di Carlo Musilli

La svolta è arrivata sabato scorso. Ali Abdullah Saleh, dittatore dello Yemen dal 1978, ha accettato il piano di transizione messo a punto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo con la collaborazione di Usa e Ue. Sembra ora più vicina la fine della crisi politica e delle proteste che da oltre tre mesi sconvolgono il Paese. Fin qui, secondo Amnesty International, negli scontri quotidiani fra esercito e manifestanti sono morte almeno 120 persone.

Se le parti sottoscriveranno il piano, il Presidente dovrà lasciare il potere entro 30 giorni. Durante questo periodo Saleh guiderà un governo di unità nazionale insieme a un altro primo ministro scelto dall’opposizione. Nuove elezioni presidenziali si terranno 60 giorni dopo le dimissioni del dittatore, come previsto dalla costituzione yemenita.

L’opposizione ha accettato il piano lunedì, a condizione che le proteste siano autorizzate a continuare fino al definitivo abbandono del Presidente. Questo è un nodo ancora da sciogliere. Saleh sabato scorso aveva dato la propria disponibilità a collaborare solo se le manifestazioni si fossero immediatamente interrotte.

Sarebbe questo uno dei temi da affrontare lunedì prossimo a Riyadh, in Arabia Saudita, dove una delegazione del partito di governo (il Congresso Generale del Popolo) dovrebbe incontrare le opposizioni per siglare formalmente l’accordo. Ancora non si ha alcuna certezza. Saleh infatti non sarà presente all’appuntamento. I suoi avversari hanno fatto sapere che parteciperanno ai colloqui di Riyadh solo se prima il dittatore avrà firmato il piano. La sua parola non basta.

Al momento, l’unica verità è che l’accordo verbale raggiunto con il governo ha creato una frattura profondissima fra l’opposizione politica e quella di strada. Non è solo mancanza di fiducia. I manifestanti sono contrari al piano dei Paesi del Golfo soprattutto perché garantirebbe l’immunità al Presidente e alla sua famiglia.

E’ inaccettabile l’idea di un esilio dorato per chi ha massacrato il Paese negli ultimi 30 anni. Devono finire in tribunale e poi in carcere. Per calmare le acque, Saleh ha sostenuto ai microfoni della BBC che Al Qaeda si sia infiltrata negli accampamenti dei manifestanti. Parole che, insieme al nuovo compromesso raggiunto, hanno infiammato ancor di più le proteste in tutto il Paese. E le violenze continuano, insieme alla conta dei morti.

Martedì a Taez  (200 chilometri a sud di Sana’a) alcuni cecchini appostati sui tetti hanno fatto fuoco su una folla di ragazzi, uccidendone uno e ferendone almeno dieci. Mercoledì un altro manifestante è morto in uno scontro con l’esercito nella città di Aden. Lo stesso giorno anche i terroristi si sono fatti sentire. Si sospetta che ci sia proprio Al Qaeda dietro ad un attacco avvenuto a Zinjibar, capoluogo della provincia meridionale di Abyan. Un uomo ha aperto il fuoco contro un checkpoint dei militari, uccidendo due soldati e ferendone altri cinque.

Ormai storie del genere sono diventate ordinaria amministrazione per gli yemeniti. E non è che facciano poi così notizia fra la popolazione civile. Lo Yemen è il più povero dei Paesi arabi. Secondo il Programma Alimentare Mondiale, un terzo della sua popolazione (più di 7 milioni di persone) fatica a procurarsi il cibo. In alcune zone del Paese, l’emergenza malnutrizione è talmente grave da essere paragonabile a quella che si registra in Afghanistan e in Niger.

La crisi politica ha causato un ulteriore aumento dei prezzi alimentari. Anche il petrolio costa troppo: in molti sono tornati a bruciare legno e carbone. Nel frattempo, la moneta yemenita - il Riyal - continua a perdere terreno rispetto al dollaro. Secondo alcuni analisti è ormai vicina al collasso definitivo. Gli aiuti umanitari internazionali non bastano. Negli ultimi mesi il programma amministrato dalle Nazioni Unite è riuscito a recapitare a mala pena la metà delle risorse necessarie. Tutto questo dà la misura di come i giochi di potere e gli scontri armati fra manifestanti e polizia siano solo una delle preoccupazioni del popolo yemenita.

Se davvero il piano dei Paesi del Golfo andrà a buon fine, lo Yemen imboccherà forse la strada della riconciliazione istituzionale. Smetterà di essere una preoccupazione per chi è interessato solo agli equilibri geopolitici. A quel punto, con ogni probabilità, sarà di nuovo dimenticato. Comunque vada a finire, la tragedia yemenita non finirà a Riyadh.

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