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di Carlo Benedetti
MOSCA. Il blitz di Medvedev alla 41ª edizione del Forum economico mondiale di Davos ha riportato la Russia al centro dell’attenzione della diplomazia mondiale. Con un Cremlino che guadagna punti quanto a sovranità e prestigio in un quadro generale di sfide alla modernità. Senza strappi e mosse false. E così, mentre la scena interna è purtroppo dominata dalla tragedia di Domodiedovo (un altro “undici settembre”, scrive la stampa moscovita), il Presidente russo mette sul tappeto della politica e delle relazioni interstatali nuovi e ampi dossier che tendono a fare di Mosca un centro autorevole di una nuova area strategica. E si tratta di dossier che si chiamano Bric, quanto a geopolitica mondiale, e Skolkovo quanto a soluzioni interne.
Di tutto questo Medevedev ha parlato in Svizzera lasciando sul posto, per le ulteriori spiegazioni, il suo diretto portavoce Igor Ivanovic Shuvalov. Due, quindi, nel segno dell’ottimismo, le punte “russe” del nuovo slancio modernizzatore.
BRIC. Questa compagine di grandi paesi emergenti, che si caratterizza con questo acronimo - Brasile, Russia, India, Cina - si è imposta a Davos nel quadro di nuove dinamiche di trasformazione economica. Medevdev si è impegnato, in tal senso, a rappresentare i nuovi modelli di sviluppo economico e politico non tanto con il suo discorso d’apertura (già noto nelle linee generali) quanto con i numerosi incontri, dentro e a lato del Forum, presenti i massimi esponenti dell’economia e della politica.
E in tutti i colloqui - questa la novità sottolineata dagli osservatori economici - si è fatto sempre riferimento alla Cina, che in termini di dati guida di fatto l’area Bric. D’altro canto Pechino è un grande acquirente di titoli pubblici americani e dell’euro: e quando si parla di deficit pubblico americano o di crisi dei debiti pubblici dell’area euro, c’è anche lì, indirettamente, un riferimento al capo pattuglia dei Bric.
Quanto all’attuale processo di modernizzazione, Medvedev ha voluto scoprire (presenti oltre duemila rappresentanti delle maggiori economie) alcune carte relative alla situazione interna, sottolineando che la Russia ha esaurito le possibilità di crescita basate sulle materie prime. Il che - ha detto - viene compreso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Comunque sia negli ultimi tempi - ha aggiunto - è stato possibile introdurre modifiche significative nella legislazione per puntare alla modernizzazione e alla razionalizzazione industriale. E per mettere un punto fermo su tale questione ha detto che d’ora in poi si farà del tutto per rendere possibile l’applicazione delle leggi dell’UE in Russia.
SKOLKOVO. Altro punto sul quale il Cremlino di Medvedev insiste particolarmente riguarda gli investimenti stranieri. E qui il riferimento è al progetto “Skolkovo”, cioè a quel centro scientifico tecnologico, alle porte di Mosca, costituito per portare le innovazioni sui binari seguiti in tutto il mondo. Il discorso in merito è servito al leader russo per ribadire le linee portanti del suo programma per la privatizzazione di grandi asset statali. Infatti, la lista delle imprese strategiche della Russia, in forza di un decreto presidenziale, è stata ridotta di cinque volte. Nei prossimi tre anni saranno così privatizzati i pacchetti azionari delle maggiori compagnie del settore bancario, infrastrutturale ed energetico per un importo complessivo di decine di miliardi di dollari. Nella gestione di questo processo di privatizzazione saranno poi coinvolte le maggiori banche del mondo.
Uno degli obiettivi che perseguono le misure indicate da Medvedev consiste nell’incrementare l’attrattiva d’investimento del Paese. Il programma prevede, in particolare, la formazione di un fondo speciale destinato a condividere i rischi con gli investitori stranieri. E questo vorrà dire che l’economia russa dovrà ricavare dei consistenti vantaggi dallo sviluppo del settore finanziario.
La Russia - anche questo à stato detto a Davos - non intende limitare in via supplementare la sua attività finanziaria; al contrario, dal 1 gennaio è stata abolita l’imposta sui redditi dalla distribuzione dei titoli a fronte degli investimenti a lungo termine. Inoltre, è in fase di realizzazione il progetto per la trasformazione di Mosca in un centro finanziario internazionale, destinato a diventare non solo un nucleo del sistema finanziario ma anche un catalizzatore dello sviluppo dei mercati finanziari di tutto lo spazio postsovietico. E probabilmente anche dell’Europa Centrale e Orientale.
Grandi novità, quindi, e tutte nel segno di una ampia strategia economica. La Russia sta infatti provvedendo a creare nuovi grandi mercati con norme uniche in materia di regolamentazione per renderli più attraenti per gli investitori. A dire del Presidente, il Paese già da tempo è pronto all’ingresso nella WTO e conta di concludere questo processo entro la fine di quest’anno. In tal senso va ricordato che Mosca ha già formato l’Unione Doganale con la Bielorussia e il Kazachstan e sta provvedendo a formare insieme a loro uno “Spazio Economico Unico”. Con l’obiettivo finale di estendere l’iniziativa dall'Atlantico al Pacifico.
Sempre a Davos, Medvedev ha posto l’accento sul valore economico che avranno le Olimpiadi del 2014 a Soci, i Mondiali di calcio e, soprattutto, si é soffermato sull’importanza del vertice dell’Associazione per la Cooperazione nell’Asia e nel Pacifico in programma ad Honolulu per il prossimo novembre. In pratica il presidente del Cremlino, parlando agli uomini di Davos, ha inteso anche rivolgersi al suo pubblico per far capire che se la Russia non entrerà sempre più a testa alta nel gruppo dei paesi leader del mondo, sarà destinata a scendere in basso. Come del resto sta avvenendo per quei paesi asiatici dello spazio post-sovietico, ancora in preda alle convulsioni di una troppo rapida e imprevista disgregazione dell’Unione di un tempo.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Da diversi anni Irmela Mensah-Schramm, classe 1946, passa le sue giornate a cancellare i graffiti razzisti dalle strade della Germania. Simboli di estrema destra, espressioni d’odio o frasi discriminanti, poco importa: spray e spatola nella borsetta, la pensionata raschia ogni forma di scritta xenofoba o neonazi da muri e sottopassaggi fino a farla scomparire. Il conflitto vero e proprio di Irmela, tuttavia, inizia con i graffiti indelebili: l’attivista, nativa di Stoccarda e berlinese d’elezione, li ridipinge personalmente con le sue bombolette trasformandoli in espressioni antinaziste.
Non ci sono dubbi in proposito, la tolleranza della signora nei confronti del razzismo è pari a zero: la sua guerra quotidiana si fonda sull’annientamento totale dell’opinione neonazi in ogni sua più semplice manifestazione. Che suona come una provocazione estrema per i militanti di estrema destra tedeschi.
Irmela ha cominciato la sua lotta nel 1986, quando ancora lavorava in una scuola berlinese come educatrice per ragazzi disagiati: in venticinque anni ha eliminato oltre 80mila scritte xenofobe, antisemite e omofobe, fotografandone ogni singolo esemplare a documentazione del proprio lavoro. Un impegno che, piano piano, è diventato bizzarra mania, ammette Irmela stessa, ma che vanta radici ideologiche tutt’altro che buffe.
“Le offese e le minacce razziste dipinte sui muri sono indirizzate ai più deboli della società, le loro opinioni sono manipolabili e influenzabili dagli incendiari della politica”, spiega Irmela, riferendosi ai focosi leader di estrema destra. Perché, effettivamente, il razzismo è il pane quotidiano della propaganda populista neofascista e postfascista e rappresenta l’argomento più scontato per conquistare senza sforzo le fasce meno soddisfatte della popolazione.
Anche lo Stato tedesco si dichiara ufficialmente contro i graffiti razzisti, ma i procedimenti effettivi intrapresi dalla polizia in questo senso sono pochi. Oltre a costituire atto vandalico, le scritte neonaziste sono considerate anticostituzionali per i loro contenuti: la burocrazia le include tra i reati di “propaganda” e “offesa all’umanità” e sono pertanto punibili secondo legge. Nonostante ogni anno si registrino quasi 20mila crimini di questo tipo, i verbali veri e propri sono solo qualche centinaio.
E, a questo punto, Irmela ha deciso di risolvere da sé, eliminando a proprie spese il “sudiciume neonazista” ed esponendosi al limite della legalità. L’operazione le costa, tra bombolette e viaggi, quasi 300 euro mensili; senza contare che, nonostante tutto, la writer d’eccezione “tagga” le scritte di altri e compie, a sua volta, un’infrazione alle regole.
Per il momento, comunque, nessuno sembra intenzionato a limitare l’impegno di Irmela, al contrario. Istituti scolastici e associazioni culturali di tutta la Germania la invitano continuamente a presentare le proprie fotografie attraverso mostre itineranti, da cui nascono vivaci dibattiti tra gli studenti stessi. La sensibilizzazione, per Irmela, parte dalle realtà oggettive più semplici e si basa sull’attenzione capillare per ogni benché minimo dettaglio, quali possono essere i graffiti.
Da buona educatrice, Irmela sa che dalle piccole disattenzioni degli individui nascono le falle più grossolane e pericolose della società. Basti pensare al recente studio pubblicato dal settimanale Die Zeit, secondo cui dal 1990 a oggi si contano in Germania 137 vittime della violenza di matrice neonazista: nelle proprie statistiche, la polizia tedesca ne ha registrate solo 47. Decine di donne e uomini che hanno perso la vita per un’ideologia folle, che intende rivendicare come proprio uno dei periodi più bui della storia umana. Andrebbero fermati, ma vengono colpevolmente ignorati. A volte, la disattenzione può essere tanto pericolosa e sgradevole quanto l’errore stesso.
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di Mario Braconi
Perfino quando si ha il privilegio di vivere in un paese occidentale relativamente aperto e tollerante, ci vuole coraggio a fare “coming out”; ma per essere gay in Uganda, scegliendo l’impervia strada dell’attivismo, occorre la stoffa dell’eroe. E David Kato, ammazzato a martellate lo scorso mercoledì nel suo appartamento in una zona malfamata di Kampala, ha pagato con la vita il suo grido di libertà. A dispetto della frettolosa ricostruzione della polizia locale, che ha escluso un crimine d’odio legato all’orientamento sessuale della vittima, Kato è stato ucciso per come aveva deciso di vivere e amare e per come aveva deciso di darne testimonianza.
Dopo la laurea, conseguita in una delle migliori scuole del suo paese, Kato era emigrato in Sud Africa, dove aveva fatto coming out: qualche anno fa organizzò la prima conferenza sui diritti degli omosessuali in Uganda (conclusasi con un bel pugno in faccia da parte di un poliziotto); in seguito, divenne membro di spicco della Sexual Minorities Uganda (o SM-UG), un’organizzazione che si propone di conseguire la piena eguaglianza sociale e giuridica della persone GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transessuali) nel paese africano.
E proprio in qualità di rappresentante di SM-UG, Kato aveva recentemente ottenuto un’importante vittoria contro un giornaletto locale con 2.000 copie di tiratura, il Rolling Stone (nulla a che vedere con l’omonima rivista americana) che, nell’ottobre dello scorso anno, aveva concepito la brillante iniziativa di pubblicare in prima pagina foto, generalità e indirizzi di omosessuali dichiarati (tra cui quello di Kato), accompagnati da un simpatico banner giallo con la frase “impicchiamoli”, o “impiccateli” (a seconda di come si voglia interpretare).
Le foto erano accompagnate da un pezzo altrettanto ripugnante, nel quale comparivano alcune delle tante favole dark divenute popolari in Uganda negli ultimi anni, tra cui quella secondo cui gli omosessuali battono le scuole al fine di corrompere i giovinetti, convincendoli ad abbandonarsi all’odioso ed innominabile peccato di Sodoma. Orbene, il 3 gennaio scorso una corte ugandese aveva dato ragione a Kato e agli altri due ricorrenti, obbligando il giornale a un risarcimento monetario e diffidandolo per il futuro a diffondere dati personali di omosessuali.
In generale, la vita degli omosessuali in Africa è particolarmente agra: come ricorda il New York Times, infatti, negli Stati del Nord della Nigeria i gay rischiano di essere condannati alla lapidazione, mentre in Kenya possono finire in carcere per anni, se scoperti. Tuttavia, l’omofobia paranoica dell’Uganda è sui generis, dato che è stata rafforzata e resa particolarmente violenta da elementi esogeni alla cultura locale.
Ne è convinta Val Kalende, lesbica e attivista di “Freedom and Roam Uganda”, che sul New York Times ha commentato così la morte dell’amico David Kato: “Il governo ugandese e i cosiddetti evangelici americani devono assumersi la responsabilità del suo assassinio”. Kalende, che ha dichiarato pubblicamente la sua omosessualità in un paese dove alle giovani lesbiche è costume somministrare uno “stupro rieducativo”, si riferisce a Scott Lively e Dan Schmierer, e Caleb Lee Brundidge, che tra il 5 e l’8 marzo del 2009 organizzarono a Kampala un seguitissimo “seminario”, il cui obiettivo era infettare l’Uganda con le loro ridicole e pericolosissime “teorie” omofobe.
Qualche flash sulla biografia dei tre “luminari” americani in terra d’Africa può aiutare a farsi un’idea delle loro idee: Scott Lively è autore (assieme a Kevin E. Abrams) di “Svastica Rosa”, un “saggio” secondo cui “gli omosessuali sono stati i veri inventori del nazismo, mentre l’omosessualità è stata la forza trainante di molte atrocità commesse dai nazisti”; Dan Schmierer è uno dei responsabili di Exodus International, un gruppo di ex-omosessuali; mentre Brundidge è un ex-gay che tiene “seminari di cura” finalizzati alla riconversione dei peccatori.
Ad organizzare l’incredibile adunata, Stephen Langa, un soggetto che nei suoi seminari sostiene che l’omosessualità è assimilabile alla pedofilia e alla bestialità; nella sua prolusione, ha citato in lungo e in largo una serie di dati statistici basati sulle ricerche di un certo Paul Cameron, psicologo anti-omosessuale, doverosamente radiato dalla Associazione degli Psicologi Americani.
Per quanto possa sembrare incredibile, il seminario è stato frequentato da migliaia di ugandesi, inclusi politici, rappresentanti delle forze dell’ordine e politici. Questi ultimi, soprattutto, sono apparsi particolarmente sensibili alle demenziali parole pronunciate da quella farsesca assemblea di falsi religiosi e veri odiatori; il reverendo Kapya Kaoma, voce critica e progressista della chiesa anglicana, che per sei mesi ha seguito in incognito i rapporti tra evangelici americani e politici ugandesi, riporta il seguente intervento: “Il Parlamento ritiene sia necessario stendere una nuova legge che affronti la questione omosessuale in modo completo, considerando anche il pericolo rappresentato dall’agenda gay internazionale”.
Detto fatto, ad Aprile del 2009 il Parlamento ugandese realizza una bozza di legge che prevede la pena di morte per gli omosessuali “recidivi”, malati di HIV o che abbiano rapporti con ragazzi minorenni. A dispetto dello sdegno europeo e degli Stati Uniti (!), che hanno ricattato il governo ugandese minacciando di chiudere il rubinetto degli aiuti se la proposta dovesse divenire legge, essa giace ancora in un limbo amministrativo, anche se potrebbe essere approvata a febbraio, a valle della presumibile rielezione di Museveni, al potere da 25 anni.
Secondo Kaoma, i rappresentanti puri e duri della destra reazionaria americana, che hanno trovato nella rurale e bigotta Uganda il loro Eldorado, stanno scherzando con il fuoco: non hanno capito, o hanno finto di non capire, che cosa “vuol dire per degli africani sentire parlare di un certo gruppo di persone che tenta di annientare i loro figli e le loro famiglie: quando si parla in questi termini, gli africani lotteranno fino alla morte”. Ora, per quanto gli odiatori a stelle e strisce si affannino a versare inutili lacrime di coccodrillo a mezzo stampa, la miccia è accesa: David Kato è stato assassinato, mentre l’Uganda si prepara a una possibile nuova pulizia etnica. In nome di Dio.
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di Carlo Musilli
Alla fine è arrivata. Dopo quattro giorni dall'inizio delle proteste, venerdì l'Egitto ha conosciuto la vera guerriglia, in tutto il paese. E' stato imposto il coprifuoco, ma i manifestanti non lo hanno rispettato. Mubarak ha deciso quindi di schierare l'esercito affianco alla polizia. Almeno 20 persone sono morte e quasi 1.000 sono rimaste ferite, più di 400 gli arrestati. Numeri assolutamente provvisori e quasi impossibili da verificare, data la nube di fumo che il regime ha fatto calare sul sistema di comunicazioni. Difficile anche ricostruire cosa sia successo a El Baradei, oppositore del rais e premio Nobel per la Pace 2005, rientrato in patria da pochi giorni. Secondo alcune voci era stato arrestato. Poi la notizia è stata edulcorata e si è cominciato a parlare di arresti domiciliari.
Intanto, gli scontri non si sono fermati. Ieri al Cairo i manifestanti si sono riuniti in piazza Tahrir, cuore della rivoluzione. Hanno cercato di convincere le forze dell'ordine delle loro intenzioni pacifiche, ma alcuni poliziotti hanno sparato sulla folla. Non è chiaro se fossero munizioni di gomma o vere pallottole. Di certo erano veri i proiettili sparati contro i rivoltosi che hanno tentato di assaltare il ministero degli Interni. Nel frattempo, la violenza è dilagata anche ad Alessandria, Suez, Porto Said. Ovunque. Nel pomeriggio un altro coprifuoco, anch'esso violato da decine di migliaia di persone.
Di fronte a uno scenario che mai avrebbe immaginato, Mubarak ha parlato alla nazione. Invocando lo stop alla violenza, il dittatore ha promesso un nuovo governo e riforme politiche, economiche e sociali. Peccato che in pochi siano stati disposti a credergli. Quantomeno, l'offerta deve essere sembrata insufficiente. E' vero, l'esecutivo si è dimesso, ma quello che arriverà non sembra essere altro che un rimpasto. E non si fa una rivoluzione per ottenere un rimpasto. Per ora, Mubarak ha nominato vicepresidente il generale Omar Soleiman, capo dei servizi segreti, mentre, Ahmed Shafik, ex ministro dell'Aviazione civile, è diventato il nuovo premier. Difficile pensare di placare la rivolta dando il potere ai militari.
In ogni caso, per i rivoltosi una buona notizia c'è già: tutta la famiglia del rais è scappata all'estero. Londra, per la precisione. Poco importa della moglie e dei nipoti, a suscitare interesse è la fuga di Jamal, figlio del presidente egiziano e da sempre considerato suo naturale successore. Il vuoto che si è creato potrebbe essere riempito da El Baradei, come vorrebbe quasi tutto il paese, o, più verosimilmente, da Suleiman. Il potere del generale è immenso: in quanto capo dell'intelligence, da anni svolge una cruciale attività di mediazione fra palestinesi e israeliani ed è il più diretto interlocutore che gli Stati Uniti abbiano in Egitto. I rapporti con Washington non sono mai secondari.
Obama, intanto, ha detto di aver "parlato con Mubarak", che "ha assicurato maggiore democrazia e dovrà onorare questo impegno". Per il futuro "ci aspettiamo giorni difficili - ha concluso il presidente - ma sosteniamo il diritto del popolo egiziano a decidere del suo futuro". A quanto pare, si tratta di qualcosa di più che un semplice sostegno morale. Stando a quanto pubblicato sul sito del giornale inglese The Telegraph, infatti, gli Usa, pur essendo formalmente alleati di Mubarak, da almeno tre anni appoggiano in segreto i grandi burattinai che muovono i fili della recente sollevazione.
Il quotidiano britannico cita un documento datato 30 dicembre 2008 e proveniente dall'ambasciata americana al Cairo. La fonte, nemmeno a dirlo, è Wikileaks. Nelle carte l'ambasciatrice Margaret Scobey parla di un non meglio identificato "giovane dissidente egiziano", membro del movimento "6 aprile", che è stato aiutato dagli stessi diplomatici Usa a prender parte a un incontro a Washington con altri dissidenti suoi connazionali e vari funzionari americani. Una volta tornato in patria, il "giovane dissidente" ha comunicato alla Scobey l'esistenza di un'alleanza fra gruppi d'opposizione, il cui obiettivo era di rovesciare il regime di Mubarak nel 2011 e traghettare il paese verso la democrazia parlamentare. Rivolgendosi ai suoi capi, l'ambasciatrice ha definito il piano "non realistico". Chissà cosa ne pensa adesso.
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di Eugenio Roscini Vitali
Il 17 gennaio scorso è stato arrestato in Israele Aleksander Cvetkovic, serbo-bosniaco accusato di aver partecipato nel luglio 1995 al massacro di Srebrenica, la strage conosciuta come il più violento assassinio di massa consumatosi in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Fermato in Galilea dalla polizia israeliana che ha dato seguito al un mandato di cattura spiccato da quella bosniaca, Cvetkovic è tuttora trattenuto in carcere in attesa che la giustizia si pronunci sull’estradizione richiesta nell’agosto 2010 dalla Bosnia Erzegovina.
Sposato con una donna ebrea e padre di tre figli, Cvetkovic viveva a Karmiel, nella Galilea occidentale; si era trasferito in Israele nel 2006, grazie alla possibilità data alla moglie dalla Legge sul Ritorno, norma che permette ad ogni ebreo del mondo di chiedere per se e i suoi familiari la cittadinanza israeliana. A quindici anni dal massacro perpetrato dalle truppe di Ratko Mladic, lo zelante soldato Aleksander era ormai certo di averla fatta franca, soprattutto perché - e questo lascia per lo meno perplessi - era riuscito a sfuggire alla fitta rete di controlli imposta dall’ufficio immigrazioni israeliano; ora dovrà difendersi dall’accusa di aver personalmente preso parte alla fucilazione di quasi mille bosniaci e di essere stato così “zelante” da aver utilizzato una mitragliatrice M-84 per velocizzare le operazioni.
Mercoledì scorso il giudice Ben-Zion Greenberger, della Corte distrettuale di Gerusalemme, ha confermato l’arresto di Cvetkovic e ha disposto che rimanga sotto custodia preventiva per almeno 30 giorni, tempo entro il quale gli organi competenti dovranno valutare la richiesta di estradizione avanzata dal governo di Sarajevo. L’accusa di genocidio a carico di Cvetkovic, reato previsto dall’art. 171 del codice penale della Bosnia Erzegovina, è relativa ai fatti accaduti nel luglio 1995 a Branjevo, fattoria nei pressi di Srebrenica dove Cvetkovic ed altri sette militari del 10° battaglione sabotatori dell’esercito della Repubblica Srpska (VRS) avrebbero fucilato, a gruppi di 10, circa mille musulmani, uomini e ragazzi di età compresa tra i 14 e i 65 anni, separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani per apparenti procedere relative allo sfollamento.
Cvetkovic è difeso dall’avvocato Nick Kaufman, ex pubblico ministero per il tribunale penale delle Nazioni Unite nei casi istituiti contro gli ex generali serbi coinvolti nel conflitto balcanico e rappresentante legale dell’ex vice presidente congolese Jean-Pierre Bemba, anche lui accusato per crimini di guerra.
Secondo la convenzione europea sull’estradizione, accordo sottoscritto da Israele nel 1967 e dalla Bosnia Erzegovina nel 2005, Tel Aviv è obbligata ad estradare Aleksander Cvetkovic; il serbo bosniaco è infatti ricercato per aver commesso un fatto considerato illegale in entrambe le nazioni e punibile con una pena superiore ad anni uno (art.1) e non per un fatto considerato quale reato politico (art.3). Robbie Sabel, professore di diritto internazionale all’università ebraica di Gerusalemme, é comunque convinto che se la difesa dovesse opporsi all’estradizione, cosa alquanto probabile, ci potrebbero volere mesi prima di portare Cvetkovic di fronte alla giustizia bosniaca.
Tecnicamente la Corte israeliana dovrà innanzi tutto pronunciarsi circa l’estradabilità dell’imputato, decisione che in caso positivo potrebbe dar luogo ad un ricorso alla Corte Suprema; superato questo scoglio la pratica passerà quindi al vaglio del il ministro israeliano della Giustizia, Ya’akov Ne’eman, che dovrà pronunciarsi sull’approvazione ed applicare tutti gli strumenti necessari alla consegna dell’individuo alle autorità bosniache.
Per il professor Sabel non è esclude che la difesa provi comunque a far passare la tesi del crimine politico; questo anche se per il massacro di Branjevo la Corte bosniaca sui crimini di guerra ha già processato altri quattro membri del 10° battaglione. L’avvocato Kaufman potrebbe inoltre guadagnare tempo basandosi sul fatto che al momento dell’arresto la Bosnia Erzegovina non avrebbe presentato prove evidenti di colpevolezza e appellarsi a quanto già accertato dal Tribunale Internazionale di Giustizia: cioè che il suo cliente avrebbe gia testimoniato di fronte ai magistrati dell’Aja senza peraltro nascondere la sua identità e senza che in quella sede nessuno abbia mai preso provvedimenti a suo carico.
Di tutt’altro avviso Vadim Shuv, magistrato al quale è stato assegnato il caso, e Gal Levertov, direttore del Dipartimento internazionale presso l’Ufficio della procura generale israeliana, che hanno parlato di notevole quantità di prove a carico dell’indiziato ed hanno sottolineato come Israele abbia dato alla pratica la massima priorità. La giustizia bosniaca sarebbe arrivata a Cvetkovic grazie alle informazioni ricevute dagli uffici investigativi dell’Interpol di Lione; la caccia ai membri del 10° battaglione, sospettati di aver partecipato al massacro di Branjevo, non si è mai interrotta e Vlastimir Golijan, Zoran Goronja, Stanko Savanovic e Franc Kos, ex commilitoni di Cvetkovic, sono già stati arrestati e sono attualmente sotto processo.