di Carlo Musilli

Saleh deve cadere. Finalmente anche gli Stati Uniti sono arrivati a questa conclusione, dopo aver colpevolmente temporeggiato per settimane. Domenica hanno per la prima volta definito "inaccettabili" le violenze del regime. Secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal New York Times, la posizione di Washington nei confronti del dittatore yemenita si è modificata negli ultimi quindici giorni. Da quando, cioè, sono iniziati i veri negoziati per una soluzione politica della crisi.

L'ultima proposta dell'opposizione, arrivata sabato scorso, prevede che Saleh lasci il potere al suo vicepresidente, Abdrabuh Mansur Hadi, che dovrebbe costituire un governo di transizione. Non sono d'accordo gli studenti yemeniti, che hanno dato origine alla protesta e ora rifiutano qualsiasi passaggio di potere a uomini compromessi col dittatore. Gli Stati Uniti, invece, stanno facendo pressioni proprio perché si arrivi a una soluzione di questo tipo. Sembra che stiano trattando anche per trasferire in sicurezza Saleh e la sua famiglia in un altro paese. Un esilio dorato in cambio della stabilità. Ma la posizione di Washington non è così semplice.

Dal gennaio scorso, quando sono scoppiate le rivolte popolari contro Ali Abdullah Saleh, alla guida dello Yemen dal 1978, l'amministrazione Obama ha continuato a sostenerlo per opportunismo prima, per doppiogiochismo poi. Mai una sola critica è stata rivolta direttamente contro di lui, nemmeno dopo le stragi di manifestanti disarmati. Un atteggiamento ben diverso da quello tenuto contro i regimi magrebini. Si capisce: Saleh è sempre stato un alleato fondamentale contro Al Qaeda, che nello Yemen ha uno dei suoi rami più attivi e pericolosi. Ma ormai le cose sono cambiate.

Le rivolte contro il dittatore hanno causato l'interruzione delle operazioni di controterrorismo. In queste condizioni gli uomini di Bin Laden hanno troppa libertà di manovra e potrebbero rafforzare i piani per possibili attacchi in Europa e in America. L'allarme è stato lanciato da diplomatici americani e da analisti dell'intelligence intervistati dal Nyt.

Da metà gennaio le truppe yemenite si sono concentrate a Sana'a, la capitale, per far fronte alle continue manifestazioni anti-Saleh. Così facendo hanno lasciato indifesi i territori di molte province periferiche, dove Al Qaeda non ha tardato a riempire il vuoto di potere. Nelle ultime settimane gli attacchi dei terroristi a postazioni militari strategiche si sono moltiplicati.

Sembra inoltre che nuovi miliziani stiano arrivando nello Yemen da diverse parti del mondo, compreso il Pakistan. Secondo alcuni analisti, Saleh avrebbe ritirato l'esercito dai territori meridionali e sudorientali proprio perché Al Qaeda se ne impadronisse. Lo scopo del dittatore sarebbe di far precipitare la crisi in modo da convincere gli americani a sostenerlo.

In effetti Washington si trova di fronte a un bel dilemma: deve rimuovere Saleh e al tempo stesso garantire la ripresa delle operazioni contro Al Qaeda. Una prospettiva non semplice, considerando che il figlio del dittatore e tre dei suoi nipoti sono a capo delle quattro maggiori agenzie di sicurezza e controterrorismo del Paese. Fra queste, anche la Guardia Repubblicana e le Forze di Sicurezza Centrali, addestrate ed equipaggiate dagli Stati Uniti. Un improvviso cambiamento ai vertici di tutte le organizzazioni sarebbe una mossa più che rischiosa. Per questo gli americani stanno disperatamente cercando degli ufficiali del posto preparati e leali da usare come rimpiazzo.

Intanto continuano le violenze nel Paese. L'appello di Saleh ad interrompere le proteste, come prevedibile, non è stato ascoltato. Gli scontri più violenti sono avvenuti domenica e lunedì nella cittadina meridionale di Taiz. Decine di migliaia di manifestanti stavano marciando verso la sede del governo quando i militari hanno iniziato a sparare.

Pare che abbiano aperto il fuoco anche alcuni poliziotti in abiti civili, infiltrati nel corteo. Sono state uccise 17 persone, oltre 400 i feriti. Lunedì nel porto occidentale di Al Hudaydah, affacciato sul Mar Rosso, ci sono stati altri due morti. Nel frattempo a Sana'a gli uomini di Ali Mohsen al Ahmar, il generale passato dalla parte dei ribelli, impediscono alla polizia di sgomberare i manifestanti in piazza del Cambiamento. Venerdì si sono registrati altri scontri a Taiz, dove la polizia ha ucciso tre persone. I feriti da arma da fuoco sono stati 25, 200 gli intossicati dai gas lacrimogeni. Nuove manifestazioni anche ad Aden e a Hudaida, dove decine di migliaia di persone sono scese in piazza.

Non bisogna però dimenticare che le proteste degli ultimi mesi non sono l'unica causa della crisi yemenita. Continuano ad essere attive anche altre ribellioni, come quella degli Houthi, gruppo insediato nel nord del Paese, e quella del movimento secessionista meridionale. La già fragile economia yemenita, intanto, è praticamente implosa. A darle il colpo di grazia è stato proprio Saleh, che ultimamente ha speso un mucchio di soldi per pagare persone che fingessero di manifestare in suo favore e comprare la fedeltà dei capi tribù.

Per risolvere almeno il problema della successione di Saleh, martedì il Consiglio di Cooperazione del Golfo (composto da Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) ha invitato i rappresentanti del governo e dell'opposizione yemenita a Riyadh, dove i negoziati potrebbero finalmente sbloccarsi. Saleh inizialmente aveva accettato, ma mercoledì è tornato sui suoi passi, rifiutando ogni intromissione internazionale. Ma il progetto delle monarchie arabe del Golfo va avanti. Se dovesse realizzarsi trasformerebbe l'Arabia Saudita nell'alleato che toglie le castagne dal fuoco a Washington.

 

 

 

 

 

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