- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Pur non essendo l’unico motivo scatenante, l’impennata dei prezzi dei beni alimentari su scala globale sta contribuendo in maniera non indifferente all’esplosione delle proteste di piazza in corso nel mondo arabo. Come già accaduto nel 2008, i rialzi stanno causando gravi sofferenze per centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta, in particolare tra gli abitanti dei paesi più poveri.
L’indice dei prezzi della Banca Mondiale risulta superiore del 29 per cento rispetto ad un anno fa e ad appena tre punti percentuali dai livelli record del 2008. I dati della FAO indicano a loro volta un aumento del 3,4 per cento solo tra dicembre 2010 e gennaio 2011, con un indice che ha toccato il punto più alto dal 1990, di fatto già superiore anche al 2008. Tra gennaio e dicembre dello scorso anno, il prezzo del grano è salito del 75 per cento. Solo nell’ultimo quadrimestre, l’aumento è stato del 20 per cento, mentre notevoli rincari hanno fatto segnare, ad esempio, anche lo zucchero (20 per cento) e l’olio (22 per cento), penalizzando in particolare i paesi importatori.
Della crisi alimentare si stanno occupando tutti i più importanti organismi internazionali, non solo la FAO e la Banca Mondiale, ma anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e il G-20, recentemente andato in scena a Parigi. Se queste istituzioni tendono a giustificare i continui aumenti dei prezzi con le catastrofi ambientali che hanno sconvolto molti paesi produttori nel 2010 e con le nuove dinamiche legate alla domanda e all’offerta in un mondo in cambiamento, molti commentatori indipendenti hanno messo in risalto le pesanti responsabilità della speculazione internazionale.
Assieme ad Umberto Mazzei - direttore dell’Istituto di Relazioni Economiche Internazionali di Ginevra e già docente di Economia presso vari atenei di Colombia, Venezuela e Guatemala - abbiamo cercato di capire le reali cause che stanno dietro agli attuali movimenti dei prezzi del cibo e, più in generale, gli squilibri e le distorsioni che pesano sul mercato globale dei beni alimentari.
Il recente rapporto della FAO sui prezzi dei beni alimentari attribuisce sostanzialmente le impennate degli ultimi mesi alle avverse condizioni atmosferiche in molte aree del globo e alla conseguente contrazione dell’offerta, una conclusione condivisa anche da molti economisti, tra cui il premio Nobel americano Paul Krugman. Gli altri motivi dei rincari sarebbero l’aumento della domanda proveniente da pesi emergenti come la Cina e l’utilizzo dei raccolti per la produzione di biofuel. Lei condivide questo giudizio ?
Se nel 2010 i prezzi dei beni alimentari sono saliti ai livelli astronomici del 2008 non è per i motivi sostenuti dalla FAO. Tanto più che le statistiche su cui si basa l’agenzia dell’ONU arrivano solo fino al 2008, come chiunque può verificare. Attribuire la salita dei prezzi alle avverse condizione atmosferiche è a mio parere una speculazione puramente teorica. I paesi colpiti da catastrofi ambientali sono stati in realtà pochi e questi eventi si ripetono un po’ ovunque ogni anno.
Fondamentalmente, per il 2010 tali calamità hanno riguardato la Russia, poiché in Australia, ad esempio, la produzione non ha fatto segnare crolli significativi e soltanto la qualità dei raccolti ha sofferto per le piogge e le inondazioni. L’impatto di questi cattivi raccolti sull’offerta mondiale è stato inoltre largamente compensato dalle raccolte record in Cina, Argentina, Brasile ed altri paesi.
Ciò spiega perché il rapporto fra la produzione e l’offerta mondiale sia rimasto inalterato nel corso del 2010. I dati indicano anzi un indubbio aumento della produzione mondiale rispetto al 2008. In quell’anno la produzione mondiale di grano era stata di 1.697 milioni di tonnellate, mentre nel 2010 è salita a 1.793 milioni, secondo i dati dell’International Grains Council. Allo stesso modo, il consumo nel 2008 è stato di 1.684 milioni di tonnellate e nel 2010 è salito a 1.786 milioni.
Da questi numeri è possibile constatare come non ci sia stato alcun mutamento sostanziale tra offerta e domanda. Inoltre, nel 2008 le scorte di grano ammontavano a 282 milioni di tonnellate, per salire a 404 milioni lo scorso anno. La produzione di agrofuel, infine, non può essere considerata responsabile dell’aumento dei pezzi, perché durante il 2010 negli Stati Uniti, che sono i maggiori produttori, essa è rimasta stabile attorno ai 40 milioni di litri.
Di fronte a questo scenario, possiamo concludere che l’impennata dei prezzi è dovuta principalmente alla speculazione. Ciò purtroppo non rappresenta una novità. Oggi è infatti evidente come l’impennata e la successiva caduta dei prezzi dei beni alimentari nel 2008 fu dovuta proprio alle operazioni speculative. Non va dimenticata anche la svalutazione del dollaro che fa salire i prezzi dei beni scambiati in questa moneta, anche se essi rimangono stabili nelle altre valute. Nelle considerazioni di un organo delle Nazioni Unite come la FAO, d’altra parte, pesano le fortissime pressioni politiche che impediscono determinate conclusioni. Gli stessi vincoli agiscono anche sugli economisti legati all’establishment, sia pure autorevoli, come Krugman.
Anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha preso in considerazione l’aumento dei prezzi. Il suo direttore, Pascal Lamy, ha citato come possibile causa la regolamentazione delle esportazioni dei prodotti alimentari che alcuni paesi attuano, chiedendo perciò una maggiore liberalizzazione in questo senso. Qual è la sua opinione in proposito?
Questa brusca impennata dei prezzi, cosi come quella del 2008, non può essere attribuita a simili politiche che sono in vigore da tempo. Il diritto dei paesi ad assicurare le risorse alimentari alla propia popolazione, prima di esportarle, è in ogni caso totalmente legittimo, come sancito anche dalle norme del WTO. Queste politiche di controllo sulle esportazioni stabilizzano i prezzi interni su livelli reali e costituiscono un freno alla speculazione.
È senz’altro vero, al contrario, che tali politiche danneggiano gli speculatori, così come sono un ostacolo al controllo mondiale dei cartelli dell’agroalimentare. Il direttore del WTO, Pascal Lamy, cerca di erodere tali protezioni nazionali per favorire i cartelli, un obiettivo perseguito anche nelle negoziazioni agricole del WTO che mirano allo smantellamento delle politiche nazionali. È singolare come, potendo ottenere l’autosufficienza e la stabilità dei prezzi interni a così buon mercato (attraverso la regolamentazione delle esportazioni), si spendano invece enormi quantità di denaro pubblico, ad esempio, con le sovvenzioni della Politica Agricola Comune (PAC) per assicurare l’autonomia alimentare europea.
Più precisamente, quale peso hanno sulla crisi alimentare globale i sussidi alle esportazioni che molti paesi (Stati Uniti e UE) garantiscono ai propri produttori?
I sussidi alle esportazioni agricole dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di fatto hanno rovinato gli agricoltori che non possono competere con prezzi tenuti artificialmente bassi. Anche quelli più efficienti, nella migliore delle ipotesi, hanno visto ridurre drasticamente i loro profitti. Se sovvenzionare per garantire la propria sovranità alimentare è legittimo, decisamente meno lo è per favorire l’esportazione degli stessi prodotti agricoli sussidiati, in quanto essi determinano l’abbassamento dei prezzi internazionali a livelli rovinosi. Il crollo dei prezzi, a sua volta, rende necessarie le sovvenzioni, producendo un circolo vizioso. A peggiorare la situazione c’è poi il fatto che le sovvenzioni favoriscono principalmente il processo industriale e gli intermediari commerciali, piuttosto che i produttori.
A causa di questi sussidi molti paesi hanno visto lo spopolamento di intere zone rurali, con il conseguente spostamento di milioni di persone in aree urbane sempre più affollate. Per lo stesso motivo, paesi già esportatori di prodotti alimentari sono ora dipendenti dalle importazioni per il loro sostentamento. Notissimo è il caso dei cosiddetti “quattro del cotone” (Benin, Burkina Faso, Mali e Ciad) che basavano appunto le loro economie sull’esportazione del cotone, e i cui governi sono costretti ora a spendere centinaia di milioni di dollari solo per mantenerne in vita la produzione. Un’evoluzione dovuta in primo luogo ai 25 miliardi di dollari in sussidi ai propri produttori di cotone che Washington ha assicurato negli ultimi 9 anni e che coprono ben il 68% del costo della produzione negli Stati Uniti.
Un altro esempio significativo è quello della produzione dello zucchero. La coltivazione più efficiente è quella derivata dalla canna da zucchero, tipica dei climi tropicali. L’Europa in teoria non potrebbe mai competere con questi paesi, tuttavia, grazie alle sovvenzioni della PAC, non solo da noi si produce zucchero di bietola, ma l’Europa ne è anche il maggiore esportatore mondiale. In definitiva, i contadini di qualsiasi paese - Europa compresa - vorrebbero semplicemente prezzi più alti, ovvero reali. Al contrario, il denaro dei contribuenti viene speso per abassare i prezzi dei beni alimentari, così da creare nuovi grandi mercati ed enormi guadagni per gli intermediari del commercio internazionale.
Tornando alla situazione attuale di rincari dei beni alimentari, può spiegare più nel dettaglio come la politica monetaria della Fed americana (con la svalutazione del dollaro) e la speculazione internazionale possono influire sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari ?
Il ruolo della Banca Centrale Americana è innegabile. A partire dal 1971, quando gli USA abolirono la convertibilità del dollaro in oro, la Fed è in grado di emettere cifre astronomiche di denaro tramite una pratica definita “quantitative easing”. Con un semplice tocco sulla tastiera si mettono in circolazione cifre che superano di molto la capacita d’assorbimento dell’economia reale. Sono quantità di denaro molto piu grandi della vera economia mondiale e che si muovono tra i centri finanziari per essere investiti nelle borse valori.
Da tempo, infatti, si assiste alla salita del valore delle azioni senza una ragione apparente, come un aumento dei dividendi o nuovi investimenti, e lo stesso accade con altre proprietà o valori. Questo eccesso di denaro virtuale causa un succedersi di bolle speculative che possono riguardare qualsiasi bene scambiabile, compresi quelli alimentari, i cui prezzi fanno segnare impennate come quella in corso. Quando queste bolle esplodono e i prezzi cadono, il denaro immesso artificialmente sul mercato si volatilizza. La Fed allora interviene nuovamente per erogare altro denaro virtuale a beneficio degli speculatori di Wall Street affinchè facciano risalire i prezzi e possano recuperare le perdite creando sempre nuove bolle.
Che a produrre il rialzo del prezzo del cibo sia la speculazione o le catastrofi ambientali, quel che è certo è che dalla metà dello scorso anno 44 milioni di residenti dei paesi più poveri sono stati spinti in condizioni che la Banca Mondiale definisce di “estrema povertà”, cioè costretti a sopravvivere con meno di 1,25 dollari al giorno. Di fronte ad una comunità internazionale pressoché impotente, il numero delle persone malnutrite sulla terra tocca oggi i 925 milioni e, con l’attuale tendenza dei prezzi dei beni alimentari, è probabile che entro la fine dell’anno verrà superato il miliardo, vale a dire quasi un sesto della popolazione della terra.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Benedetti
MOSCA. Scricchiolano gli equilibri geopolitici interni: si parla sempre più di due Zar (Medvedev e Putin) obbligati a condividere una poltrona unica mentre si vanno imponendo, sulla scena socio-economica, nuovi oligarchi venuti alla luce dopo Eltsin. Si fanno sempre più complessi i rapporti con i paesi dello “spazio post-sovietico” e la Csi - quella struttura che secondo il Cremlino doveva rimpiazzare il sistema del controllo sovietico - non svolge nessun ruolo dirigente.
C’è poi il campo della politica estera che al momento non brilla per idee e soluzioni. Non si comprende bene, infatti, quale sia il rapporto reale con gli Usa di Barack Obama e con la Cina di Hu Jintao. Ed è con questo bagaglio di problemi che il cronista - in una Mosca sempre coperta dalla neve e con punte di meno venti - va alla scoperta di eventuali soluzioni relative, appunto, alla conduzione geopolitica del Cremlino. Si entra, quindi, nei santuari delle accademie e degli istituti politici. E come prima questione sul tappeto si scopre che si è alla vigilia di una importante decisione del Cremlino relativa al rapporto con il mondo musulmano.
I dati attuali sono più che mai notevoli e degni di attenzione. Perchè sono oltre 20 milioni gli islamici presenti in Russia ed è chiaro che i think tank del Cremlino sono obbligati a tener d’occhio questa realtà. Ecco, quindi, che prende forma concreta quell’idea che il presidente Medvedev avanzò due anni fa: la realizzazione di un canale televisivo russo tutto dedicato ai musulmani, alla loro vita, alle loro tradizioni, al loro credo.
Si è alla vigilia del lancio ufficiale di questa rete (Febbraio) che, in primo luogo, si rivolgerà ai giovani promuovendo - come spiega il capo mufti russo, Ravil Gaynutdin - la tolleranza e i concetti di democrazia e convivenza tra religioni diverse. Ma è anche chiaro che l’idea del Cremlino consiste anche nel controbattere l’altra faccia della propaganda. Quella che viene dalle trasmissioni della tv cecena “Put” che, creata tre anni fa, si rivolge soprattutto alle popolazione del nord Caucaso con programmi e letture del Corano a ciclo continuo.
Il problema, qui, rischia di aggravarsi sempre più. Pensiamo, ad esempio, che una città come Grozny, capitale della Cecenia, contava, dodici anni fa, un 60% di slavi ed adesso ne conta appena un 6%. E questo fa capire come la situazione non sia delle più felici. Di conseguenza il Cremlino - viene fatto notare a Mosca - punta sempre più ad un buon rapporto con le popolazioni musulmane.
Ma nell’agenda delle priorità c’è anche la questione degli slavi-ortodossi. I quali, oggi come oggi, si attestano al 79%, mentre solamente dieci anni fa se ne contavano un 83% sulla popolazione totale. In questo contesto gli uomini del Cremlino addetti allo studio e all’esame dei rapporti interetnici ricordano che l'ortodossia si differenzia dalla religione cattolica in due caratteristiche: non viene riconosciuta l'infallibilità del Papa e a livello liturgico non viene riconosciuta la cresima (discesa dello spirito santo sull'uomo) perchè giudicata un doppione del battesimo. Per il resto valgono le regole delle due Chiese.
E sempre sul fronte religioso si evidenzia quel dialogo teologico teso al superamento degli ostacoli ancora esistenti. Grande è stata così l’attenzione del Cremlino nei confronti dei lavori di una importante riunione che ha visto riuniti a Vienna esponenti dell’ortodossia e della Chiesa cattolica. Il tema affrontato - quello relativo al dialogo teologico - ha visto impegnati i rappresentanti delle quattordici Chiese ortodosse autocefale (Patriarcato ecumenico, Patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Chiese di Cipro, Grecia, Polonia, Albania e delle Terre di Cechia e di Slovacchia), da altrettanti rappresentanti della Chiesa cattolica impegnati sul fronte della promozione dell'unità dei cristiani e del metropolita di Pergamo, Ioannis (Zizioulas), del Patriarcato ecumenico.
Non si è però trovata una comune piattaforma d’intesa. Ma al Cremlino - che di diplomazia e di trattative comuni se ne intende - si fa notare che le speranze per la prosecuzione del dialogo sono ben avviate e che, dunque, si spera che con la possibile presenza a Mosca del Papa tedesco si possano raggiungere posizioni accettabili.
Quanto alle linee di politica estera, le fonti più vicine al potere del duo Medvedev-Putin mostrano attenzione nei confronti dell’attuale vertice presidenziale alla Casa Bianca. Qui l’atteggiamento dei maggiori specialisti è improntato al pragmatismo più ferreo. Si parla delle tensioni valutarie tra dollaro e yuan che preoccupano anche il Cremlino. Ma si pone l’accento anche sul tema della Corea del Nord. E l’orientalista russo Sergej Lusianin - che da anni segue l’andamento delle relazioni tra Mosca, Pechino e Pyeongyang - fa notare in proposito che il conflitto fra le due Coree, cosi come la tensione su Taiwan, i contenziosi fra Cina e Giappone, Russia e Giappone, aggravano il clima in una regione segnata da “una carenza di fiducia”.
A consolidarla punta però, nota l’esperto, l’iniziativa russo-cinese che prevede inoltre la nascita di strutture regionali per prevenire i conflitti che possono andare oltre i confini dell’Asia e del Pacifico. Comunque, questo, è soltanto il primo passo su una lunga strada verso il consenso multilaterale e la diversificazione dei legami economici.
L’anno che si è da poco concluso - dichiara Lusianin - ha registrato un salto di qualità, passando alla cooperazione nell’energetica nucleare ed elettrica, alle forniture del gas liquefatto, alla costruzione di condutture. Ci sono, infatti, alcuni contratti importanti nella metalmeccanica per mettere a punto attrezzature per questo settore con l’applicazione di alte tecnologie. Inoltre c’è da mettere nel conto gli investimenti cinesi nello sfruttamento dei giacimenti siberiani insieme alle società russe.
L’anno appena trascorso ha pertanto rafforzato i legami d’investimento e ha evidenziato una nuova tendenza: “La piccola e media impresa russa prende in affitto i terreni, compra società, lancia vari progetti. La nostra imprenditoria - nota sempre il russo Lusianin - va volentieri in Cina, in quanto questa economia propone regole di gioco chiare e ben precise. E così nel 2011 si punterà alla diversificazione dei legami economici, innanzitutto nelle alte tecnologie.
Ma Mosca, nonostante queste previsioni, teme pur sempre che si possa giungere ad un asse Usa-Cina e per questo studia attentamente le parole del segretario di Stato Hillary Clinton e del Consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon. E in particolare si prendono in esame i discorsi dei capi di Microsoft, Steve Ballmer, di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, di General Electric, Jeff Immelt, di Coca Cola, Muhtar Kent e di Boeing, Jim McNerney.
I russi, inoltre, cercano di pesare attentamente (con l’aiuto di esperti in lingua cinese) il senso reale delle affermazioni dei dirigenti economici di Pechino al tavolo della Casa Bianca: il presidente di Lenovo, Liu Chuanzhi, l'acquirente cinese della divisione pc di Ibm, Lou Jiwei, presidente della China Investement Corporation, Lu Guanqiu di Wanxiang Group e Zhang Ruimin di Haier. Sulla base di tutti i dossier che i russi esaminano ora e sui quali intendono far sapere la loro posizione si può notare che la Cina è oggi il primo creditore estero americano con 895,6 miliardi di dollari in novembre, l'1,2 per cento in meno rispetto al mese precedente.
Intanto, per chiarire clima e speranze del rapporto Washington-Pechino il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha spiegato alla televisione cinese che "apertura e trasparenza" sono due elementi essenziali per stabilire una relazione di fiducia tra Stati Uniti e Cina. "Vogliamo avviare un dialogo aperto con la ricerca di un terreno d’intesa e poi appianare i punti di disaccordo", ha spiegato il capo della diplomazia americana, senza nascondersi che "da entrambe le parti vi sono posizioni molto nette. Ma noi auspichiamo che nulla interferisca sulla nostra volontà di continuare a discutere e ricercare un terreno d'intesa". Parole, queste, che Mosca sembra sottoscrivere in pieno.
Non mancano - in questa sintetica panoramica di relazioni internazionali viste da Mosca - le questioni relative alla sicurezza nell’Asia, alla cooperazione energetica e a quel vero e proprio boom che sta attraversando la piccola e media impresa russa in Cina.
Si può concludere questa panoramica con un certo ottimismo? E’ ovvio che risposte dettagliate non possono essere fornite. Si possono avanzare solo alcune riflessioni da inquadrare, tutte, in un complesso scenario che lascia da parte verità a tutto tondo. Uno scenario che è pur sempre dominato da complicati rapporti politici ed economici.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
L'ondata rivoluzionaria che sta attraversando i paesi nordafricani e mediorientali è arrivata a toccare le coste del Bahrein. Nel piccolo arcipelago del Golfo Persico, il malcontento popolare dura da anni. Ma è stato soprattutto l'esempio egiziano a sdoganare la possibilità di una vera rivolta. La maggioranza sciita, che costituisce il 70% della popolazione, ha deciso così di iniziare a far davvero la voce grossa contro il regime sunnita che da quarant'anni governa il Paese.
Gli scontri sono iniziati lunedì scorso, nei villaggi intorno a Manama, la capitale. I manifestanti chiedono riforme che trasformino il Bahrein da monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono anche le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il Paese dal 1971 (anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna), è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Dalla rivoluzione egiziana, i contestatori hanno ripreso il principale slogan ("Il popolo vuole il crollo del regime") e la più visibile fra le modalità di protesta: l'occupazione del cuore della capitale. Centinaia di persone si sono accampate così in piazza della Perla, la piazza Tahir del Bahrein.
Ma è stata subito evidente la distanza che corre fra Manama e il Cairo. Nell'isola del Golfo, le forze di sicurezza sono costituite per lo più da siriani, giordani e pachistani. Stranieri che non hanno alcun legame con la popolazione locale. I manifestanti sono stati così attaccati nel cuore della notte, mentre dormivano. A suon di manganelli, pallottole e lacrimogeni, la polizia ha impiegato non più di 20 minuti a sgombrarli. E per evitare che l'episodio si ripeta, oggi la città è presidiata dai blindati dell'esercito. Nel frattempo, il bilancio degli scontri è salito a 5 morti, 60 dispersi e oltre 200 feriti. Com'è ovvio, tutto ciò ha dato il colpo di grazia al già precario equilibrio politico del Paese. Il capo del movimento d'opposizione Wefaq, sheikh Ali Salman, ha ritirato in blocco i suoi 18 deputati dal Parlamento. Quasi la metà, visto che in tutto i seggi sono 40.
"Chiediamo al Bahrein, alleato e amico dell'America, moderazione in vista di possibili nuovi scontri. Gli Stati Uniti sostengono il processo per veri, significativi cambiamenti politici nel Paese". E' questo l'appello lanciato dal segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, in tutto simile a quello indirizzato qualche settimana fa a Hosni Mubarak. La verità è che Washington è terrorizzata dalla possibilità di una guerra civile in Bahrein. Per quanto trascurabile possa sembrare a guardarlo su una carta geografica, il Paese ha un'importanza strategica cruciale: è qui che gli Stati Uniti hanno stanziato il quartier generale della Quinta Flotta della loro marina militare.
Per gli americani si tratta dell'unico punto di riferimento che consente di tenere sotto controllo le acque del Golfo. Da questa base le portaerei di Washington sorvegliano il transito del 20% del petrolio mondiale, sostengono le operazioni in Afghanistan e fanno sentire costantemente il fiato sul collo all'Iran. Sempre da qui sono partiti gli attacchi aerei durante la prima e la seconda guerra del Golfo. Perdere il Bahrein, è evidente, sarebbe una catastrofe. Se una rivoluzione portasse al potere un regime sciita, il Paese cadrebbe nelle braccia di Teheran e l'intera geopolitica della zona ne uscirebbe ridisegnata. La base americana più vicina, infatti, è sull'atollo sperduto di Diego Garcia, 1.600 chilometri a sud dell'India.
Come accaduto in l'Egitto con la dittatura di Mubarak, anche in Bahrein gli Stati Uniti sono stati ben lieti di appoggiare per anni un regime che rispondeva perfettamente alle loro esigenze in termini di equilibri internazionali. Una volta scoppiata la rivolta popolare, la democrazia non è la strada migliore da scegliere per motivazioni astrattamente ideologiche. E' piuttosto l'unica alternativa a una possibile debacle. Non è per le vite o per i diritti umani che Washington chiede di scongiurare la guerra civile a Manama, quanto per il rischio inaccettabile per la stabilità dell’area che questa comporterebbe.
Così si spiega la telefonata, di cui lo stesso Pentagono ha dato notizia, fra il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, e il principe ereditario del Bahrein, Salman. I due avrebbero parlato della "situazione attuale sul piano della sicurezza". E davvero avranno avuto di che discutere, soprattutto se sono veri gli episodi riferiti da Nicholas Kristof, inviato del New York Times sull'isoletta del Golfo. Via Twitter, il giornalista americano dipinge una situazione molto più grave di quella finora raccontata dai media: infermieri minacciati per evitare che soccorrano i feriti, prigionieri giustiziati a sangue freddo in mezzo alla strada, reporter segregati in aeroporto perché nessuno sappia. Nemmeno Washington?
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Alessio Marchetti
PRAGA. Dal 1989, anno della caduta dei regimi comunisti, c'é stata una progressiva ed inesorabile avanzata della criminalità organizzata nei paesi dell'Europa Centrale, in particolar modo in Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Proprio qui, nel cuore geografico dell'Europa, diverse organizzazioni criminali hanno deciso di impiantare i loro quartier generali da cui organizzare e gestire i loro traffici all'interno dell'Unione Europea. Partiamo proprio dall'Ungheria, strategico ponte tra l'Europa dell'Est e i Balcani, porto geografico ideale dove organizzare il proprio centro logistico per un'attività criminale per i traffici di merce illegale e armi dall'ex Yugoslavia e dai porti del Mar Egeo verso Est e viceversa.
Come in molti altri paesi post comunisti, molto del capitale illegale accumulato in Ungheria si é realizzato durante gli anni '90, grazie al contrabbando, agli appalti pubblici e alla corruzione delle istituzioni giudiziarie e delle forze di sicurezza. Il network delle attività criminali, infatti, é stato alimentato in quegli anni dai membri dei servizi di sicurezza dell'ex regime comunista, poliziotti corrotti e servizi segreti, e da quelle figure che già operavano sul mercato nero prima del 1989 e che venivano protetti proprio dalla corruzione diffusa. Tutto ciò ha determinato scarsi controlli di sicurezza e una generale disattenzione delle normative. Il rapido sviluppo di questo network criminale ha portato al controllo attuale di oltre il 20% del PIL ungherese.
La favorevole posizione geografica del paese rende più facili i movimenti di merce illegale su gomma e treno. Per esempio, dall'Ucraina entrano tabacco e giovani donne da avviare alla prostituzione in Austria; dalla Romania passano forze lavoro irregolari provenienti dal Caucaso; dalla Croazia e dalla Serbia sono importate armi e droga, che poi vengono indirizzate altrove. Le organizzazioni criminale hanno bisogno di far muovere continuamente e velocemente le loro merci e, da questo punto di vista, l'Ungheria ha una solida base infrastrutturale. Budapest é la capitale europea della pornografia, del contrabbando di sigarette nonché il punto di incontro e negoziazione tra i vari gruppi criminali che commerciano in armi, prostituzione e droga e che qui provengono da tutta Europa per concludere i loro affari.
Il Consiglio di Sicurezza Ungherese, un'agenzia pubblica preposta al controllo delle attività illecite, ha di recente riportato uno studio secondo cui il numero delle organizzazioni criminali presenti nel paese é in costante crescita. In particolare, le imprese edili, immobiliari e le società finanziarie sono quelle a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, dando origine a quel diffusissimo fenomeno del lavaggio del denaro sporco. Si é anche rilevato che, recentemente, organizzazioni provenienti dalla Cina e dal Sud America hanno iniziato proprio dall'Ungheria la loro invasione verso l'Europa occidentale. La crescita delle mafie internazionali in Ungheria si é registrata particolarmente dopo il 1 maggio 2004, giorno dell'accesso del paese all'UE. A questo proposito, da alcuni anni, forze congiunte di polizia di Germania, Austria, Italia, Svezia e Stati Uniti stanno collaborando attivamente con la polizia ungherese e hanno stabilito nel territorio magiaro delle task force per monitorare la situazione direttamente alla fonte.
La situazione non si può certo definire migliore in Repubblica Ceca, sicuramente l'economia più fiorente e avanzata dell'ex blocco comunista in Europa centro-orientale. Le forze di sicurezza locali hanno stilato recentemente un rapporto secondo il quale sono oltre 100 le organizzazioni criminali presenti sul territorio: queste contano almeno 3000 adepti, tra i quali vari ragionieri contabili, commercialisti ed avvocati. Almeno 30 di queste organizzazioni sono integrate con altri gruppi all'estero e con diverse attività in vari paesi europei.
La mafia presente a Praga é soprattutto russa, ucraina, georgiana e moldava. Recentemente la polizia ceca ha registrato l'incremento della presenza anche di gruppi provenienti dalla Croazia, Serbia, Albania, Bulgaria, Romania, Vietnam e Cina, cosi come di turchi, specializzati nel lavaggio del denaro sporco, e greci, che gestiscono il commercio di droga e prostituzione.
Da non sottovalutare poi anche i gruppi mafiosi sudamericani, libanesi, iraniani e nigeriani, oltre alla Camorra italiana, ben presente soprattutto nel settore immobiliare. I cechi tendono a non creare una propria rete criminale quanto piuttosto a servire e supportare le mafie straniere. Questo, oltre a confermare il fenomeno mafioso non autoctono ma prevalentemente d’importazione, crea problemi alle forze di sicurezza locali che non riescono a tracciare i rapporti tra i vari gruppi e i loro leader. Dato la vicinanza, la Repubblica Ceca é considerata un'ottima testa di ponte per far entrare droga, prostituzione e altri traffici illegali in Germania. Il paese serve anche come base per il traffico verso i paesi scandinavi, in particolare la Svezia, di materiale umano proveniente dalla Moldova e dall'Ucraina.
Se la Repubblica Ceca piange, i cugini della Slovacchia non ridono. Secondo statistiche della polizia, a Bratislava sono presenti oltre 50 gruppi mafiosi che contano circa 700 adepti; le organizzazioni criminali sono in prevalenza kosovare, ucraine, russe, georgiane e locali. La Slovacchia, a partire dagli anni '90, é stata tacitamente divisa in zone di influenza tra i vari gruppi criminali, in modo da evitare inutile guerre che avevano negli anni precedenti prodotto numerose vittime. La capitale Bratislava ha una fortissima presenza albanese specializzata nella prostituzione illegale con dei ricavi annui stimati in oltre 50 milioni di euro. I rumeni invece sono specializzati nel furto d'auto, da rivendere poi, intere o a pezzi, nei mercati tedeschi e olandesi. Il commercio della droga é gestito dai turchi e dai kosovari, che la esportano prevalentemente in Germania, Olanda e Scandinavia. In Slovacchia c'é anche una certa attività nel mercato illegale di armi, provenienti dalla Moldova, dal Caucaso e dai Balcani: i clienti di questo tipo di attività provengono prevalentemente dall'Africa Sub-Sahariana e dal Medio Oriente e qui comprano soprattutto esplosivi e missili anti-carro.
Tra i gruppi criminali che hanno visto la maggiore crescita in questi ultimi anni, in termine di numeri e di volume di affari, ci sono sicuramente i cinesi e i vietnamiti, che sono riusciti a costruire un network consolidato ed affidabile che va dalla Scozia fino alla Grecia. I Vietnamiti sono considerati i maggiori importatori di materiale di contrabbando (sigarette, tessile e altri beni di consumo) ed hanno un sistema molto ben oliato per quanto concerne l'immigrazione irregolare dal sud est asiatico all'Europa. Si capisce quindi come dalla caduta del comunismo, l'attività delle organizzazioni criminali si sia internazionalizzata e sia etnicamente molto sfaccettata. Per facilitare l'integrazione dei propri adepti, le mafie organizzano matrimoni con i cittadini locali, per ottenerne la cittadinanza e il passaporto europeo.
Anche l'attività legata al commercio della droga é totalmente in mano alle organizzazione straniere. L'eroina e la cocaina vendute a Praga o Budapest costano la metà di quella venduta a Parigi o Berlino: questo crea quel fenomeno conosciuto con il nome di narcoturismo, che insieme al turismo del sesso garantiscono le due voci di maggiori introiti nell'attività giornaliera dei gruppi criminali, che con queste finanziano il resto dei loro commerci.
Basta pensare che nella sola Budapest ci sono circa mille escort ingaggiate dalle mafie che generano un ritorno monetario annuo valutabile in circa 80 milioni di euro. Se a questo aggiungiamo il resto del vasto spettro di affari legati all'industria del sesso (bordelli, discoteche, cinema porno, call center, siti internet porno, ecc) allora il volume di affari é stimato raggiungere i cinque miliardi di euro.
Sovente il business illegale si mischia e diventa tutt'uno con quello legale. Praga in particolare, negli ultimi anni, ha subito l'invasione della mafia russa che ha lavato il proprio denaro sporco investendo in attività del tutto legali come hotels, ristoranti, agenzie di scommesse e aziende di costruzioni o immobiliari. Il fine ultimo di queste organizzazioni, in particolare di quella russa, secondo un rapporto stilato di recente dal Ministero dell'Interno ceco, é proprio quello di penetrare legalmente nel tessuto economico, politico e sociale ceco.
Lo studio e la ricerca delle organizzazioni criminali in Europa Centrale e tenuto in grande considerazione nei paesi dell'Europa Occidentale ed il motivo eé semplice: per molte di esse, la loro presenza a Praga, Budapest e Bratislava rappresenta una base per i grandi mercati francesi, italiani e soprattutto tedeschi. L'integrazione europea del 2004 ha avuto come conseguenza un minore controllo alle frontiere e ad una maggiore facilità e velocità nello spostamento delle merci. Certamente il collasso del comunismo ha portato una notevole sfida alle autorità di sicurezza e doganali dell'Unione Europea e questo sta diventando sempre più chiaro ed evidente giorno dopo giorno. E la sfida per l'Europa oggi sembra essere proprio questa: offrire sicurezza ai proprio cittadini senza allo stesso tempo minarne le libertà acquisite.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Da qualche settimana a questa parte una nuova disputa diplomatica sta incrinando i già delicati rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan. Ad alimentare le frizioni con lo scomodo ma fondamentale alleato di Washington in Asia centrale è la sorte di un cittadino americano accusato di aver ucciso a sangue freddo due motociclisti pakistani in un’affollata arteria della città di Lahore. La confusione attorno alla vera identità del responsabile del duplice omicidio e le pressioni statunitensi per il suo rilascio stanno creando non pochi imbarazzi ad un governo pakistano che deve fare i conti con un sentimento anti-americano già ampiamente diffuso in tutto il paese.
Il 27 gennaio scorso, il 36enne Raymond Davis stava guidando in solitudine lungo una strada della città pakistana nord-orientale a pochi chilometri dal confine con l’India. Accortosi di essere seguito da due uomini in motocicletta, Davis li ha colpiti una prima volta con una pistola automatica Glock per poi finirli dopo essere sceso dall’auto. Secondo quanto dichiarato alla polizia locale, il cittadino americano avrebbe scattato delle fotografie alle due vittime, i quali a suo dire stavano tentando di rapinarlo.
Dopo l’accaduto, Davis ha chiamato il consolato americano di Lahore da dove hanno mandato immediatamente un’auto per assisterlo. Il S.U.V. partito dal consolato, che secondo le autorità viaggiava con una targa falsa, ha poi investito e ucciso un altro pakistano in motocicletta, fuggendo a tutta velocità per le strade della metropoli.
Secondo la ricostruzione della polizia, che respinge la tesi dell’autodifesa, oltre alla sua arma Raymond Davis aveva con sé un equipaggiamento degno di una spia, tra cui alcune mappe di installazioni di importanza strategica per la sicurezza nazionale pakistana. I due motociclisti uccisi portavano a loro volta delle armi scariche e uno di loro sarebbe stato colpito alla schiena nel tentativo di fuggire dal luogo dell’incidente.
Il comportamento del misterioso americano per le strade di Lahore ha comprensibilmente scatenato la rabbia della popolazione pakistana, mentre ad accendere ancor più gli animi ci ha pensato la televisione locale che ha trasmesso le immagini prese dalla macchina fotografica di Davis, ottenute con ogni probabilità proprio dalle forze di sicurezza e che mostravano, tra l’altro, le due vittime a terra dopo lo scontro a fuoco.
Il ruolo svolto da Raymond Davis in territorio pakistano a tre settimane dai fatti che l’hanno condotto in una sovraffollata prigione di Lahore appare ancora poco chiaro. Ufficialmente, Washington sostiene che l’ex membro delle forze speciali fa parte dell’ambasciata americana a Islamabad, dove avrebbe incarichi di natura “amministrativa e tecnica”. Secondo la versione di Davis, invece, la sua funzione sarebbe quella di consulente presso il consolato di Lahore e dunque non farebbe parte del corpo diplomatico americano in Pakistan.
Qualunque sia il reale compito svolto da Davis, dagli Stati Uniti ci si è affrettati a chiederne l’immediato rilascio. Ai suoi legali in Pakistan si sono aggiunti il Dipartimento di Stato e lo stesso presidente Obama, il quale nel corso di una conferenza stampa martedì scorso ha chiesto al governo di Islamabad di rispettare la Convenzione di Vienna e garantire l’immunità diplomatica al detenuto americano.
Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ne avrebbe addirittura chiesto la liberazione direttamente al presidente pakistano, Asif Ali Zardari, così da non mettere a repentaglio la partnership strategica tra i due paesi. Di fronte ad un’opinione pubblica inferocita per l’arroganza mostrata dal presunto contractor o spia americana, il governo locale ha tuttavia negato il rilascio, rimettendo alla giustizia pakistana il destino di Raymond Davis, nel frattempo formalmente accusato di omicidio premeditato.
Le nuove scintille con gli Stati Uniti e l’insistenza della Casa Bianca rischiano di destabilizzare seriamente il già fragile governo pakistano. Cedere alle pressioni potrebbe, infatti, produrre una vera e propria rivolta nel Paese, dove il risentimento verso gli americani è già profondo, soprattutto per le vittime civili continuamente provocate dalle incursioni dei droni nelle province nord-occidentali al confine con l’Afghanistan. L’avversione nei confronti degli USA sta dando vita ad una miscela esplosiva nel paese, sfruttata dall’integralismo islamico, come dimostra l’assassinio di un politico di spicco appartenente al partito di governo a inizio anno.
A complicare la situazione ci sono anche gli attriti tra Islamabad e l’amministrazione della provincia del Punjab, dove si trova Lahore, responsabile dell’arresto di Davis. Qui il fervore religioso risulta particolarmente radicato e, come se non bastasse, a governare è il partito all’opposizione a livello nazionale, il PML-N dell’ex premier Nawaz Sharif. Tra il governo centrale e i militari, poi, sono emerse profonde divisioni sulla risposta da dare a Washington in merito al rilascio di Davis. Il presidente Zardari e il primo ministro Gilani sembrano convinti della necessità di garantire l’immunità diplomatica al detenuto statunitense ma, oltre a dover valutare attentamente le reazioni dei propri cittadini, sono costretti a fare i conti con le resistenze dei vertici delle forze armate, che dettano di fatto la politica estera pakistana.
Tra il caos che regna nelle stanze del potere a Islamabad sono emerse infatti posizioni anche diametralmente opposte sulla vicenda. Nonostante la misurata disponibilità mostrata dal governo, il ministro degli Esteri, Shah Mehmood Qureshi, si è ad esempio pubblicamente rifiutato di riconoscere l’immunità diplomatica che pure Hillary Clinton sotto minaccia di ritorsioni gli aveva chiesto personalmente. Secondo alcuni osservatori, Qureshi, vicino ai militari pakistani, avrebbe pagato la sua ostinazione con la rimozione dall’incarico di ministro degli Esteri pochi giorni più tardi.
Senza tanti scrupoli per le sorti di un governo che dovrebbe rappresentare un punto fermo nella cosiddetta guerra al terrore in corso in Afghanistan, nelle ultime settimane Washington ha preso una serie di provvedimenti volti ad intimidire l’alleato pakistano. Il Dipartimento di Stato ha recentemente cancellato il tradizionale summit tripartito con i ministri degli Esteri di Pakistan e Afghanistan che era in programma a partire dal 23 febbraio prossimo, ufficialmente a causa della rimozione dello stesso Qureshi che ha perso il posto nell’ambito di un rimpasto di governo.
In maniera più esplicita, invece, ai pakistani è stato fatto capire che se Raymond Davis non sarà messo a breve su un aereo per gli USA, gli ingenti aiuti stanziati annualmente dal Congresso americano potrebbero essere tagliati. Tale ipotesi é stata prospettata chiaramente sia dal deputato repubblicano Howard McKeon sia dal senatore John Kerry, presidente della commissione affari esteri, entrambi inviati dalla Casa Bianca in Pakistan negli ultimi giorni. Gli Stati Uniti nel 2009 avevano siglato un accordo per 7,5 miliardi di dollari in aiuti militari e civili da erogare in cinque anni, mentre l’anno scorso il presidente Obama aveva a sua volta promesso altri due miliardi.
L’atteggiamento intimidatorio di Washington, nonostante il rischio concreto di provocare la caduta dello stesso governo pakistano e compromettere la stabilità di un alleato così importante, suggerisce implicazioni ben più profonde riguardo alla figura di Raymond Davis. Se è impossibile trovare conferme sulla sua reale attività in Pakistan, svariate ipotesi stanno affiorando sulla stampa internazionale. Per alcuni, Davis sarebbe un agente operativo ben addestrato che i due motociclisti uccisi stavano seguendo per conto dei servizi segreti locali. Nel corso dell’inseguimento, Davis avrebbe perso la testa, sparando ai due uomini che in realtà non rappresentavano una minaccia per la sua vita.
Per i media pakistani, inoltre, le autorità sapevano che Davis era in contatto con i gruppi talebani operanti nel paese. Per questo motivo, scrive il Washington Post citando fonti anonime dell’intelligence pakistana, i due motociclisti che lo seguivano intendevano metterlo in guardia poiché il suo incarico stava verosimilmente mettendo a rischio gli interessi della sicurezza nazionale del Pakistan. In questa prospettiva, appare evidente come gli Stati Uniti temano che il loro uomo in mano ai servizi di sicurezza locali possa rivelare informazioni vitali sugli obiettivi strategici americani.
Il tribunale di Lahore, intanto, ha assecondato la richiesta del ministero degli Esteri, concedendo altre tre settimane al governo di Islamabad per stabilire una posizione ufficiale sulla questione dell’immunità diplomatica richiesta da Washington per Raymond Davis. La decisione della giustizia pakistana, salvo colpi di scena, prolungherà la permanenza di quest’ultimo nelle carceri di Lahore, provocando certamente un’ulteriore escalation delle tensioni tra i due improbabili alleati.