- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Giuliano Luongo
La bomba fatta esplodere nei pressi della cattedrale di S. Marco ad Alessandria d’Egitto, durante la messa di mezzanotte, ha riportato l’attenzione sulla situazione dei cristiano copti in Egitto. La posizione dell’autoproclamatosi monarca Mubarak e la reazione dell’Occidente europeo, hanno partorito la rapida creazione di un “fronte per la difesa della cristianità”. Sembra essere questo, infatti, il prossimo obiettivo in agenda dei conservatori europei, in particolare di quelli nostrani, mentre s’infiamma la polemica a distanza tra i più alti rappresentanti religiosi delle fazioni coinvolte.
I copti (termine di origine greca che significa semplicemente “egizi”) sono una minoranza cristiana presente in Egitto dal I secolo d.C., vicini al Papa di Roma, ma con molti punti di contatto con l’ortodossia cristiana orientale. Sebbene i numeri non siano né certi né aggiornati, si stima siano poco più del 10% della popolazione egiziana (il governo fissa la cifra all’8%). La convivenza ha sempre oscillato tra alti e bassi, secondo l’estremismo dell’opposta fazione, sia in maniera violenta e diretta, sia in maniera più subdola: un tipico esempio è quello dei rapimenti di donne copte fatte convertire forzosamente all’Islam per poi finire in spose ad uomini islamici.
Nel ‘900, il punto di minimo tra le relazioni interreligiose si ebbe durante il periodo Sadat (’70-’81): proprio nel 1981, un gruppo di fondamentalisti islamici uccise 17 cristiani e ne ferì circa 100. Il presidente dimostrò di essere lievemente di parte, facendo arrestare il patriarca copto Shenouda III ed insabbiando l’accaduto.
L’attentato di capodanno non sembra essere stato un attacco del tutto imprevisto, dato che ben due settimane prima un’affermazione presente su di un noto sito web di estremisti islamici elencava una lista di venti siti copti da colpire, tra i quali figurava proprio la chiesa di S. Marco.
E’ stata, come da copione, paventata una connessione con Al Qaeda: “Lo Stato Islamico dell’Iraq”, organizzazione fondamentalista irachena, dichiarava il 1° novembre 2010 sul suo sito che quale tutti i cittadini cristiani del Medio Oriente sono da considerarsi “bersagli legittimi”, con il pretesto di supposte conversioni forzate dall’Islam al Cristianesimo avvenute a luglio 2010.
Proprio poche ore prima dell’esplosione una folla di manifestanti islamici radunatisi alla moschea di Kayed Gohar aveva ripetuto gli stessi slogan anti-cristiani attribuiti ai noti estremisti.
Dell’attentato in sé si è già detto fin troppo, mentre ancora non c’è accordo tra i reporter sulle modalità dell’assalto (dal kamikaze all’autobomba, al kamikaze nell’autobomba) ben pochi si sono presi la briga di ricordare che sia stato il peggior attacco alla comunità copta dal 2000 a questa parte (secondo massacro di Kosheh, 02/01/2000, 21 vittime), di vedere un interessante schema nel colpire a gennaio, o semplicemente di fare una lista degli ultimi attacchi per cercare di capirci qualcosa.
Nel maggio 2009, un tentativo di attacco con due ordigni non fece vittime (uno dei due venne disinnescato dalla polizia dopo l’esplosione del primo). Seguì il massacro di Nag Hammadi, 6 gennaio 2010: sei cristiani ed un poliziotto musulmano furono uccisi da un gruppo di fuoco all’esterno di una chiesa del Cairo, durante le celebrazioni del Natale ortodosso. Ne scaturirono numerose proteste da ambo le parti, con gli scaricabarile e gli incendi di rito di case e beni materiali.
L’evento portò, oltre ai citati danni alla proprietà privata e al demanio, alla pubblicazione di una serie di studi sull’escalation di violenza ai danni della comunità copta, elencando una lunga serie d’incidenti avvenuti tra il 2008 ed il 2009. L’impatto del testo è comunque da considerarsi mediocre, nonostante gli interessanti contenuti. Ciò che è accaduto in seguito è cronaca recente: dopo le “picconate” degli estremisti iracheni, il 24 novembre le violenze interreligiose riprendono. Motivo: lo stop alla costruzione di un nuovo edificio di culto cristiano. Dopo una prima manifestazione alquanto violenta dei cristiani, se ne innesca un’altra di forza eguale e contraria da parte dei musulmani. Bilancio: due cristiani morti e ben 150 arresti nelle due fazioni.
Mentre sullo sfondo - o meglio, al centro del palco - si alimenta la protesta copta, aumentano le illazioni sui possibili mandanti dell’attentato. Gli attacchi si protraggono da molti anni a questa parte e si concentrano nelle principali festività copte/ortodosse, anche da prima del grande arrivo sulle scene di Al Qaeda. La tesi del coinvolgimento dell’organizzazione di Osama bin Ladin è infatti scartata da numerosi analisti, anche provenienti dal mondo arabo: si punta il dito soprattutto sugli stessi agenti governativi, nell’ottica di una strategia “sottile” al fine di fiaccare la scomoda minoranza religiosa.
Sarebbe facile per il governo, infatti, accusare “criminali stranieri”, fingere di prendersi cura del problema e lasciare la sola fuga come alternativa per la comunità cristiana. Di certo, il presidente Mubarak non ha brillato per reattività, accusando appunto i suddetti “elementi stranieri” e parlando genericamente di perseguire i colpevoli, ma di pratico c’è ben poco. A livello internazionale, le reazioni di politici e non rendono il tutto ancora più interessante: se il Papa fa il suo mestiere, denunciando in toto le violenze - in particolare alla luce degli attacchi alle comunità cristiane in altre parti del mondo - colpisce molto di più quanto detto dai politici.
Ancora esaltato dalle minacce al Brasile, il nostro Frattini è sceso in prima linea invocando l’attivazione del Parlamento Europeo per imporre ai paesi negligenti nella tutela dei cristiani una serie di sanzioni: si è parlato di “passare all’azione” anche se finora è tutto ancora definito nell’aria fritta. L’arma definitiva dovrebbe essere quella dell’aiuto “in cambio di diritti”: secondo il Ministro, i paesi in via di sviluppo che non collaborano alla tutela dei diritti dei cristiani sul loro territorio potrebbero veder svanire il supporto economico occidentale, mentre quelli più attivi potrebbero ricevere addirittura incentivi da parte dell’Europa.
Inutile dire che da Bruxelles ancora si tace riguardo a questo, ma tale scenario apre numerose illazioni anche dal punto di vista degli analisti: legare la tutela dei diritti umani ad un do ut des economico non potrebbe avere risvolti dannosi? Come si potrebbe misurare praticamente l’impegno a “difendere i cristiani? Sa molto di “impegno libico a difendere il mare dai migranti”; i brillanti risultati li conosciamo tutti.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di mazzetta
Le utime dall'Afghanistan ci hanno raccontato che la presidenza Obama ha affidato il proseguimento della guerra al generale Petraeus, il quale aveva spiegato al mondo che gli americani avrebbero cercato di vincere “hearts and minds”, i cuori e le menti degli afgani. I conti però non tornano, perché dall'Afghanistan - e in particolare dalla regione di Kandahar - giungono notizie che vedono l'esercito americano impegnato in veri e propri crimini di guerra, in particolare nell'esercizio di quelle punizioni collettive della popolazione severamente vietate dai codici di guerra internazionali, Convenzione di Ginevra su tutti.
In due casi, nella provincia di Zhari, gli americani hanno arrestato e detenuto tutti gli abitanti, compresi i bambini e le donne, di due villaggi dai quali qualcuno aveva sparato fucilate agli americani. Circondati i villaggi hanno prelevato la popolazione e l'hanno portata via. Ma è un'altra tattica, che si sta affermando sempre più a sollevare rabbia tra gli afgani e commenti severi presso quei pochi occidentali ancora inclini a discutere di quel che fanno “i nostri ragazzi” in Afghanistan: quella della demolizione di interi villaggi.
Sono infatti ormai migliaia gli abitanti delle province di Arghandab, Zhari e Panjwaii rimasti senza casa perché gli americani hanno raso al suolo i loro villaggi. Gli americani dicono che lo fanno perché gli abitanti non rispondono alle loro richieste di consegnare le trappole esplosive delle quali questi villaggi sarebbero imbottite. Circostanza da chiarire perché è abbastanza strano che gli afgani vivano in villaggi imbottiti di trappole esplosive sperando che prima o poi gli americani siano così tonti da entrarci senza cautele.
Sia come sia, la presenza di eventuali mine o trappole esplosive non autorizza di certo un esercito a distruggere interi villaggi radendoli al suolo, ma di villaggi gli americani ne hanno raso al suolo parecchi. Fortunatamente dopo aver spiegato agli abitanti che era il caso di abbandonarli se non si voleva fare la stessa fine. Per gli americani la rabbia della gente non sembra rilevante e la scusa degli esplosivi sembra sufficiente come lo fu quella delle armi di distruzione di massa per invadere e distruggere quel che rimaneva dell'Iraq già bombardato in precedenza.
Al colmo dell'ironia o del disprezzo - a seconda dell'osservatore - ci ha pensato il brigadiere generale Nick Carter (si chiama proprio così) a spiegare alla stampa che la tattica ha anche il benefico effetto di avvicinare la popolazione ai rappresentanti afgani, che dopo ogni demolizione devono fronteggiare la rabbia dei profughi privati della casa e dei loro averi. Argomentazione allucinante e degna di un ufficiale nazista per lo spregio verso le vittime le leggi di guerra.
Governatori-fantoccio di un governo-fantoccio al potere in virtù di elezioni che gli stessi americani hanno definito per nulla regolari; ma sarebbe già qualcosa se la popolazione trovasse un sollievo nella loro opera. Invece niente, non ci sono risarcimenti, non ci sono altre case, nemmeno tendopoli, bisogna che gli afgani ai quali gli americani demoliscono le case si arrangino.
Perché il vasto ricorso a crimini di guerra se l'obiettivo è quello di vincere la simpatia degli afgani? Probabilmente perché nessuno è interessato veramente allo scopo dichiarato ufficialmente, perché gli americani hanno capito che è una guerra che non potranno mai vincere e allora non fa differenza se gli americani si fanno amare od odiare dagli afgani.
Il ricorso alle maniere forti non farà che spingere sempre più gli uomini verso la resistenza anti-occidentale ed è chiaro che se si ricorre a tattiche tanto disperate e brutali è perché ormai allo scopo ufficiale della guerra (“portare la democrazia in Afghanistan”) non crede più nessuno e non è nemmeno il caso di sforzarsi per conservare la decenza.
Infatti gli americani procedono e, nonostante alcuni dei principali media americani (ad esempio il Washington Post) ne diano notizia, negli States non ci sono state reazioni politiche, a nessun livello, nemmeno tra gli alleati. Figurarsi da parte di Karzai, che negli ultimi tempi si è fatto notare per aver detto che rimpiange i tempi di Bush, perché allora l'amministrazione lo sosteneva a spada tratta e non osava accusarlo qualunque cosa accadesse.
Facile mettersi nei panni degli afgani e concludere che niente di buono verrà dal governo o dalle forze d'occupazione occidentale, ma è abbastanza facile anche mettersi nei panni dei militari americani e concludere che pensano solo al giorno in cui lasceranno il paese. Non servivano certo i cablo pubblicati da Wikileaks per capire che la Nato non ha alcuna speranza di controllare il confine con il Pakistan e quindi di togliere ossigeno alla resistenza afgana: non è da ieri che gli stessi esperti americani dicono che la guerra non si può vincere.
Ma se la guerra non può essere vinta, che senso ha rimanere in Afghanistan ad alzare il livello dello scontro fino a commettere numerosi e odiosi crimini di guerra? Non si capisce bene, forse è solo rabbia, gli americani sono in Afghanistan da nove anni e non hanno concluso niente, da nove anni si aggirano per il paese pagando gli stessi talebani perché facciano da scorta ai convogli e armando reclute che poi disertano e sparano sugli alleati con le armi che gli abbiamo dato noi.
Sarebbe stato davvero strano se ne fosse venuto un successo, ma trasformare un fallimento militare in una vergogna, operando rappresaglie sulla popolazione civile, è ancora peggio. Peccato che il governo italiano sia in altre faccende affaccendato, che gli “umanitari” guardino al Darfur, che i paladini dei diritti civili guardino agli impiccati in Iran e che il nostro ministro della difesa sia impegnato a minacciare il Brasile che non concede l'estradizione per Battisti.
Davvero un peccato, agli afgani non pensa nessuno, se non per qualche tirata dei soliti razzisti contro il burka. Robaccia ad uso interno, di liberare le donne afgane non importa a nessuno, men che meno a quelli che hanno usato le loro sofferenze per giustificare la guerra.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
A Falluja centinaia di bambini nascono con difetti al cuore, allo scheletro, al sistema nervoso. Il tasso di malformazioni nei neonati è di undici volte superiore alla norma e negli ultimi anni ha fatto registrare un incremento spaventoso, raggiungendo livelli record nei primi sei mesi del 2010. Un'epidemia di danni genetici causata probabilmente dalle armi degli americani, che nel 2004 attaccarono due volte la città irachena. E' quanto sostiene uno studio scientifico che sarà pubblicato sul prossimo numero dell'International Journal of Environmental Research and Public Health e di cui il Guardian ha dato alcune anticipazioni.
Nessuno prima d'ora aveva avuto il coraggio di mettere in relazione la guerra con il fenomeno delle malformazioni, eppure di indagini ne erano state fatte. Due ricerche avevano già dimostrato come a Falluja, dopo l'attacco americano, le nascite di bambini maschi fossero improvvisamente diminuite del 15%. Da uno studio epidemiologico pubblicato nel luglio scorso, inoltre, è emerso che nella stessa zona, fra il 2004 e il 2009, il numero di tumori e leucemie è quadruplicato. Ora è superiore a quello registrato fra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.
L'ultimo rapporto ha analizzato la situazione di 55 famiglie in cui, fra il maggio e l'agosto di quest'anno, sono nati bambini con gravi malformazioni. Soltanto nel mese di maggio, dei 547 bambini presi in esame, quelli deformi erano il 15%. Nello stesso periodo si è avuto l'11% di parti prematuri e il 14% di aborti spontanei. A detta però degli stessi scienziati che li hanno prodotti, questi dati fotografano la realtà in modo incompleto. A Falluja, infatti, la maggior parte delle donne non partorisce in ospedale. E quelle che danno alla luce un figlio deforme, difficilmente si rivolgono a un medico. Eppure, alcuni casi documentati nella ricerca raccontano una verità difficile da fraintendere. Come quello di una madre e una figlia, che, dopo il 2004, hanno partorito entrambe bambini malformati. Il padre di uno dei due piccoli si è risposato e ha avuto un altro figlio, anche lui con problemi genetici.
"In condizioni normali, le probabilità che si verifichi un caso simile rasentano lo zero - ha spiegato al quotidiano inglese Mozhgan Savabieasfahani, uno degli estensori del rapporto - e sospettiamo che la popolazione sia cronicamente esposta a un agente ambientale. Non sappiamo quale sia, ma stiamo facendo ulteriori test per appurarlo". Non lo sappiamo, ma lo sospettiamo fortemente. Gli scienziati parlano genericamente di "metalli" come possibili responsabili delle malformazioni. Per prudenza, devono tenersi sul vago.
Chi invece non ha mai aperto un manuale di tossicologia in vita sua, ma magari ha letto un giornale, pensa immediatamente a qualcosa di specifico: i proiettili all'uranio impoverito usati dai soldati americani nell'aprile e soprattutto nel novembre del 2004, durante la seconda battaglia di Falluja. In quell'occasione, all'attacco partecipò anche l'esercito inglese.
In realtà, la questione è controversa. Molti sostengono che i famigerati proiettili portino con sé un residuo tossico, pericoloso soprattutto nel lungo periodo. Al momento, però, non ci sono prove scientifiche. Anzi, secondo alcuni sarebbe addirittura dimostrato che l'uranio impoverito non possa agire come contaminante. Ma non è questo il punto. Gli stessi ricercatori ammettono che "diversi altri contaminanti usati in guerra possono interferire con lo sviluppo dell'embrione e del feto". Ricordano, ad esempio, "i devastanti effetti della diossina" sui bambini vietnamiti.
Anche ammettere l'innocenza dell'uranio impoverito, quindi, non basterebbe a scagionare l'esercito americano. Nel 2005 un'inchiesta di Rainews24 documentò che, dopo i bombardamenti, i soldati Usa erano soliti gettare a caso per le strade di Falluja quintali di fosforo bianco. Inizialmente il Dipartimento di Stato americano aveva negato.
In seguito, il Dipartimento della Difesa aveva ammesso l'utilizzo del fosforo bianco come arma offensiva contro i nemici (già questo sarebbe illegale: nel '97 gli Usa hanno firmato una convenzione contro l'utilizzo delle armi chimiche), ma aveva escluso categoricamente di aver colpito dei civili. Willie Pete, come amichevolmente viene chiamato dai militari il "White Phosphorus", scioglie la carne umana come un'aspirina. E, negli anni, è fonte di mutazioni genetiche.
Oggi come allora l'esercito americano rifiuta ogni responsabilità. Non solo. Quasi a schernire gli iracheni, ha fatto sapere che chiunque abbia delle lamentele è invitato a scrivere messaggi di protesta al Pentagono. Alcuni disperati l’hanno fatto. Inutile dire che non hanno ricevuto risposta.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Benedetti
MOSCA. Due definizioni circolano con insistenza nel mondo della politologia di questa Russia d'inizio d’anno. La prima - “Il Partito non è un circolo di discussioni” - è di Stalin, che non era certo un fautore del pluripartitismo... La seconda - “Un partito al potere e tutti gli altri in prigione” - è di Tomski, il sindacalista rivoluzionario russo degli anni ’30. E c’è poi chi, sempre in questo contesto di citazioni e di rimandi storici ed ideologici, si rifà a Simone Weil, che paragonava i partiti ad una lebbra che uccide, chiedendone, di conseguenza, la soppressione. Ma è chiaro che in un paese come la Russia, che ha alle spalle quell’Unione Sovietica a partito unico, il tema della nascita di nuove formazioni è sempre attuale.
Sulla scena ci sono i partiti nati dal crollo del 1991: “Russia unita”, “Russia giusta”, “Liberal-democratici”, “Partito “Nazional-bolscevico”, “Russia che lavora”, “Comunisti della Federazione russa”... ed ora si delinea sempre più all’orizzonte il “Partito della Libertà Popolare”. Il quale, anche sull’onda del riconoscimento fatto da Medvedev nei giorni scorsi a determinati suoi esponenti, alza la testa e scende nelle piazze come avvenuto domenica scorsa a Mosca.
Ed ecco che si torna a parlare di esponenti che sembravano dimenticati. A cominciare da quel Michail Michajlovic Kassianov (classe 1975), personaggio molto discusso che iniziò la sua carriera nelle strutture economiche dell’Urss e che fu, nel 2000, alla guida del governo russo. Le malelingue lo ricordano solo come un corrotto pronto a prendere il 2% su ogni transazione (Non a caso era chiamato, in russo, “Miscia dva per zenta”). Altro nome ora riesumato da Medvedev è quello di Boris Efimovic Nemtsov (1959). Un ingegnere che fu esponente di spicco nei movimenti che scaturirono dal crollo dell’Urss. Seguace di Eltsin e del riformista Gajdar è stato anche vice premier della Russia.
Segue a ruota - sempre nell’elenco di Medvedev - Vladimir Aleksandrovic Rigkov (1966), uno storico che fu negli anni ’80 l’organizzatore del movimento democratico nella regione siberiana degli Altai. Deputato alla Duma nel 1993 è divenuto un personaggio di primo piano nella scena politico-amministrativa del Paese.
C’è poi lo scacchista campione del mondo, Garri Klimovic Kasparov (1963), che nel 2000 scelse la strada della vita politica divenendo uno dei maggiori leader dell’opposizione. Ultimo in questa lista di Medvedev è lo scrittore Edmund Vladimirovic Limonov (1943). Un intellettuale notoriamente scomodo per il Cremlino di Putin. Si deve a lui la fondazione del “Partito nazional-bolscevico”. Numerose le sue contestazioni alla testa di rivolte di strada e le sue gesta di combattente, al fianco dei serbi nella guerra jugoslava del 1991-1993.
Ed ecco ora, sullo sfondo di questi nomi, che i rappresentanti dell’opposizione liberale intendono far registrare il nuovo partito politico ed andare alle elezioni alla Duma nel 2011. Ed entro il 2012, anno in cui sono in programma le elezioni presidenziali, si propongono di avanzare un candidato comune. Ma secondo il direttore generale del “Centro per lo studio della congiuntura politica” Serghej Mikheev la nuova formazione non dovrfebbe avere prospettive: “Sono convinto - dice - che questo partito non è in grado di superare la barriera di accesso al Parlamento poiché il suo indice di gradimento è estremamente basso. Tutta questa gente si era screditata ancora negli anni ‘90. Personalmente, quindi, non vedo nessuna prospettiva per questo partito”.
Stesso giudizio viene espresso da altri politologi russi. E così, pur se si apprezzando gli impegni di questa nuova formazione in merito alla salvaguardia dell’ambiente, la libera iniziativa, la lotta contro i monopoli e la lotta contro la corruzione, non vi dovrebbero essere spazi di successo. Proprio per il fatto - dice ancora Mikheev - che “questo nuovo Partito ha adottato gli slogan di cui oggi parlano tutti. È chiaro che tutti questi problemi vanno risolti. Il Partito auspicato se offrisse qualche cosa di nuovo, avrebbe una possibilità di essere sentito dagli elettori. In realtà, invece, duplica l’attuale ordine del giorno, tentando di riferire tutte le iniziative in questo campo a sé stesso”.
E anche qui non va tutto liscio. È ingenuo pensare che i russi hanno dimenticato i nomi di coloro che erano stati al potere all’inizio degli anni 90 - ricorda l’esperto: “Francamente Nemtsov, Kassianov e compagnia, che in quel periodo ricoprivano alte cariche in seno al governo, furono alle origini dell’attuale imperversare della corruzione e della burocrazia che ora ci troviamo ad affrontare. Sono autori del sistema che ora ci impedisce di vivere una vita normale. In buona parte è una manipolazione dell’opinione pubblica nella speranza che il popolo ha già dimenticato chi era tutta questa gente in un recente passato”.
Molti analisti di Mosca concludono ora che l’obiettivo principale del nuovo partito e dei suoi fondatori - in un mondo fatto di gesti - è quello di ricordare sé stessi, di tornare alla grande politica, di fare un altro tentativo per rientrare nell’arena del potere. Quell’arena che oggi è dominata da Putin e da Medvedev. Ma che, viste le ultime sortite, potrebbe far registrare diverse crepe nelle pur forti mura del Cremlino.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Emine Demir, ex redattrice del quotidiano curdo Azadiya Welat (che in curdo significa “L’indipendenza dalla madre patria”), è stata condannata da un tribunale di Diyarbakir, la principale città della Turchia sud-orientale, a maggioranza curda, a ben 138 anni di carcere per “propaganda in favore dei ribelli curdi”. Non é una novità assoluta la sorte di Emine, anzi é al secondo posto sul podio dell’ignominia turca contro l'informazione. A maggio era infatti toccato al caporedattore (sempre del medesimo quotidiano) Vedat Kursum, 36 anni, giornalista nonché editore del quotidiano. A lui, per gli stessi reati, erano stati inflitti 166 anni di carcere. Più fortunato Ozan Kilinc, ex direttore del quotidiano, condannato dieci mesi fa a “soli” 21 anni di prigione.
Non aspettatevi adesso editoriali grondanti indignazioni sui principali media internazionali. Emine Demir, purtroppo per lei, non è cubana. Fosse stata cubana, l’appellativo di “dissidente” gli sarebbe valso l’immediata protesta degli Stati Uniti, che ne avrebbero chiesto l’immediata liberazione. Fosse stata cubana l’Unione Europea avrebbe lanciato sdegnati comunicati contro la “brutale repressione del regime” e Reporter Sans Frontieres avrebbe lanciato raccolte di firme, convegni e proteste d’ogni tipo sostenute dallo stesso conto corrente, cui avrebbe fatto seguito la nascita, nel più breve tempo possibile, di una candidatura vittoriosa al Nobel per la pace.
Ma, purtroppo per lei, Emine non è cubana. E’ curda lei e turco il tribunale che l’ha condannata. Turco, non cubano. Di quel paese cioè che si autodefinisce democratico e laico e che aspira ad entrare in Europa, spinto proprio dagli stessi paesi della Ue che condannano Cuba per una presunta e mai dimostrata violazione dei diritti umani. D’altra parte, aver sterminato gli Armeni prima e i curdi poi non sarà poi cosa più ignobile che definirsi socialisti a 90 miglia da Miami, no?
Emine Demir potrà ricorrere in appello, facoltà attribuita ai vivi. Questo perché non è nemmeno honduregna, altrimenti invece che essere condannata a 138 anni di carcere per aver espresso delle opinioni sarebbe semplicemente morta, come morti sono i dieci giornalisti honduregni che denunciavano in questi mesi l’orrenda repressione a seguito del Colpo di Stato a Tegucigalpa, che ha deposto Manuel Zelaya, legittimo Presidente dell’Honduras.
Dieci giornalisti uccisi da grandinate di proiettili. L’ultimo è stato Henry Suazo, corrispondente di Radio HNR di Tegucigalpa. Prima di lui, a cadere sotto il piombo dei giganti della democrazia e del libero mercato è toccato a Joseph Ochoa, di Canale 51; David Meza, di Radio El Patio; José Bayardo Mairena e Víctor Manuel Juárez, di Radio Super 10; Nahum Palacios, della Televisione del Aguán e Luis Chévez, dell’emittente W105. Si aggiungono a Georgino Orellana, di un canale di San Pedro Sula; Nicolás Asfura, giornalista radiofonico e Luis Arturo Mondragón, direttore del notiziario del Canale 19 della città di El Paraíso. Tutti assassinati nel corso di quest’anno.
Dieci colleghi sfortunati, perché nati nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Fossero stati cubani sarebbero vivi e nei pensieri della signora Clinton, ma l’Honduras è la più grande base militare Usa fuori dai confini statunitensi e dunque davanti a tanta magnitudine cosa volete che siano dieci morti, per di più giornalisti?
E non parliamo di giornalisti diventati tali solo aver mai pubblicato niente, come succede a Cuba; questi erano giornalisti veri, che scrivevano, parlavano e raccontavano. Non fondavano partiti, non erano stipendiati dalla locale ambasciata Usa; facevano il loro mestiere per due soldi, spacciavano racconti di corruzione, repressione e narcotraffico.
In fondo, però, poca roba, confronto ai 14 giornalisti assassinati in Messico nel 2010, perché anche il Messico, va precisato, è una grande democrazia. Il fatto che sia un narco-stato, il pusher prediletto per gli Stati Uniti, cioé il più grande consumatore di droghe al mondo, non può far velo al merito di rappresentare pienamente gli interessi petroliferi del Big Brother confinante.
Per non parlare del Guatemala, dove ormai i giornalisti uccisi rasentano il numero di quelli in attività. Ma anche qui bisogna andarci cauti: essere il bastione dell’anticomunismo per tanti anni può legittimamente determinare alcuni eccessi e risulterebbe oltremodo pignolo e pernicioso stendere la contabilità dei danni collaterali nel corso di una guerra santa. La stessa che si combatte in Colombia, dove i quattro giornalisti uccisi quest'anno rappresentano la percentuale infinitesimale di quanti vengono minacciati dagli squadroni della morte del narcostato di José Santos.
Nel corso del 2010 i giornalisti uccisi sono 106, secondo le stime di Suize Press. Oltre a quelli già citati, dieci sono stati assassinati in Pakistan, otto in Irak, sei nelle Filippine, quattro in Russia, Brasile e Nigeria. Sembra che sia l'America Latina il luogo più pericoloso nel quale svolgere la professione, mentre gli Stati Uniti sono quello più remunerativo.
Pare che tra il libero mercato e le libere opinioni sia ormai difficile mediare: il primo prevede che le seconde siano docili o detenute, le seconde prevedono che il primo le lasci circolare impunemente soprattutto se contrarie. Dev’essere questo il nuovo modello di relazione tra affari e opinioni: più il mercato é libero, più l'edilizia carceraria e le imprese funerarie prosperano.