Obama che ha dimostrato, nella circostanza, una caparbietà nel perseguimento dell’obiettivo degna di un leader politico di statura internazionale.

Nè più né meno, gli Stati Uniti hanno ritenuto di non dover continuare a sostenere l’insostenibile. La visione della leadership internazionale che la Casa Bianca di Obama intende veicolare con forza è quella di una direzione politica che, pur ad assetti variabili, coincide nel richiamo fermo alle regole della democrazia liberale. E’ con questo profilo ideologico che Obama ritiene di dover invertire la discesa progressiva degli Stati Uniti nella governance planetaria.

Le Forze armate egiziane assumeranno il comando e decideranno la formazione di un governo provvisorio; se questo sarà il primo passo verso la strada della democrazia o se invece sarà il primo atto di un golpe, lo vedremo presto. Quello che è certo, è che la caduta del rais non altererà in profondità gli equilibri politici e militari di tutto il Medio Oriente. La sua alleanza con Israele, infatti, ha rappresentato una garanzia di esercizio del controllo politico della regione. Mubarak, ben lontano dal panarabismo nasseriano, è stato un alleato prezioso del governo israeliano nel controllo militare e d’intelligence sulla striscia di Gaza.

Difficile immaginare, anche per il ruolo Usa nella crisi, che quest’assetto subirà variazioni significative. Troppo delicato per gli equilibri geopolitici il ruolo dell’Egitto, paese più popolato del mondo arabo. Ma va registrato come, diversamente da quanto avvenuto in Turchia e in Algeria (pur in contesti diversi tra loro ed entrambi diversi da quello egiziano), i militari hanno scelto - almeno per ora - di esercitare un ruolo di garanzia, rifiutandosi d’imporre con la forza il mantenimento del quadro politico.

I prossimi giorni chiariranno meglio verso quale futuro s’incammina il paese che ha abbandonato per sempre il silenzio e la rassegnazione. Quale soluzione politica, con quali personaggi e con quali garanzie in ordine all’apertura di una fase democratica nuova, sono alcuni degli interrogativi che ora si aprono.

Ma sono i temi che dovranno essere affrontati da domani: stasera il Paese è solo una festa immensa, non c’è posto per analisi e valutazioni, per timori e previsioni. Il rais dell’Egitto, almeno stasera, è il suo popolo.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è concluso in questi giorni un altro capitolo della storia decennale delle occupazioni illegali di Berlino. La polizia ha sgomberato Liebigstr 14, uno degli ultimi condomini occupati dell’ex-Berlino est, tra le violente proteste dei gruppi autonomi anarchici. Non resta che chiarire l’identità dei protagonisti di un fenomeno, quello delle case progetto abusive, che appare ormai quasi fuori luogo e fuori dal tempo: disadattati in cerca di violenza gratuita, o giovani che, per non rinunciare a un sogno, provano difendere con i denti un’utopia? 

Allo sgombero di Liebig 14 hanno preso parte 2’500 poliziotti, piazzati già dalle prime ore del mattino attorno al condominio e in tutto il quartiere; qualche giorno prima sono stati chiusi due asili e diversi negozi della zona per ragioni di sicurezza. Lo scontro diretto tra forze dell’ordine e gli inquilini è durato solo poche ore: nel primo pomeriggio di mercoledì, nel condominio di Liebig 14 era già tornato il silenzio. Non soddisfatti, gli autonomi hanno continuato a protestare violentemente nei quartieri circostanti fino a notte tarda. I giornali parlano di centinaia di migliaia di euro di danni, che qualcuno arriva a stimare in un milione. Senza dimenticare i 60 poliziotti feriti e le decine di arresti tra i manifestanti.

Occupata dal 1990, Liebig 14 era un’icona per i movimenti anarchici e antifascisti berlinesi, ma non solo. Numerose manifestazioni di solidarietà sono state organizzate anche a Copenhagen, Amburgo e Amsterdam, quasi a ribadire ancora una volta a gran voce una filosofia, quella delle occupazioni illegali, che appare in pericolo. Chi occupa vuole essere libero dagli obblighi e dalle convenzioni sociali per dimostrare che l’uomo sa portare avanti una convivenza pacifica e intellettualmente produttiva senza leggi. Lo scopo è costruire una vita di comunità al di fuori di regolamenti imposti dall’alto, al di là dallo schema di vita prefissato dalla società in cui viviamo. Ideologie che hanno vissuto il loro tempo, forse, e che, alla luce dei privilegi di cui godiamo nella nostra società, potrebbero apparire utopie senza senso. Eppure non è sempre stato così.

Le prime occupazioni abusive risalgono agli anni ’70: la finanza si stava preparando a trasformare Francoforte sul Meno (Sud della Germania) nella capitale dell’economia europea, ma a qualcuno il progetto non piaceva. Gli uffici scintillanti degli istituti bancari tedeschi avrebbero dovuto sostituire le vecchie abitazioni del centro storico.

Già era tutto scritto, eppure il movimento studentesco ha cominciato a occupare gli stabili proprio per provare a impedirlo. È stata una lotta vera e propria contro il nuovo sistema capitalista che considerava gli immobili alla stregua di oggetti di speculazione, senza tenere conto della necessità dei cittadini. Tra i giovani militanti di Francoforte, tra l’altro, c’erano alcuni futuri ministri del Bundestag, il Parlamento tedesco.

L’occupazione abusiva si diffonde poi in Germania per ragioni più concrete. Siamo all’inizio degli anni ’80 e nel Paese, come del resto in tutta l’Europa, abbondano i condomini vuoti in attesa di ristrutturazione: le agenzie cacciano gli inquilini per modernizzare gli stabili, ma li lasciano vuoti per anni aspettando i periodi più lucrosi per la vendita. Risultato? Tanta la gente senza casa, poche e costose le abitazioni rinnovate, centinaia e centinaia i condomini in rovina senza proprietari veri e propri. “Occupare per recuperare, piuttosto che possedere per lasciare andare in rovina”, hanno cominciato a gridare i giovani.

Il centro nevralgico delle occupazioni abusive in territorio tedesco è stata Berlino, forse proprio in ragione della sua storia travagliata. Nel 1981 la parte ovest della città contava ben 300 stabili occupati: gli effetti della seconda Guerra mondiale sono stati devastanti e l’attuale capitale tedesca ha impiegato molto tempo per risanarsi e riempire i vuoti, forse più di altre città.

Nei confronti delle numerose case occupate, la Berlino degli anni Ottanta ha adottato una politica di tolleranza che ha fatto storia, la cosiddetta “linea berlinese”: la polizia impediva con ogni mezzo le nuove occupazioni, ma tollerava le vecchie finché i proprietari non avessero richiesto espressamente lo sgombero. Nel frattempo si arrivava a patti tra gli inquilini “abusivi” e i proprietari. Da centinaia che erano, nel 1985 una malinconica Belino ovest contava 78 case “occupate”, i cui inquilini pagavano affitti simbolici ai proprietari.

Dopo la caduta del Muro sono state occupate un centinaio di case anche nei quartieri dell’ex-Berlino est,;una quantità non indifferente per cui la capitale riunificata ha rispolverato la “linea berlinese”. Liebig 14 era una degli ultimi immobili adattati dagli attivisti a progetto culturale ed è stata sgomberata dopo ventuno anni di occupazione proprio alla luce della richiesta dei nuovi proprietari.

Il centro di Berlino, così come già quello di altre metropoli prima di lei, sta diventando un territorio monotono, standardizzato e accessibile esclusivamente ai benestanti: per il suo carattere di città giovane ancora in evoluzione, i risultati della speculazione edilizia sono più visibili a Berlino che altrove, forse proprio perché ancora “in atto”.

Uno fra tanti, fenomeno sociologico per eccellenza, la gentrificazione. E non occorre essere d’accordo con il carattere a volte violento delle occupazioni illegali per notarlo e affermarlo. Eppure, il tempo ha mostrato che per cambiare il volto di una società non serve la violenza e non bastano le occupazioni illegali. Credere in un’utopia non è sbagliato: serve anche ad imparare a scendere a compromessi con la società per trasformarla in traguardo. Difenderla con i mezzi sbagliati, purtroppo, non porta a niente. Ma non basta, di per sé, a dichiararla sbagliata per principio.

 

di Vincenzo Maddaloni

Non c’è dubbio che piazza Tahrir, al centro della sommossa del Cairo, sia diventata l’osservatorio privilegiato dei comandanti dei reparti antisommossa delle polizie di tutto il mondo. Esso serve a maturare nuove idee per affinare le tecniche di repressione del dissenso che oggi è pilotato con Twitter, Facebook e con i Bloggers. Naturalmente anche nell’Egitto millenario da un gruppo di giovani borsisti sostenuti e finanziati da Washington. Infatti, come confermava qualche giorno fa Voice of America, (Egypt Rocked by Deadly Anti-Government Protests): «Attivisti del movimento Kifaya (Basta), una coalizione di oppositori del governo, e il Movimento giovanile del “Sei aprile” hanno organizzato le proteste su Facebook, Twitter e sul web».

E’ accertato che Washington da una parte sostiene la dittatura di Mubarak, comprese le sue atrocità, dall’altra parte finanzia i suoi oppositori. Movimenti come Kifaya militano dal 2004 e sono i protagonisti di primo piano delle contestazioni di piazza contro il regime di Mubarak. Kifaya è sostenuto da un fantomatico Centro internazionale che studia “i conflitti non-violenti” con sede negli Stati Uniti. Sempre a un sodalizio statunitense, il “Freedom House” è stato affidato il compito di preparare un gruppo di giovani borsisti egiziani all’uso di Facebook, Twitter e dei blog.

Pare che i risultati siano stati ottimi, almeno secondo “Freedom House” medesimo che spiega: «I borsisti di Freedom House hanno acquisito competenze nella mobilitazione civica, leadership e pianificazione strategica e beneficiano delle opportunità del networking, attraverso l’interazione con diversi sostenitori privati, le organizzazioni internazionali e i media con uffici a Washington. Dopo il ritorno in Egitto, essi hanno ricevuto altre sovvenzioni con l’impegno di destinarle a nuove iniziative di propaganda politica impiegando Facebook e gli Sms».

Naturalmente gli effetti della presenza dei giovani borsisti istruiti da Freedom House si sono visti nelle piazze d’Egitto, prima tra tutte in piazza Tahrir, che è diventata il simbolo della rivolta, ma pure una sorta di tragico laboratorio della violenza e della repressione sul quale si appuntano gli occhi degli addetti ai lavori. Anche perché c’è una curiosità diffusa per le invenzioni strategiche repressive dell’“uomo nuovo” del regime di Hosni Moubarak. Il vice-presidente Omar Suleiman (detto Sliman), tenente-generale delle Forze Armate e dal 1993 responsabile del tristemente noto, Gihaz al-Mukhabarat al-Amma, il temutissimo ed onnipresente servizio segreto militare egiziano che controlla nella pratica pure il GID, (The General Intelligence Directorate) la Direzione Generale dell’Intelligence.

Siccome - è storia nota - Omar Suleiman è tenuto in gran considerazione da Israele, Washington e Londra, fonti bene informate rivelano che costui abbia chiesto agli israeliani di fornirgli mezzi e cecchini per individuare e uccidere tutti coloro che in piazza aizzano la folla. Vero o falso che sia i cecchini comunque ci sono e i morti pure. Più di trecento in due settimane di scontri, quasi come in una battaglia del Novecento. Ma non sono i troppi morti che angustiano gli osservatori, piuttosto le nuove metodologie con le quali i dimostranti si muovono. C’è il timore, che è quasi una certezza, di una globalizzazione degli aggiornamenti su come si possono scansare le manganellate o preparare le folle a rispondere con altrettanta efficacia alle cariche della polizia.

Infatti, sir Hugh Orde Stephen da più di qualche giorno è entrato in fibrillazione temendo un possibile contagio “maghrebino” delle piazze inglesi. Egli ha partecipato al quotidiano inglese The Guardian tutta la sua preoccupazione guadagnandosi un titolo a tutta pagina. Il suo è un affanno che conta, essendo sir Hugh Orde Stephen, dal settembre del 2009, il presidente dell'Associazione dei capi di polizia dell’Inghilterra, del Galles e dell’Irlanda del Nord. E’, insomma, una sorta di super prefetto, il capo dei capi, uno che conta per il grado che ricopre e per l’intenso curriculum.

Infatti, dalle pagine del Guardian egli non formula dei suggerimenti, lancia degli avvertimenti che hanno il sapore antico dell’ ukaze. L’obiettivo da raggiungere è una lotta spietata contro gli "hacktivists" che eccitano i dissidenti. “Police could use more extreme tactics on protesters, Sir Hugh Orde warns “, titola il Guardian. Naturalmente sir Orde argomenta delle sue piazze, dei suoi dimostranti inglesi, ma la minaccia che lancia, pesante come un macigno, ha una dimensione universale.

In buona sostanza egli spiega che se i dimostranti affinano le loro tecniche di sovversione, la polizia dovrà per forze di cose reagire ancora più pesantemente. Precisa che l'utilizzo di messaggi su Twitter e Facebook per organizzare campagne di protesta in tempo di record, impone «una nuova revisione totale delle regole per mantenere l'ordine pubblico». Sicché, conclude, l’impiego del kettling diventa ineludibile, benché possa interferire sui «diritti dei cittadini».

In Inghilterra si era ricorsi al kettling, parola che deriva da kettle (letteralmente bollitore per il tè) per sedare, nel dicembre scorso, le dimostrazioni a Trafalgar Square degli studenti universitari. Sperimentata già nella Germania Ovest degli anni Ottanta, e poi rispolverata da qualche anno dalla polizia del Nord Europa - inclusa quella italiana, a Napoli nel 2001 - l’intervento kettle è un modo perverso di reprimere senza lasciare segni sulla pelle dei dimostranti.

In pratica, un intero angolo di piazza o un tratto di strada dove si trovano i manifestanti, viene trasformato in una sorta di recinto blindato da una fitta schiera di uomini delle forze dell’ordine armati di scudi. Essi avanzano e stringono la folla in uno spazio che nella migliore delle soluzioni non è più grande di un campo di calcio. Siccome la tattica non si basa sulla sorpresa, bensì sulla limitazione dello spazio, l’obiettivo è impedire il formarsi di spazi vuoti tra le persone, o vie di fuga. Infatti, coloro i quali tentano di forzare subito il blocco sono colpiti dai manganelli e respinti dentro con gli scudi.
 
Il 24 novembre scorso, a Londra, seimila tra studenti e persone della società civile che protestavano contro i tagli all’istruzione e all’innalzamento delle tasse universitarie, si ritrovarono nel “bollitore” della polizia, sigillati per ore, senza più la possibilità di sedersi, riposarsi, riscaldarsi. In piedi e pressati. Non soltanto studenti, ma anche donne e bambini. Il Guardian riporta i dialoghi degli assediati estrapolati da un filmato che è diventato una pagina di cronaca agghiacciante di quella giornata (http://www.guardian.co.uk/uk/2010/dec/22/kettling-video-appalling-police-watchdog?INTCMP=SRCH).

Due mesi più tardi, il 27 gennaio, ecco che appare, sempre sul Guardian, il super poliziotto sir Orde. Egli replica sostenendo che l'uso dei cavalli per caricare i manifestanti non è stato «eccessivo», bensì «proporzionato», «molto utile», e la tattica impiegata «efficace». Questo è potuto accadere, denuncia Orde, sebbene l’ordine pubblico in tutto il Regno Unito sia stato messo a rischio dal rifiuto del governo, «di ristrutturare e modernizzare le forze di polizia, costringendoci a confrontarci con la realtà del ventunesimo secolo con una polizia strutturata per il ventesimo. Una disinteresse che s’è rivelato micidiale», ha concluso Orde.

Non è poi difficile immaginare che sir Hugh Orde sia tra i più attenti osservatori di quanto sta accadendo sulle piazze dell’Egitto che pur sempre rimane per ogni inglese l’ex colonia che consolidò il sogno imperiale della regina Vittoria. E quindi la storia del Paese è seguita con particolare interesse, anche quando le sue forze di polizia anziché adottare la tattica disorganica e imprevedibile della dispersione della folla, ricorrono al kettle, anzi all’iper-kettling, una forma ancora più estrema di contenimento.

Si tenga a mente che sola minaccia di metterla in pratica a Londra ha scatenato in tutto il Regno Unito uno tsunami di polemiche. Nel Maghreb e dintorni, dove si sta giocando la partita geo-strategica globale, gli Stati Uniti stanno cercando di ridisegnare una nuova mappa politica e i diritti civili più elementari o sono del tutto negati o sono calpestati dai regimi corrotti l’iper-kettling è applicato e basta, senza talk show al riguardo.

Dopo tutto la nuova violenza negli scontri che contagia ormai tutte le piazze, rafforza nei paesi ricchi la convinzione sulla necessità di continuare ad investire in difesa e sicurezza pur con la crisi economica che incombe. Anzi, è emerso che alla voce spesa gli aumenti sono sostanziali, grazie soprattutto agli Stati Uniti, il cui cambio d’amministrazione non ha comunque modificato la tendenza. Lo ha scritto il SIPRI che sta per "Stockholm International Peace Research Institute" (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), dal 1966 un’autorità in materia.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Le notizie da Tokyo destano preoccupazione nella dirigenza del Cremlino. Annunciano venti di guerra fredda con gli attivisti del movimento giapponese di ultradestra che si mobilitano per chiedere a Mosca la “riconsegna” di quattro isole del Pacifico settentrionale nell’arcipelago delle Curili: Iturun, Sikotan, Hamobaj e Kunasir. Il contenzioso con la Russia data da tempo.

Precisamente dal 1945, quando le truppe sovietiche occuparono l’intero arcipelago tra l'estremità nordorientale della giapponese Hokkaido e la penisola russa della Kamciatka. Si tratta di 60 isole che separano il mare di Ochotsk dal Pacifico settentrionale e sono considerate un avamposto strategico nella regione di Sakhalin.

Ci sono però altri precedenti. Perché la disputa sulle Kurili nasce dalle diverse interpretazioni dei trattati che ne hanno segnato la storia: un Trattato di amicizia del 1875, in cui Mosca riconosce la sovranità del Giappone sull'arcipelago in cambio dell'isola di Sakhalin; poi l'invasione al termine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, con  il Trattato di San Francisco che invita il Giappone a rinunciare alle rivendicazioni sulle isole senza però riconoscere la sovranità dell'Urss; quindi le relazioni diplomatiche tra Russia e Giappone si sviluppano nel 1956 con la famosa promessa di Kruscev relativa ad eventuali restituzioni…

Tornando all’attualità va rilevato che si parla di un territorio “multietnico” con la maggioranza schiacciante dei suoi abitanti giunta sin qui, ai confini del mondo, dalle regioni più disparate dell'ex Urss. Secondo l'ultimo censimento (1990), la popolazione è di 710mila persone, distribuite su una superfìcie di 87mila e cento kmq. (all’incirca equivalente a quella dell’Austria). Ovviamente la maggioranza di loro vive a Sakhalin, la cui superficie è di 76mila quattrocento kmq. mentre nelle isole Kurili gli abitanti sono assai pochi: 14 mila a Kunasir, 11 mila a Etorofu (Iturun) e 5 mila e cinquecento a Sikotan.

Tra le 36 etnie che compaiono nel censimento della regione troviamo anche gli estoni (142), gli uzbechi (763), gli armeni (804), gli jakuti (66) e popoli che qui sembrano assolutamente esotici, come gli avari (98), i balkari (43) e gli aguli (14) del Caucaso. E c’è da chiedersi: come saranno finiti qui?  Forse alcune risposte vanno trovate in quell’immenso crogiuolo di razze tipico della vecchia Russia alimentato, poi, dalle deportazioni del periodo di Stalin…

I russi, ovviamente, sono la maggioranza - 580 mila, ovvero l’81,6 per cento - seguono gli ucraini 46mila (6,5), i coreani 35 mila (5), i bielorussi 11milaquattrocento (1,6) e i tartari 10milasettecento (1,5). Le popolazioni autoctone, vale a dire soprattutto i nivchi - duemila persone - e gli oroki (ulta) - secondo dati precisi 340 persone - costituiscono oggi meno dello 0,4 per cento della popolazione. Nel 1926, quando iniziò la sovietizzazione, erano il 15,7 per cento dei residenti complessivi (137).

Nasce in questo contesto la forte e continua richiesta giapponese di annullare l’occupazione e rendere a Tokyo quel che è di Tokyo. E in tutta la vicenda di questo contenzioso geopolitico ci si mise anche l’imprevedibile Krusciov, che nel 1956 promise ai giapponesi che l’Unione Sovietica avrebbe restituito alla loro sovranità due isole. Promessa mai mantenuta, e in ogni caso non sufficiente per il governo di quel paese che ha sempre sostenuto che le isole da restituire sono quattro: Kunasirt, Iturun, Sikotan, Habomaj.

Ora Mosca - rispondendo direttamente alla campagna che i giapponesi hanno lanciato per la riconquista di territori, che considerano parte integrante della loro nazione - lancia una nuova campagna per lo sviluppo economico e sociale di tutto l’arcipelago, creando una zona franca, un polo di sviluppo che dovrebbe portare a trovare un delicato equilibrio fra l’indispensabile valorizzazione delle risorse naturali e la diversificazione dell’economia.

Ed ecco che in una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, il presidente Medvedev annuncia che le visite dei funzionari del Cremlino alle isole Kurili dovrebbero aprire questa remota regione della Russia al flusso di investimenti. E ricordando la sua recente missione nell’arcipelago, Medvedev torna a sottolineare i vari aspetti dello sviluppo della regione. Un’area contesa che ancora ostacola la firma di un trattato di pace formale tra i due paesi. Le Kurili controllate dai russi sono infatti, per i giapponesi, "territori settentrionali", occupati dall'Unione Sovietica alla fine della Seconda guerra mondiale.

Medvedev, nel suo viaggio nelle isole contese, ha trascorso tre ore a Kunasir. Ha visitato un asilo, una centrale geotermica, ha promesso investimenti agli abitanti e un'attenzione non inferiore a quella verso le altre regioni più centrali della Russia. Non è stata una visita improvvisa, il presidente russo l'aveva già messa in programma a settembre e già Tokyo aveva avvertito che non l’avrebbe gradita. Così la reazione del governo giapponese è stata immediata, e dura.

Una missione “estremamente deplorevole”, l'ha definita il primo ministro Naoto Kan, mentre in Parlamento il ministro degli Esteri, Seiji Maehara, ha parlato di “totale incompatibilità” con la posizione del Giappone al riguardo: un gesto “che ferisce il nostro sentimento nazionale”. Il ministro degli Esteri ha poi convocato l'ambasciatore russo a Tokyo, Mikhail Belyj, per presentargli formalmente le proteste del suo governo. L'ambasciatore non si è scomposto: la visita di Medvedev a Kunasir è una questione interna, ha commentato.

Mosca controbatte e una fonte del ministero degli Esteri fa ora sapere che “non comprende la reazione dei giapponesi”, dal momento che la posizione russa sulla questione “non è cambiata”. La sovranità della Russia sulle isole Kurili è, quindi, fuori discussione. Con queste parole Serghej Prikhodko, assistente della presidenza, ha commentato gli ultimi avvenimenti. Il Capo dello Stato nei suoi spostamenti per il Paese - ha detto - non ha bisogno di nessuna approvazione e tanto meno dall’estero.

E’ chiaro che sul piano geo-economico si avranno ulteriori ripercussioni a Yokohama, al forum dei paesi Asia-Pacifico. Tanto più che per il governo giapponese la gestione della crisi è estremamente delicata, in quanto segue il confronto con la Cina sulle isole Senkaku, nelle acque del Mar Cinese Orientale.

Una disputa, questa, riesplosa dopo la collisione tra un peschereccio cinese e due unità della Guardia costiera giapponese. Una vicenda in cui il primo ministro Naoto Kan è stato accusato di debolezza nei confronti di Pechino. La crisi non è superata, tanto che nel week-end del vertice Asean ad Hanoi, il primo ministro cinese Wen Jiabao si è rifiutato di incontrare formalmente Kan.

Ora il premier giapponese deve gestire la sfida lanciata da Mosca.  Intanto a Sakhalin e nelle Kurili si ritrovano problemi analoghi a quelli che oggi affliggono tutta fa Russia. Ma qui nell’arcipelago va rilevato che l’economia è malata e la produzione industriale, sia per ciò che riguarda l'estrazione del petrolio e del gas che per la pesca, si avvia sempre più alla recessione. Gli esempi sono tanti.

Nell’isola di Sikotan, ad esempio, ci sono periodi in cui, causa insufficienza del carburante destinato alla centrale elettrica del posto, nelle case l'elettricità viene erogata solo dalle 6 alle 19. Ritrovandosi nelle case fredde e buie gli abitanti ricordano bene che alcuni uomini d’affari dell'isola giapponese di Hokkaido proposero di assumersi l’onere delle forniture di prodotti petroliferi ai vicini russi. Mosca rifiutò l’offerta perché presero il sopravvento motivi di orgoglio nazionalistico. Al contrario, nell’isola di Kunasir, sono arrivati aiuti umanitari inviati dai vicini giapponesi.

Il Cremlino si dichiara pronto - come ha detto Medvedev - a risolvere il problema socio-ecomico dell’arcipelago che deve essere considerato un “vero tesoro per il futuro”. E così si allontana quel tempo in cui lo scrittore Cechov, a proposito dell’area di Sakhalin, diceva che “se qui vivessero solo coloro ai quali l’isola piace, questa sarebbe disabitata”.

Oggi è necessario sicuramente correggere questo pensiero dello scrittore russo: se a Sakhalin vivessero solo coloro cui piace, l’isola sarebbe popolata quasi esclusivamente dalle popolazioni autoctone. Il fatto è che gli avvenimenti della storia russo-sovietica hanno ignorato la volontà dei locali che sono stati messi in minoranza: hanno perso le loro terre, i loro secolari diritti, le tradizioni, il senso della vita. Finiti nella morsa della storia, tra i belligeranti giapponesi e russi, gli ajni, antichissimi abitanti di queste terre, sono scomparsi.

I cacciatori nivchi e gli allevatori di cervi ulta, cacciati dai loro paeselli e dai loro accampamenti, vivono in città e borgate sporche, indecenti. Le loro terre sono state deturpate dagli incendi e inzeppate di metalli arrugginiti - regato dei geologi. L'acqua dei fiumi e delle coste è stata inquinata dal petrolio.

La tragedia degli ex padroni di Sakhalin è riassunta in alcuni nuovissimi dati statistici: nelle circoscrizioni abitate dalle popolazioni sono nate 531 persone e ne sono morte 629, in questo stesso periodo sono stati celebrati 346 matrimoni e conclusi 339 divorzi…

Ma nonostante questa realtà sociale, il Cremlino di oggi parla di “Isole del tesoro”. Bisognerà vedere chi utilizzerà i tesori locali che si chiamano petrolio, gas e pesca…

 


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