di Michele Paris

La previsione fatta lo scorso gennaio dal presidente siriano Bashar al-Assad, che il suo paese non sarebbe stato toccato dal vento della rivolta nel mondo arabo, è stata smentita in questi ultimi giorni dall’ondata di proteste che sta interessando anche questo paese mediorientale. Come quasi tutti gli altri regimi arabi, la risposta del regime di Damasco ha unito alcune concessioni di facciata alla repressione dalle forze di sicurezza. Una reazione durissima quella del governo siriano che in pochi giorni ha già lasciato sul campo decine di morti tra i manifestanti.

A differenza di altri paesi mediorientali e nordafricani, la Siria sembrava in effetti non dover vedere episodi particolarmente gravi o minacciosi per il regime. Alcune manifestazioni avevano avuto luogo nelle principali città del paese durante i primi mesi dell’anno, ma l’esiguo numero delle persone che avevano avuto il coraggio di scendere in piazza aveva permesso alle autorità di polizia di avere rapidamente la meglio senza troppo clamore.

Nell’ultima settimana i disordini si sono però improvvisamente intensificati, concentrandosi in particolare a Dara’a, cittadina meridionale con poco meno di 80 mila abitanti nei pressi del confine con la Giordania. Solo lo scorso mercoledì la polizia siriana ha causato una dozzina di morti tra i rivoltosi che a Dara’a avevano dato fuoco alla sede locale del partito Ba’ath del presidente Assad, tra cui un medico che stava prestando soccorso ai feriti. Poco più tardi, le forze di sicurezza hanno sparato anche su una folla di persone nel corso di un corteo funebre.

Seguendo il modello dei loro vicini arabi, i movimenti di opposizione siriani hanno organizzato per venerdì il “Giorno della Dignità”. Anche nella capitale in centinaia hanno così sfidato le autorità, marciando per le strade ed esprimendo il loro sostegno ai dimostranti di Dara’a. A Damasco sono intervenuti i sostenitori del regime e le forze di sicurezza hanno operato numerosi arresti. Nella stessa località nel sud del paese, dove i giornalisti sono stati tenuti lontani, e in altre città siriane, la polizia ha sparato nuovamente sulla folla, facendo alcune vittime almeno a Latakia e a Homs. Complessivamente, le cifre relative ai morti varierebbero finora da una cinquantina, secondo le fonti della Reuters, a oltre cento, da quanto scritto invece da Al Jazeera.

Ai propri cittadini che anche in Siria chiedono democrazia, giustizia sociale, stop alla corruzione e libertà per i prigionieri politici, il Presidente Assad aveva risposto qualche giorno fa con una serie di concessioni. Alla promessa della fine dello stato di emergenza, imposto fin dal 1963, hanno fatto seguito l’aumento degli stipendi per i dipendenti pubblici, maggiore libertà per i media, il riconoscimento dei partiti politici e la liberazione di quanti erano stati arrestati durante le proteste dei giorni precedenti.

Qui come altrove si è riproposto il dilemma dei regimi autocratici arabi, se le aperture servano cioè a placare la rabbia dei rivoltosi o se non rappresentino piuttosto un invito a chiedere nuove e più importanti concessioni. Dal momento che anche in Siria le concessioni sono giunte dopo la violenta repressione del regime, il rifiuto al compromesso dei manifestanti è apparso scontato. Tanto più che le promesse fatte oggi da Assad sono molto simili a quelle del 2005 e che non ebbero praticamente alcun seguito.

Nonostante la pretesa diversità sostenuta da Assad tra Siria e Tunisia o Egitto, il suo paese condivide con gli altri del mondo arabo molti problemi, a cominciare dalla mancanza di libertà, disoccupazione diffusa, povertà e disparità sociali sempre crescenti, sia pure a fronte di dati ufficiali che indicano una crescita economica sostenuta negli ultimi anni. Nella regione nord-orientale, inoltre, vive una minoranza curda inquieta, che per il momento non ha tuttavia manifestato la volontà di unirsi alle proteste contro il governo centrale.

Secondo la valutazione di Assad, il suo governo non doveva correre rischi perché sostanzialmente in sintonia con il popolo. Una tesi quest’ultima basata soprattutto sulla politica estera di Damasco, tradizionalmente anti-americana e anti-israeliana e vicina invece a Iran, Hezbollah e Hamas. La collocazione internazionale della Siria e la bandiera del nazionalismo arabo hanno dato finora al regime una qualche legittimità, a differenza ad esempio del caso egiziano dove l’ex presidente Mubarak veniva giustamente dipinto come un burattino agli ordini di Washington.

Facendo appello a questo sentimento, il governo Assad subito dopo l’inizio delle manifestazioni dei giorni scorsi ha bollato infatti le proteste come un tentativo straniero di colpire la Siria in quanto “pilastro della resistenza contro il Sionismo e le trame degli Stati Uniti”. In realtà, quello siriano è di fatto un regime di polizia, governato per quarant’anni da un’oligarchia formata dalla famiglia Assad, (Bashar al-Assad è succeduto al padre Hafez dopo la sua morte nel 2000) dai militari, dai membri del partito Ba’ath e da una ristretta cerchia di uomini d’affari, tutti in gran parte facenti parte della minoranza religiosa degli Alauiti in un paese a maggioranza sunnita.

Pur non presentando sacche di povertà estrema come l’Egitto o lo Yemen, recentemente la Siria ha visto crescere le differenze sociali, così come il numero di abitanti spinti al di sotto della soglia di povertà. Questa evoluzione in un paese guidato da un regime che nominalmente fa riferimento a principi socialisti, è andato di pari passo con le aperture volute dal presidente Assad verso gli Stati Uniti e l’Europa. Una svolta che anche qui si è accompagnata all’arrivo di capitali esteri e alle privatizzazioni di compagnie pubbliche.

Sul fronte diplomatico, Damasco ha poi cercato un accordo con Israele per riottenere le alture del Golan, conquistate da Tel Aviv durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Allo stesso tempo, è iniziata una certa collaborazione con i servizi d’intelligence occidentali sul fronte della lotta al terrorismo. Da parte sua, Washington ha risposto con qualche tiepido segnale distensivo, soprattutto per cercare di sganciare la Siria dall’Iran, come la recente nomina di un ambasciatore americano dopo che George W. Bush lo aveva ritirato nel 2005 in seguito all’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri, per il quale venne inizialmente accusato proprio il regime siriano.

Ciononostante, la Siria rimane sulla lista americana degli stati che promuovono il terrorismo, mentre le sanzioni economiche nei suoi confronti sono state ribadite da poco dall’amministrazione Obama. Per questo motivo, la situazione di Assad appare quanto meno delicata. Come dimostra il caso della Libia, un’eventuale escalation delle proteste e della conseguente repressione potrebbe provocare la reazione occidentale fino all’adozione di possibili misure per rovesciare un regime poco gradito.

A conferma dei timori siriani, la risposta di Washington alla repressione di Damasco é stata molto dura, a differenza delle tiepide dichiarazioni di circostanza dopo le violenze anche più gravi commesse dalle forze di sicurezza dei regimi di Bahrain e Yemen, entrambi alleati irrinunciabili per gli americani in Medio Oriente.

La gravità della situazione in Siria è confermata dal fatto che proteste così prolungate sono state estremamente rare negli ultimi decenni. Il ricordo di molti va al massacro del 1982, quando l’allora presidente Hafez al-Assad represse nel sangue la rivolta dei Fratelli Musulmani ad Hama, causando decine di migliaia di morti e radendo al suolo la città.

Ad alimentare la rivolta sembrano essere state anche le voci, sia pure smentite dal regime, di un possibile appoggio militare alle forze fedeli a Gheddafi in Libia. La Siria, assieme all’Algeria, è stata infatti l’unico membro della Lega Araba ad aver votato contro la richiesta di adottare una no-fly zone sulla Libia poco prima della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU che ha aperto la strada all’aggressione militare attualmente in corso.

Come in altri paesi arabi, infine, le tensioni settarie sono presenti in una certa misura anche in Siria. Mentre circa i tre quarti della popolazione è sunnita, come già ricordato, la famiglia Assad e le élites politiche ed economiche appartengono alla minoranza Alauita. Anche qui però non si vede alcuna connotazione settaria in un movimento di protesta il cui impatto sul futuro prossimo di un paese così importante per gli equilibri mediorientali sarà ancora tutto da valutare.

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