di Luca Mazzucato 

NEW YORK. L'effetto Wikileaks arriva in Medioriente e questa volta è Al Jazeera a lanciare il sasso. L'emittente del Qatar pubblica 1700 documenti segreti sul conflitto israelo-palestinese e l'infinita girandola di negoziati di pace cominciati e poi abbandonati negli ultimi anni dal trio Stati Uniti-ANP-Israele. Portando scompiglio, come c'era da aspettarsi, soprattutto nel campo palestinese, proprio ora che molti Paesi finalmente riconoscono ufficialmente lo Stato Palestinese...

Il Presidente Abbas e il suo team negoziatore, guidato da Saeb Erekat, non ne esce di sicuro a testa alta. Si parla dello stato di Gerusalemme Est, di scambi di terre tra West Bank, Gaza e Israele, di’insediamenti, di quanti profughi del '48 potranno tornare in Israele, insomma di tutti i nodi più scottanti. Abbiamo deciso di raccontare due degli infiniti episodi. Il lettore avido può andare a spulciare l'intero malloppo (tutto in inglese) sul sito web di Al Jazeera.

La rivelazione forse più drammatica riguarda un incontro del Giugno 2008 tra il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, il Ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni e Ahmed Qurei e Saeb Erekat, il primo ministro e il capo negoziatore dell'ANP. In questo incontro, i palestinesi fanno la loro offerta iniziale per aprire le trattative: una storica apertura per la Rice, in pratica una totale capitolazione.  L'ANP offre a Israele l'annessione di tutti gli insediamenti di Gerusalemme Est (tranne Har Homa) e metà della Città Vecchia, senza chiedere nulla in cambio. Una concessione cui Yasser Arafat non si era piegato nemmeno alla fine dei negoziati falliti di Camp David. Come offerta iniziale, nemmeno un turista americano al Bazar del Cairo saprebbe fare di peggio.

La reazione israeliana a quest’apertura senza precedenti è quella di chiedere invece l'annessione di tutte le altre colonie illegali in West Bank. Tanto, ammette il negoziatore israeliano, di lasciare anche un solo quartiere di Gerusalemme Est ai palestinesi nessuno ci pensava nemmeno. Dal canto loro, gli israeliani non hanno alcuna intenzione di abbandonare le colonie, dove vive quasi mezzo milione di persone. Ma lasciare in mani israeliane Ariel e le altre popolose colonie nel cuore della West Bank è un compromesso inaccettabile da parte palestinese: così facendo, l'ANP verrebbe di fatto sbriciolata in un collage di enclavi palestinesi a macchia di leopardo, circondate dal Muro elettrificato. Conclude la Rice alla fine dell'incontro, rivolta ad Ahmed Qurei: “Allora non avrete nessuno Stato!” Infatti, due anni e mezzo son passati e niente si è mosso, mentre le colonie ebraiche continuano a crescere.

Questa rivelazione mette in luce un altro particolare interessante. Ricorderete un anno fa la polemica tra gli Stati Uniti e Israele, quando Netanyahu annunciò la costruzione di 1600 nuove abitazioni in una colonia ebraica a Gerusalemme Est. All'epoca, il vicepresidente americano Joe Biden s'inalberò, condannando fermamente la scelta israeliana perché “metteva in pericolo i negoziati di pace.”

Si scopre ora che la decisione israeliana era stata già concordata con l'ANP, che aveva unilateralmente rinunciato alla sovranità su quella colonia, alla presenza del Segretario di Stato americano, all'epoca Rice. Curioso incidente, che spiega come mai Netanyahu si sia mostrato molto sorpreso della reazione americana. Come ama ripetere in ogni occasione, “costruire a Gerusalemme non è diverso da costruire a Tel Aviv.” Ora sappiamo che anche l'ANP la pensa così.

Un'altra gustosa rivelazione riguarda la famosa “mappa del fazzoletto.” Correva sempre l'anno 2008, in piena luna di miele tra l'allora premier israeliano Olmert e il Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che s’incontravano con una certa assiduità. Olmert non perdeva occasione per ricordare che l'unico futuro per Israele è nella pace e che il suo governo era persino disposto a scambiare parte del proprio territorio in cambio dell'annessione degli insediamenti ebraici in West Bank.

Dopo l'incontro iniziale, in cui i palestinesi regalavano Gerusalemme Est agli israeliani senza chiedere nulla in cambio, ad un altro incontro Olmert presenta ad Abbas la mappa preparata dai negoziatori israeliani, per i confini definitivi tra Israele e il futuro Stato palestinese. La risposta israeliana all'offerta palestinese. Ovvero l'annessione a Israele di tutti gli insediamenti ebraici in West Bank (circa il 10% dei Territori Occupati), in cambio di un 10% di deserto attorno alla Striscia di Gaza e qualche villaggio arabo-israeliano, di cui peraltro Israele cerca di sbarazzarsi da sessant'anni.

Ma, come un navigato prestigiatore, Olmert non vuole lasciare nessuna copia della mappa ai negoziatori palestinesi. Il povero Abbas si presta all'ennesima umiliazione: né fotocopie, né foto con il cellulare, Olmert è inamovibile. Il Presidente è costretto a prendere una penna e raccogliere un fazzoletto dalla tavola imbandita e vergare uno schizzo della mappa, unica versione che i negoziatori palestinesi avranno a disposizione per studiare la loro controproposta.

di mazzetta 

Sarà un Venerdì particolare per l'Egitto. Secondo i piani concordati in rete dai rivoltosi, al termine della preghiera i fedeli dovrebbero uscire dalle moschee in corteo e dare vita a manifestazioni itineranti. Alcune moschee fungeranno da catalizzatore per i non praticanti e le folle di giovani che sono stati il nerbo delle proteste dei giorni scorsi. I Fratelli Musulmani hanno annunciato l'adesione alla protesta, l'ex capo dell'Agenzia Atomica Internazionale, El Baradei, è ritornato in patria da Vienna, dove si era ritirato quando ha capito che la sua candidatura alle scorse presidenziali si sarebbe risolta nella solita truffa. E infatti Mubarak ha trionfato per l'ennesima volta con percentuali bulgare tra i pochi votanti spinti a forza dal regime verso i seggi.

Prevedibilmente ci saranno in piazza molte più persone che nei giorni scorsi. La repressione governativa, per quanto spietata, è sembrata debole agli egiziani, che nel migliaio di arresti e nella decina di vittime hanno letto per la prima volta un'offesa da vendicare e non il segnale che bisogna chinare la testa.

Il regime è atteso a una specie di prova del nove, la protesta mira alla cacciata del dittatore e lo scontro dovrà avere un vincitore, soluzioni di compromesso non sembrano nell'aria. L'unità politica delle opposizioni non potrà certo allearsi con il regime, non ha il controllo della piazza e nemmeno può dirsi rappresentativa delle folle che scendono in strada. Lo stesso El Baradei, che è una personalità formalmente adatta ad incarnare un Egitto nuovo, gode di un supporto frammentato e può aspirare alla leadership solo se investito di un ruolo di garanzia e godendo di consensi che per il momento non sembra avere.

Il regime, apparentemente compatto, è bene organizzato per reprimere, ma bisogna capire che risorse abbia per agire in una situazione che non controlla alla perfezione e nella quale deve subire l'iniziativa e giocare un gioco deciso da altri. La sua tenuta è tutta da verificare, anche alla luce del velocissimo dissolvimento del regime tunisino e all'evaporazione del relativo partito unico di governo.

La rivoluzione tunisina avrà un'influenza fortissima proprio sul regime, perché offre un modello nel quale la transizione dalla dittatura a qualcosa di diverso evolve con il sacrificio minimo e per niente truculento di esponenti del vecchio regime. Non c'è dubbio che, seguendo l'esempio tunisino, la quasi totalità della burocrazia, dell'esercito e delle classi dirigenti egiziane passerebbe senza colpo ferire la prova della dissoluzione della dittatura di Mubarak e del suo partito. Questo ferisce la tenuta del potere almeno quanto la pressione della piazza, perché riduce drasticamente il numero delle persone che si vedono costrette a difendere la dittatura perché in pericolo di vita o a rischio di tragedie.

La palla è nel campo di Mubarak, nelle segrete stanze del potere egiziano: se la risposta sarà brutale si allontanerà la possibilità di una soluzione alla tunisina e la protesta potrà solo essere stroncata o radicalizzarsi, come ha già dimostrato di poter fare in reazione alla brutalità del regime, ad esempio devastando per la prima volta una sede del partito al potere come reazione agli omicidi di manifestanti a Suez.

Se l'Egitto cede alla rivoluzione, il problema per l'Occidente non è quello dei Fratelli Musulmani, che sono solo lo spauracchio con il quale Mubarak e la sua propaganda hanno giustificato le peggiori repressioni. La piccola Tunisia è già un esempio; se il gigante egiziano dovesse virare decisamente verso una democrazia pretesa dalla base popolare contro l'élite e le pressioni internazionali delle grandi e piccole potenze, molte autocrazia arabe si troverebbero a fare i conti con un drastico calo di legittimità, mentre l'Occidente si troverebbe a rincorrere e a cucire nuovi rapporti con le nuove classi dirigenti, presto costretto a pietosi mea culpa (come quello recente di Sarkozy) e a fare i conti con decenni di complicità con i peggiori regimi repressivi.

 

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Con ancora negli occhi le immagini terribili dell'attentato di Mosca e dopo aver allontanato i responsabili della sicurezza dell'aereoporto di Domodiedovo, pur nel pieno delle polemiche politiche e delle indagini, il Presidente Medvedev sceglie di rilanciare la Russia sul piano internazionale e arriva a Davos, dove si apre il meeting annuale del World Economic Forum. Per il massimo dirigente del Cremlino (con alle spalle pesanti interventi amministrativi) l’occasione della riunione in Svizzera è destinata ad avere una risonanza epocale  dal momento che  la Russia intende mettere in campo una serie di fondamentali privatizzazioni per i prossimi cinque anni.

A Davos sarà presentato un mega-programma di sviluppo globale che, però, dovrà prima passare al vaglio delle maggiori economie interessate al progetto russo. Perchè - come spiega Arkady Dvorkovich, uno dei consiglieri del presidente - la Russia, prima di muoversi, dovrà approntare un preciso grafico d’interventi volti a mettere profonde radici nella società. E Medvedev, da politico pragmatico e attento agli equilibri del duopolio di potere con il premier Putin cerca, in tal senso, di non fare passi falsi.

Sa bene che il governo russo quanto a rapporti internazionali, nel quadro dell’organizzazione mondiale del Commercio (Wto, World Trade Organization), deve completare entro quest’anno il processo di integrazione commerciale che è considerato come un vero strumento di difesa della società russa. Comunque vadano le cose è chiaro che Medvedev si appresterà a debuttare nella scena dell’economia mondiale forte dei successi che Mosca va riportando nei mercati di tanti paesi.

Per il giovane Presidente del Cremlino l’obiettivo attuale consiste soprattutto nell’appianare le divergenze con l’Ue e definire i processi di normalizzazione ed integrazione dissipando le nebbie che oscurano l’orizzonte. E in questo contesto va rilevato che già molte questioni controverse - tra Mosca e Bruxelles - sono state inquadrate e in parte risolte nel corso di un recente incontro di Igor Ivanovic Shuvalov con il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, l'Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune dell'Unione Europea, Catherine Ashton, e il commissario europeo per il Commercio, Karel De Gucht.

Non è, quindi, un caso se tutta la trattativa è stata affidata dal Cremlino a Shuvalov. Personaggio noto negli ambienti dell’economia mondiale: si deve a lui la strategia destinata a portare la Russia nel WTO passando per l’Europa e portando così  a compimento, dopo 17 anni di trattative, il processo di integrazione commerciale. Medvedev, di conseguenza, attende il grande risultato relativo all’ammissione nell’Organizzazione prima che il cielo delle relazioni internazionali si copra di nuove e pesanti nuvole cariche di incognite. C’è, infatti, il rischio che si evidenzino problemi nel rapporto della Russia con gli Usa e la Nato e proprio nel momento delicato in cui si discute la ratifica dei trattati sul disarmo e la costruzione di un sistema di sicurezza anti-missile.

Il Presidente russo ha preparato la sua partecipazione al vertice convinto di ottenere un buon successo. Di fare “cassa”, in particolare, tenendo però conto che tra Russia ed Europa i dossier ancora aperti riguardano i dazi imposti sull'export russo e i diritti di sorvolo della Siberia. Con alte tariffe che le compagnie aeree europee devono pagare all’Aeroflot. Tariffe discriminatorie, rivolte solo agli europei. Ma questo - assicurano i russi - è un problema che scomparirà una volta che Mosca sarà entrata nella Wto. Il rapporto tra Ue e Russia, specie nel campo dell'aviazione, «è infatti uno spreco di opportunità», diceva nei giorni scorsi il commissario europeo ai Trasporti, Siim Kallas. Altri problemi “tecnici” da risolvere riguardano quelli relativi agli interessi delle imprese russe impegnate nella lavorazione del legno e di quelle europee, costrette ora ad acquistare a prezzi più alti.

Infine, nell’agenda dei lavori c’è il regime dei visti. Forse l'ostacolo più grande: rimuoverlo significherebbe aver realizzato di colpo tutto ciò che Medvedev sogna nella sua partnership con l'Europa: sicurezza, fiducia reciproca, trasparenza, affidabilità. Le questioni non sono da poco. Va ricordato, in proposito, che il presidente russo, all’ultimo vertice con la Ue svoltosi nella scorsa estate a Rostov, aveva dichiarato la disponibilità immediata all’abolizione dei visti. Ma in quella occasione si erano registrate, da parte degli interlocutori del presidente russo, perplessità diverse riguardo a sicurezza dei passaporti, gestione delle frontiere, emigrazione dagli altri paesi dell'ex Urss, droga e terrorismo.

Sul piano della diplomazia consolare ci sono stati, è vero, alcuni passi in avanti tesi a semplificare "misure congiunte" tecniche e amministrative e a preparare il terreno alla liberalizzazione. Ma è chiaro che Medvedev spera in qualcosa di più. Anche sul piano dell’immagine interna e internazionale. Ed è in questo contesto “mediatico” che il presidente si accinge, da Davos, a dar vita ad una conferenza via internet. Rispondendo alle domande in diretta.

Oltre a questa importante novità é anche previsto un incontro speciale dedicato alla modernizzazione dell’economia, nel corso del quale Medvedev e i responsabili delle compagnie che lavorano in Russia - insieme ad eventuali investitori - si dovrebbero impegnare in modo dettagliato ad illustrare il progetto d’innovazioni denominato “Skolkovo”, alle porte di Mosca (una “città” degli studi  dedicata al settore imprenditoriale e che vede già tra gli sponsor i colossi americani Cisco e Boeing, nonché la corporazione finlandese Nikia e il gruppo olandese Philips) e i piani russi di Pepsi Co, Alstom, Boeing, Deutsche Bank, Siemens.

Infine, stando alle informazioni che si hanno in questo momento qui nella capitale, Medvedev dovrebbe porre l’accento sul settore energetico, attraverso lo scambio di asset con le maggiori società mondiali, come recentemente è stato fatto fra RosNeft e BP. Un’intesa che al dibattito di Davos potrebbe essere al top.

La cooperazione fra RosNeft e BP è, infatti, importante non solo dal punto di vista della partnership o dell’attuazione di alcuni progetti. E’ un punto di partenza per conoscere l’esperienza di una compagnia leader delle innovazioni tecnologiche che mancano alla RosNeft. In tal modo - si dice a Mosca - la società russa potrà lottare per la leadership tecnologica e non solo essere fra i primi per il volume di produzione di idrocarburi.

 

di Michele Paris 

Il secondo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama martedì scorso ha, come al solito, dipinto un quadro immaginario delle condizioni attuali dell’economia e della società americana. Nel suo intervento di fronte al Congresso, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato un appello bipartisan al rinvigorito Partito Repubblicano, promettendo in gran parte di sposarne i progetti di riduzione indiscriminata del deficit, ed ha ancora una volta ribadito la sua totale fiducia nel libero mercato come motore della crescita economica e come unico strumento per resuscitare un sogno americano di prosperità e benessere in cui a credere è rimasto ormai un numero sempre più ristretto di privilegiati.

In tutto il discorso di Obama non è praticamente emerso alcun cenno significativo alla gravità della situazione economica di un paese con una disoccupazione ancora alle stelle e con un numero di persone al di sotto della soglia di povertà in continuo aumento. Con il consueto e vago ottimismo, Obama ha rievocato i tradizionali valori americani della solidarietà e della perseveranza nel raggiungimento degli obiettivi, rilanciando nel contempo la sfida della competitività in un mondo globalizzato, da vincere attraverso un modello industriale “diverso” e innovativo.

Le parole di Obama sono state accolte da un Congresso animato da un clima di riconciliazione tra i due partiti dopo le tensioni che avevano contraddistinto il discorso sullo stato dell’Unione di dodici mesi fa. Un’atmosfera dettata in parte dallo shock della recente strage di Tucson, nella quale la deputata democratica Gabrielle Giffords è stata ferita molto gravemente, ma soprattutto dall’accordo più o meno esplicito raggiunto tra Casa Bianca, democratici e repubblicani, sulla strada da seguire nei prossimi mesi. Un’intesa che appare il risultato delle elezioni di medio termine dello scorso novembre e che sarà fondamentalmente indirizzata all’obiettivo che senza alcuna esitazione lo stesso Obama ha indicato nel suo discorso, e cioè “trasformare l’America nel posto migliore del mondo per fare affari”.

Lo scrupolo del presidente nei confronti dell’aristocrazia economica e finanziaria statunitense è apparso chiaro fin dall’apertura del suo discorso. Senza citare le sofferenze che affliggono tuttora le classi più disagiate del paese, Obama ha parlato di una crisi ormai superata, come dimostrerebbe sia la risalita degli indici di borsa, sia la crescita dei profitti delle corporation. Che queste ultime rappresentino d’altra parte l’esclusivo referente politico di Obama e dell’intera classe politica americana è chiaro da tempo, nonostante l’illusione dei liberal e degli ambienti della sinistra da entrambe le parti dell’oceano.

Per questo motivo, i provvedimenti già avallati dal presidente negli ultimi mesi, come il prolungamento dei tagli alle tasse per i redditi più alti o l’inclusione nel proprio staff di nuovi membri provenienti dal mondo del business, saranno presto seguiti da ulteriori iniziative dello stesso stampo. A ciò ha fatto riferimento Obama parlando della necessità di svincolare l’economia da regolamentazioni superflue o di riformare il sistema fiscale, abbassando le tasse per le grandi aziende, a suo dire le uniche strade per creare nuovi posti di lavoro.

In poco più di un’ora, Obama ha così tessuto le lodi del capitalismo americano, senza accennare alle responsabilità di un mondo degli affari che ha portato l’economia mondiale sull’orlo del baratro non più di due anni fa, causando la rovina di milioni di persone. Allo stesso modo, nell’urgenza di implementare manovre per il contenimento di un deficit pubblico fuori controllo, Obama ha mancato di dire agli americani che l’esplosione della spesa é dovuta in gran parte ai colossali piani di salvataggio per le banche di Wall Street che oggi raccolgono profitti miliardari mentre il resto del paese dovrà pagarne il conto con tagli ai programmi pubblici più popolari. Non sorprende quindi che nell’unica concreta proposta uscita dallo stato dell’Unione, Obama abbia invocato il congelamento delle spese domestiche per i prossimi cinque anni.

L’altra ossessione repubblicana che Obama ha fatto sua e, sia pure con qualche distinguo, ha riproposto nel suo intervento è la necessità di una macchina pubblica meno invasiva. Un governo federale più leggero ma pur sempre necessario, secondo l’inquilino della Casa Bianca, soprattutto per garantire la “sicurezza nazionale”, ma anche per sostenere con massicci finanziamenti quelle aziende private che altrimenti non sarebbero disposte ad investire nell’innovazione tecnologica e nel risparmio energetico.

Una lunga parte del discorso è stata dedicata poi al sistema scolastico. Obama ha ricordato i progressi che ancora devono essere fatti per aumentare il livello della scolarità dei giovani americani. L’appello alle nuove generazioni a seguire una carriera nell’insegnamento contrastano però con la politica portata avanti dalla sua amministrazione in questi due anni, fatta di chiusure di scuole pubbliche e licenziamenti di migliaia di insegnanti. Alla promozione degli istituti privati va anche aggiunta l’impennata generalizzata delle tasse universitarie, spesso a livelli insostenibili, per far fronte ai tagli dei budget decisi a livello statale e federale.
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Il vanto, in definitiva, della “più grande e prosperosa economia del pianeta” dimostra il sostanziale disinteresse di Obama per i redditi più bassi, dal momento che da quella prosperità un numero sempre crescente di cittadini risulta esclusa, tanto che la condizione dei lavoratori e della classe media negli USA ha perso costantemente terreno rispetto a molti altri paesi in Occidente. In questo ambito, il presidente americano ha quanto meno riconosciuto le difficoltà nel trovare un lavoro stabile e ben pagato in un panorama di devastazione che accomuna ormai molti stati americani.

Per Obama tale situazione è dovuta tuttavia ad un mondo che è cambiato irreversibilmente, soprattutto in seguito all’innovazione tecnologica. La trasformazione avvenuta in questi decenni appare ai suoi occhi un processo del tutto naturale e non piuttosto il risultato di deliberate politiche ultraliberiste che egli stesso continua a sostenere e che hanno eroso progressivamente le faticose conquiste dei lavoratori, distruggendo un tessuto industriale che aveva contribuito all’avanzamento sociale di milioni di famiglie della working-class.

Oltre alla ribadita disponibilità al dialogo con i repubblicani per studiare eventuali modifiche ai provvedimenti presi dalla maggioranza democratica nei primi due anni del suo mandato, Obama non ha mancato infine di citare rapidamente le avventure belliche degli Stati Uniti. Anche in questo caso la sua retorica, a dire il vero meno ispirata rispetto ad altre uscite pubbliche, ha delineato uno scenario fantasioso circa i presunti progressi in Iraq e in Afghanistan, ovviamente tralasciando gli effetti collaterali sui civili e le vere ragioni della presenza americana in aree geo-strategiche fondamentali per gli interessi del paese.

Nell’annuale messaggio presidenziale al Congresso previsto dal secondo articolo della Costituzione americana, Barack Obama ha dunque prospettato chiaramente il percorso che la sua amministrazione intenderà seguire in questo anno che precede la campagna per la rielezione del 2012. Su un piano più generale, invece, il presidente democratico, come molti suoi predecessori, ha presentato l’Unione in uno stato di salute decisamente migliore di quanto non appaia veramente. Ciononostante, all’America più sofferente non può sfuggire la realtà di un paese in declino e sempre più incapace di garantire il benessere di ampi strati della sua popolazione nonostante l’enorme ricchezza prodotta.

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Partono le indagini mentre l’intera Russia è in lutto. L’ombra della strage di Domodiedovo (35 morti) domina nei palazzi del potere e il Cremlino comincia a fare i conti con la realtà. Come solito in questo Paese, i conti si fanno con le irregolarità, le violazioni, le manchevolezze. Ne parla direttamente il Presidente Dmitrij Medvedev il quale, annuncia che “la direzione dell'aeroporto Domodiedovo di Mosca dovrà rispondere dell'attentato”.

Non usa perifrasi Medvedev: "Quello che è accaduto dimostra chiaramente che ci sono state violazioni delle regole di sicurezza. C'è stato un vero fallimento dei servizi di vigilanza perchè si è arrivati a portare, o far passare, una grande quantità di esplosivo. Pertanto, quelli che hanno delle responsabilità, quelli che prendono delle decisioni, dovranno rispondere di tutto. I dirigenti dell’aereoporto saranno portati davanti alla giustizia per la violazione delle norme di sicurezza e di conseguenza ho incaricato il procuratore generale - dice ancora Medvedev - d’indagare in questa direzione ”.

Scatta, di conseguenza, la giusta repressione nei confronti dei servizi. Ma la vera attenzione, in questo momento, riguarda i primi risultati che le fonti ufficiali rendono noti. Secondo i dati preliminari, sarebbero stati due i terroristi kamikaze, una donna e un uomo, gli autori della strage effettuata con un ordigno che oltre a cinque kg. di tritolo conteneva pezzi di filo d’acciaio, di 5 millimetri di diametro e lunghi 2 centimetri: il che spiega il così alto numero di vittime. Il copione - dicono quelli della sicurezza - è “classico”. E questo vuol dire che, in particolare, si segue la pista di quel terrorismo che proviene (questa la tesi dell’intelligence locale) dal Caucaso del Nord e che ricorda le bombe nella metropolitana di Mosca della primavera scorsa.

Il perché della “pista caucasica”, comunque non è un fatto nuovo. Tutte le volte che a Mosca o in altre città accade qualcosa che si avvicina a fatti di terrorismo, la prima reazione consiste nell’aprire il dossier della lotta ai musulmani – independisti caucasici - provenienti dalla Cecenia, dal Daghestan e dall’Inguscezia. Di conseguenza scattano indagini a tappeto con il fermo di quelle persone che hanno la sola colpa di avere “un volto caucasico”. Ed è, quindi, una caccia all’uomo che alimenta anche il fanatismo dei nazionalisti russi.

Ma ci sono anche altre versioni ed altre piste nelle indagini di queste ore. Secondo il deputato Maksim Scevcenko, “l’attentato potrebbe essere un gesto estremo effettuato da organizzazioni neonaziste che vogliono sabotare il rapporto tra la Russia e i paesi dell’Asia post-sovietica”. “Non è un caso - aggiunge l’esponente della Duma - che l’attentato è stato messo in atto mentre si stava procedendo allo sbarco dell’aereo proveniente da Duscianbè in Tagikistan: un volo quasi interamente riservato a quei lavoratori asiatici che vengono a lavorare, clandestinamente, a Mosca. E cioè musulmani contro i quali la destra neonazista russa in questi ultimi tempi si sta scatenando”.

Intanto la caccia alle persone “non russe” continua ovunque. Nella città di Ulianov un gruppo di musulmani denuncia violazioni effettuate dalla polizia locale che, sull’onda dei fatti di Domodiedovo, attua perquisizioni e arresti, senza motivi plausibili. Mentre questo avviene, a Mosca una donna azera di 45 anni è stata aggredita ed uccisa da un gruppo di razzisti in un vagone della metropolitana. Ed è un fatto, anche questo, che va messo nel conto delle tante piste che si seguono a Mosca.

 


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