di Rosa Ana De Santis

Erano le 18,00 del 24 marzo del 1980, quando Monsignor Romero veniva ucciso mentre serviva messa. Trucidato per mano di un miliziano del colonnello D'Abuisson, il capo dagli squadroni della morte del governo militare di El Salvador, Romero venne immolato sull’altare davanti agli occhi di un popolo di fedeli. Una scena di terrore che è diventata il canone di un’ultima cena dei nostri tempi, attualizzata nell’inferno dell’ingiustizia di una dittatura e nelle carni di un prete che nasceva mistico e quasi conservatore diventando però poi un profeta di giustizia e di coraggio.

Lo ricordano come martire le Chiese protestanti, mentre quella cattolica apre la pratica di beatificazione soltanto nel 1997, quasi costretta dalle pressioni dei credenti. Al suo funerale è proprio Wojtyla, il pastore supremo della sua Chiesa, a non essere presente. Lo stesso che gli aveva sempre negato l’appoggio della Curia per la critica che il Monsignore rivolgeva al governo genocida amico di Washington; Roma interpretava ciò come una pericolosa vicinanza delle sue posizioni alla teologia della liberazione e lo aveva lasciato con distacco e imperturbabilità nelle sue suppliche di aiuto.

Romero era solo un vescovo che aveva scelto il popolo, “la mia profezia” come diceva lui, contro la feroce repressione imposta dagli assassini del regime militare instauratosi nel paese. La sua formazione, inizialmente mistica e molto distante dal cristianesimo sociale, si capovolge in una seconda conversione. Nelle omelie, dai microfoni della radio diocesana Ysax e nelle missive alla Chiesa di Roma, Romero denuncia le violazioni dei diritti umani, le torture, la repressione politica e la violenza perpetrata dall’esercito e dall’estrema destra al potere.

Tutto questo mentre gli Stati Uniti, prima con Carter e poi ancora di più con Reagan, davano man forte a stroncare ogni sovversione ai poteri militari di tutto il Sudamerica e a mantenere il comodo status quo. Romero è un prete che il potere considera comodo; un uomo di studi che invece si trasforma in un vescovo che denuncia le atrocità del regime del generale Carlos Humberto Romero, salito al governo nel 1977. L’episodio scatenante è l’assassinio dell’amico gesuita Rutilio, da sempre impegnato con i più poveri e con i perseguitati del paese.

Romero denuncia, arriva a scrivere all’allora presidente Carter e diventa per il popolo salvadoregno l’icona di una rivoluzione cristiana. Romero non può più pregare dio senza pregare per il suo popolo. Romero e la sua gente, insieme a tanti sacerdoti perseguitati dal regime, si lanciano come Davide contro Golia contro gli orrori praticati dalla Guardia Nacional, dalla Policía de Hacienda, ma soprattutto dall’organizzazione paramilitare “Orden”. La sintesi della sua pastorale è la più fedele traduzione per ogni credente del Vangelo di Gesù di Nazareth. Un’evidenza che solo agli interessi della Santa Sede è rimasta finora poco chiara.

A ricordare la sua morte, nella cripta dove è sepolto il Santo di tutta l’America Latina, insieme all’attuale arcivescovo di San Salvador si è recato ieri anche il Presidente Obama. Non c’è dubbio che la visita del presidente americano rappresenti un importante riconoscimento non solo alla figura di Romero, ma all’America Latina e al popolo cui egli ha sacrificato la vita.

Che ci sia dietro il corso di una nuova politica estera degli USA verso il Sudamerica vorremmo pensarlo dopo le parole spese a Rio de Janeiro sul modello del Brasile e sul proposito di ricucire i rapporti tesissimi dell’era Bush con tutto il Sudamerica, forse più per ragioni commerciali - va detto contro ogni tentazione romantica - che non rigorosamente politiche. Anche perché così come già nei giorni scorsi in Cile, dove il presidente Usa non ha ritenuto di doversi scusare a nome del suo Paese per aver organizzato e finanziato il colpo di Stato del 1973, che uccise il Presidente Salvador Allende e diede il via alla terribile dittatura di Pinochet, Obama ha perso un’occasione anche ieri a San Salvador, quando ha ritenuto di non dover chiedere perdono per aver addestrato, armato, sostenuto e poi protetto gli assassini di Romero.

La Chiesa indiana festeggia addirittura il Romero Day, mentre a Roma ci sarà la commemorazione a Santa Maria in Trastevere. Chissà se il nuovo papa riserverà un messaggio speciale per un profeta dell’amore che attende ancora di salire agli onori degli altari, in coda a tanti come il Cardinale Alojzije Viktor Stepinac, il prelato croato che accolse la conquista della Croazia da parte dei nazisti e degli ùstascia fascisti e a tante altre santificazioni lampo assai discutibili, celebrate dal suo precedessore.

Questa burocrazia di santi ci dice che anche dopo la sua morte Romero continua a non aver bisogno d’investiture dall’alto e a sfidarle con il conforto di avere la forza della sua gente. Ma ci dice che ancora oggi questo simbolo di rivoluzione profonda è considerato un pericolo. Intanto Oscar Romero è già santo, ben oltre i confini di El Salvador. Ed è una di quelle santità che più assomiglia alla sua vita: essere un prete che si è fatto popolo e che per questo ancora vive. 

 

 

 

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