di Mario Braconi

Rupert Murdoch, con la sua News Corporation, possiede il 39% di BSkyB, conosciuta nel mercato borsistico britannico con il nome di Sky: si tratta di una partecipazione di controllo, che gli consente fra l’altro di nominare l’amministratore delegato; dal 2003 al 2007 questo incarico è stato ricoperto da suo figlio James. Eppure, vi sono ottime ragioni, finanziarie e politiche, per mettere sul piatto i 7,8 miliardi di sterline necessari a rilevare dagli altri azionisti la quota restante del pacchetto azionario dell’operatore televisivo satellitare.

BSkyB è una società di enorme successo: perfino in piena recessione è riuscita ad aumentare il numero dei suoi abbonati, spremendo a ciascuno di loro, mediamente, più soldi. Anche grazie al bundling (“pacchetto”) dell’offerta televisiva con quella di banda larga e telefono, infatti, il fatturato per singolo cliente di BSkyB è salito del 16% in soli due anni. Bastano due cifre: i sudditi della Regina, che si lamentano del canone dovuto alla BBC (145,50 sterline l’anno), pagano volentieri a Sky una somma tre volte e mezzo più elevata.

In effetti in casa BSkyB alla ciclopica potenza di fuoco finanziaria hanno dimostrato di saper coniugare un notevole fiuto per i gusti del pubblico, unitamente alla capacità di plasmarne le preferenze, spesso facendo leva su una combinazione di sapienza commerciale e tecnologia.

Come ricorda The Economist, BSkyB, la prima società a trasmettere via internet, è riuscita a vendere a 7,5 milioni di clienti i suoi recorder digitali (i dispositivi che consentono di fruire dei programmi televisivi come se fossero un dvd) e ha convinto 3 milioni di persone dell’indispensabilità della TV ad alta definizione (ad ottobre sono cominciate perfino le prime trasmissioni in 3D, quelle che richiedono l’uso degli speciali “occhiali”).

Insomma, BSkyB è una macchina per fare soldi e Murdoch vorrebbe averla tutta per sé. Peccato però che il magnate si sia inizialmente dimostrato un po’ tirchio: alla sua prima proposta di rilevare i titoli in mano agli altri azionisti ad un prezzo prima di 6,75 e poi di 7,00 sterline, si è sentito rispondere che non se non sarebbe fatto nulla, a meno che il prezzo non arrivasse almeno ad 8,00.

Murdoch e i potenziali venditori hanno concordato di ritornare sul tema del prezzo una volta ottenute le autorizzazioni degli enti di vigilanza. In primo luogo l’Antitrust Europeo, poi le autorità britanniche: prima quindi Ofcom (Antitrust) e poi il Governo di Sua Maestà. Poiché Murdoch è proprietario di quattro quotidiani inglesi importanti (The Times, News Of The World, Sunday Times e The Sun) la preoccupazione di molti è che l’acquisizione della proprietà totale di BSkyB possa comportare una seria restrizione del pluralismo nell’informazione in Gran Bretagna.

Un allarme in tal senso è stato lanciato già a settembre da Claire Enders, titolare di una società di ricerche di mercato di Londra specializzata nel settore delle comunicazioni: a quanto si apprende da un articolo del Guardian del 20 settembre, la battagliera americana (naturalizzata britannica) avrebbe trasmesso al ministro dell’Economia dell’attuale governo, il liberal-democratico Vincent Cable, un memo che, con il supporto di dati quantitativi, sintetizza una situazione della libertà d’informazione in Gran Bretagna piuttosto preoccupante.

Prima ancora dell’annuncio di Murdoch, la News International (la holding che detiene i pacchetti azionari dei quattro quotidiani) controlla oltre il 37% della tiratura dei giornali britannici, Sky ha l’80% del mercato della tv a pagamento ed il 16% della raccolta pubblicitaria. Enders sostiene, provocatoriamente, che in Gran Bretagna Murdoch avrebbe già oggi molto più potere di quanto Berlusconi abbia in Italia (come molti stranieri fa fatica a comprendere, o forse non riesce a capire che in Italia il Presidente del Consiglio controlla anche la televisione pubblica).

In ogni caso, conclude la Enders, se il progetto di Murdoch dovesse andare a buon fine, tra il 2015 e il 2020 le sue società controllerebbero più della metà delle entrate, tanto nel mondo della televisione che in quello dei quotidiani. Inoltre, il sussidio incrociato di introiti dalla televisione al mondo (finanziariamente più impervio) della carta stampata, finirebbe per fare a pezzi tutti i giornali concorrenti (di destra o di sinistra). In questo contesto si inscrive l’iniziativa bipartisan di quattro giornali non (ancora) controllati dal magnate di origine autraliana (The Daily Telegraph, Daily Mail, conservatori, Daily Mirror e Guardian, di sinistra) i quali, con una mossa inedita, hanno scritto direttamente a Cable, ribadendo la preoccupazione che “l’operazione di acquisizione proposta potrebbe avere delle conseguenze gravi e pervasive sul livello di pluralismo dei media in Gran Bretagna”.

Una bella gatta da pelare per il governo di coalizione Conservatore-Liberaldemocratico, ed in particolare per il titolare del Ministero dell’Economia. Murdoch, infatti, ha un’enorme influenza politica in Gran Bretagna (viene scherzosamente definito “il ventiquattresimo ministro”), specialmente adesso che, grazie al voltafaccia con il quale ha sostenuto i Conservatori dalle colonne dei suoi quattro quotidiani, ha portato Cameron a Downing Street.

A proposito di commistioni insane tra politica ed informazione, è il caso di ricordare che il responsabile della comunicazione di quest’ultimo è Andy Coulson, ex direttore di News of The World, periodico della scuderia Murdoch, cui viene attribuito un modus operandi incline all’uso di intercettazioni telefoniche illegali).

Riuscirà “il nostro eroe” Cable a bloccare il rapace Murdoch? Solo il tempo potrà dirlo. Vale la pena però notare la superficialità con cui l’Economist dà la sua benedizione all’eventuale futura fusione News of the World - BSkyB. Il blasonato settimanale argomenta che anche il Guardian sopravvive (perdendo 61 milioni di sterline solo quest’anno) grazie agli introiti di una società del gruppo controllante (un sito a pagamento di compravendita di autovetture) e che il Washington Post rimane a galla solo grazie al denaro del gruppo Kaplan (colosso della formazione).

Un argomento molto debole, dato che tanto i siti automobilistici che i servizi alla formazione non creano sinergie significative con il mondo dell’informazione o, comunque, sotto questo aspetto pongono un problema meno grave rispetto a quello di un player dominante sia sul mercato televisivo che in quello della carta stampata.

Ma, a quanto pare, anche le considerazioni più banali diventano tabù quando il liberalismo viene confuso con il liberismo più acritico ed arrogante. Senza dimenticare che, in un mondo dominato dai Murdoch, è possibile che anche i giorni di The Economist (almeno del The Economist che, grazie alla sua struttura societaria, fornisce informazione indipendente) siano contati.

di Michele Paris

La recentissima visita del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in Libano ha scatenato una serie di reazioni ansiose in Occidente e avvertimenti minacciosi da Washington e Tel Aviv per una possibile nuova escalation di violenza in Medio Oriente. Nello stesso paese ospitante, le risposte alla presenza del discusso leader iraniano hanno rispecchiato le tensioni settarie, già ampiamente diffuse alla vigilia della pubblicazione dei primi risultati del Tribunale Speciale per il Libano che sta indagando sull’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri.

Ahmadinejad è stato accolto trionfalmente all’aeroporto di Beirut da un tripudio di bandiere iraniane prima di incontrare il presidente libanese Michel Suleiman. Se nei quartieri sciiti della capitale e nel sud del paese - devastato dalla guerra del 2006 con Israele - il presidente iraniano è stato ricevuto calorosamente, sunniti e cristiani hanno visto con sospetto la presenza di un ospite così ingombrante nel loro fragile paese. L’inquietudine di alcuni membri della maggioranza parlamentare filo-occidentale (Coalizione 14 marzo) li ha spinti anche ad indirizzare una lettera aperta ad Ahmadinejad, criticandolo per il suo presunto tentativo di trasformare il Libano in una “base iraniana nel Mediterraneo”.

La visita di Ahmadinejad ha tuttavia semplicemente rappresentato, da un certo punto di vista, il catalizzatore delle inquietudini che animano uno stato polarizzato come quello libanese. Le profonde divisioni che tradizionalmente animano il sistema politico in Libano si sono ulteriormente intensificate negli ultimi mesi, con il governo di unità nazionale sull’orlo di una gravissima crisi. Se le indiscrezioni di un possibile coinvolgimento di membri di Hezbollah nella morte di Rafiq Hariri nel 2005 saranno confermate, la sorte del governo di Saad Hariri potrebbe essere segnata, con tutte le pericolose conseguenze che ne conseguirebbero.

A calmare gli animi, il premier Saad Hariri aveva recentemente suggellato il riavvicinamento del suo paese alla Siria - le cui truppe avevano lasciato il Libano proprio in seguito ai fatti del febbraio 2005 - affermando di aver fatto un errore nel recente passato accusando Damasco di essere dietro all’assassinio del padre. Per Hezbollah, tuttavia, il passo necessario per evitare uno scontro frontale tra le due anime del governo di coalizione dovrebbe essere la denuncia dello stesso Tribunale Speciale e la fine della collaborazione con quello che viene visto come uno strumento nelle mani di Israele.

Con la tensione già alle stelle a Beirut, l’arrivo di Ahmadinejad ha dato così il via a nuove speculazioni sui giornali israeliani e occidentali, allarmati per un possibile imminente colpo di mano di Hezbollah che trasformerebbe il Libano in un “client state” della Repubblica Islamica. Le consuete dichiarazioni di fuoco del presidente iraniano sulla distruzione di Israele, lanciate dalla roccaforte di Hezbollah, Bint Jbeil, a pochi chilometri dal confine meridionale, hanno poi contribuito ad aumentare la tensione.

L’insolito spettacolo di un leader iraniano salutato con tutti gli onori del caso in un paese arabo ha ovviamente causato qualche brivido anche nei palazzi del potere in Giordania, Egitto e Arabia Saudita. L’entusiasmo manifestato nei confronti di Ahmadinejad va letto però soprattutto in chiave di riconoscenza per la vicinanza che l’Iran dimostrò al Libano nel corso della guerra dell’estate 2006, che fece oltre mille vittime tra i civili, e gli aiuti elargiti durante la ricostruzione. Il silenzio in quell’occasione dei paesi arabi moderati, non troppo dispiaciuti nel vedere Hezbollah schiacciato da Israele, sembra insomma essere rimasto ben impresso nella memoria dei cittadini libanesi, soprattutto sciiti.

Dal punto di vista di Teheran, poi, la trasferta in Libano del presidente Ahmadinejad non appare tanto una dimostrazione di forza per mostrare a tutto il Medio Oriente e al mondo occidentale le proprie mire espansionistiche nella regione. Se è pur vero che i nodi irrisolti nel vicino oriente difficilmente potranno essere sciolti senza il coinvolgimento dell’Iran, l’attivismo di Teheran risponde piuttosto alla necessità di rompere l’isolamento nel quale gli USA, Israele e non pochi paesi arabi vorrebbero spingerlo.

Le sanzioni approvate qualche mese fa dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU - seguite da quelle adottate unilateralmente da Stati Uniti e Unione Europea - sotto pressione statunitense, in seguito ad una mai dimostrata corsa verso la realizzazione di armi nucleari, seppure non paralizzeranno il sistema economico iraniano, minacciano di rallentare lo sviluppo del fondamentale settore energetico. La carenza di capitali esteri per sviluppare una rete di infrastrutture necessaria a sfruttare le ingenti riserve di petrolio e gas naturale si fa sentire ormai da tempo in Iran.

In quest’ottica, per Ahmadinejad diventa fondamentale provare a costruire buoni rapporti con i propri vicini arabi e il Libano potrebbe essere precisamente la chiave di volta di questa strategia. Parallelamente, anche l’appoggio fornito a Hezbollah in Libano e ad Hamas a Gaza rappresenta una sfida ed un ammonimento nei confronti di Israele, i cui toni si fanno sempre più aggressivi verso un Iran che da Tel Aviv appare come una minaccia alla propria stessa esistenza.

Alla luce delle persistenti intimidazioni occidentali e della mancanza di risposte da parte di Washington alle aperture che pure il regime di Teheran ha ripetutamente lanciato per risolvere la questione del nucleare, l’Iran sembra dunque volere sfuggire alla sorte toccata al’Iraq nel 2003 dopo essere stato sottoposto ad una lunga serie di sanzioni. Per evitare l’accerchiamento, o una possibile aggressione di Stati Uniti o Israele nel prossimo futuro, l’unica strada per il governo iraniano è quella di allentare le pressioni esterne e riannodare i fili dei rapporti con i paesi vicini. A cominciare proprio dal Libano, tradizionalmente terreno di incontro, ma anche di scontro, delle varie identità del mondo arabo.

di redazione

Pubblichiamo la lettera che Saeed Malekpour, un ingegnere iraniano arrestato nell'ottobre 2008, ha inviato dopo 368 giorni in confinamento solitario. Il prossimo 26 Ottobre la giustizia iraniana dovrà pronunciarsi sulla richiesta di condanna a morte per Saeed, con l'accusa di essere “Corruttore della Terra.” Saeed, che lavorava in Canada come web designer, è stato sequestrato al suo ritorno in Iran nel 2008 e da allora detenuto nella prigione iraniana di Evin, durante i quali ha subito innumerevoli torture fisiche e psicologiche pur non avendo commesso alcun tipo reato.

Il giudice ha negato Saeed il diritto di vedere il suo avvocato, di preparare una difesa e persino di leggere le carte del processo contro di lui. Dopo il suo sequestro da parte della Guardia Rivoluzionaria, fu costretto sotto tortura a firmare confessioni fasulle con la promessa di ottenere clemenza dai suoi accusatori, promessa poi disattesa. Quella che segue è l'ultima lettera che Saeed ha scritto dal carcere, per la quale è stato gettato di nuovo in isolamento totale da Marzo di quest'anno.

“Il mio nome è Saeed Malekpour. Sono stato arrestato il 4 ottobre 2008, vicino a piazza Vanak (nel nord di Teheran) da parte di agenti in borghese che non hanno esibito mandati di arresto o di identificazione. L'arresto assomigliava in tutto a un rapimento. Sono stato ammanettato, bendato e posto sul retro di una berlina. Una volta sull'auto, un agente corpulento ha premuto il suo peso su di me, posizionandomi il gomito sul coll e costringendo la mia testa in giù per tutta la corsa. Mi hanno trasferito in una località segreta che hanno chiamato "l'ufficio tecnico."

Quando siamo arrivati, alcuni agenti hanno pesantemente abusato di me sia verbalmente che fisicamente, mentre io ero ammanettato e bendato, mi hanno costretto a firmare alcuni moduli, benché non fossi in grado di leggerne il contenuto per la faccia pesta. Per giorni il mio viso è rimasto gonfio dai pugni, schiaffi e calci che ho ricevuto e il mio collo dolorante. Quella notte, sono stato trasferito al reparto 2A della prigione di Evin. Sono stato messo in una cella di isolamento di tre metri quadrati. Avevo il permesso di lasciare la cella soltanto due volte al giorno nelle ore stabilite per una pausa di aria fresca, ma sempre bendato. Gli unici momenti in cui mi veniva concesso di togliere la benda erano nella mia cella.

Ho trascorso 320 giorni (dal 4 ottobre 2008 al 16 agosto 2009), in isolamento, senza accesso a libri, giornali, o qualsiasi contatto con il mondo esterno. Nella cella, c'era solo una copia del Corano, una bottiglia d'acqua, tre coperte e una "Mohr" [un pezzo di argilla su cui gli iraniani sciiti pregano, ndt].Fino al 21 dicembre 2009, ho trascorso 124 giorni nel reparto comune di 2A. Non mi è mai stato concesso di incontrare la mia famiglia  durante la mia detenzione.

Durante i 444 giorni di prigionia, ho potuto incontrare la mia famiglia soltanto in presenza delle Guardie Rivoluzionarie. Gli agenti erano sempre presenti durante le visite. Non ho mai avuto il diritto di effettuare chiamate settimanali. Il personale penitenziario ascoltava ogni mia conversazione telefonia. Ogni volta che ho discusso il contenuto del mio caso con la mia famiglia, le chiamate sono state disconnesse. Durante i 444 giorni che ho trascorso in corsia 2A, la mia vita era sotto una minaccia costante, e non mi sono mai sentito al sicuro.

Il 21 dicembre 2009, sono stato trasferito di nuovo in isolamento, questa volta nel reparto 240 della prigione di Evin. Ho speso altri 48 giorni (fino al 8 febbraio 2010), in solitudine e senza il diritto di accesso al mondo esterno. A partire dall'8 febbraio, sono stato detenuto in reparti di medicina generale di Evin, prima nel reparto di 7 e poi nel 350. Finora, 12 mesi sui 17 della mia detenzione li ho spesi in isolamento, e non una volta mi è stato permesso di visitare il mio avvocato.

Durante questo tempo, e in particolare nei primi mesi, sono stato soggetto a varie forme di tortura fisica e psicologica da parte dell'unità di  "Contrattacco cibernetico della Guardia Rivoluzionaria." Alcune delle torture sono state eseguite in presenza di Moussavi, il magistrato del caso. Una gran parte della mia confessione è stata estratta sotto pressione della tortura, delle minacce a me e alla mia famiglia, e della falsa promessa di liberazione immediata se avessi comunicato una falsa confessione a tutto ciò che i torturatori dettavano.

La confessione davanti al magistrato è stata estratta in presenza dei torturatori. Per impedirmi di informare il magistrato che la mia confessione è stata ottenuta sotto pressione, i torturatori minacciavano che la tortura sarebbe peggiorata. A volte minacciavano di arrestare mia moglie e torturarla davanti a me. Nei primi mesi dopo il mio arresto, sono stato interrogato diverse ore sia di giorno che di notte. Gli interrogatori includevano anche gravi percosse. Le torture sono state effettuate sia nell' "ufficio tecnico" al di fuori del carcere che nell'ufficio interrogatori nell'ala 2A.

Il più delle volte le torture sono state eseguite da un gruppo di persone. Dopo avermi bendato e ammanettato, molti individui armati di cavi, manganelli e pugni mi picchiavano. A volte, mi torcevano la testa e il collo. Questi abusi erano volti a costringermi a scrivere quello che i torturatori stavano dettando, e di costringermi a impersonare una parte di fronte alla macchina da presa, sulla base della loro scenari. Qualche volta hanno usato una scossa elettrica estremamente dolorosa che mi paralizzava temporaneamente. Una volta, nell'ottobre 2008, i torturatori mi hanno spogliato mentre ero bendato e minacciato di stupro tramite una bottiglia d'acqua.

Uno di quei giorni, dopo essere stato preso a calci, pugni e frustato con dei cavi sulla mia testa, il mio viso si è gonfiato sempre più. Ho perso conoscenza diverse volte, ma ogni volta venivo svegliato da spruzzi d'acqua sul mio volto [per proseguire con la tortura]. Quella notte, tornai in cella. Alla fine della notte, ho capito che il mio orecchio stava sanguinando. Ho battuto sulla porta della mia cella, senza che nessuno si facesse vivo. Il giorno successivo, mentre metà del mio corpo era paralizzata, e non ero in grado di muovermi, mi hanno trasferito nella clinica del carcere di Evin.Sono rimasto da solo fino alle ventuno. Tre guardie alla fine mi hanno trasferito all'ospedale Baghiatollah. Sulla strada per l'ospedale, le guardie mi hanno detto che non mi era permesso di dare il mio vero nome, e mi ordinano di utilizzare l'alias Mohammad Saeedi. Mi hanno minacciato di gravi torture, se non seguivo i loro ordini.

Prima che fossi in condizioni di essere esaminato dal medico, una delle guardie si è appartata con il medico di turno al pronto soccorso, io sono entrato dopo pochi minuti. Il medico, senza eseguire alcun esame radiografico né dei semplici test, ha semplicemente dichiarato che il mio problema era stress. Ha scritto la sua diagnosi e prescritto un paio di pillole. Quando gli ho chiesto almeno di lavare il mio orecchio il medico ha detto che non era necessario. Sono tornato al centro di detenzione con il coagulo di sangue residuo nel mio orecchio. Per 20 giorni, la parte sinistra del mio corpo era paralizzata, e ho avevo poco controllo sul mio braccio sinistro e sui muscoli delle gambe. Ho avuto anche difficoltà a camminare.

Il 24 gennaio 2009, dopo essere stato oggetto di percosse violente, uno dei torturatori mi ha minacciato di tirare fuori un mio dente con un paio di pinze. Uno dei miei denti infatti è rotto e la mia mandibola è stata spostata dopo che ero stato preso a calci in faccia da lui. Tuttavia, le torture fisiche non sono nulla in confronto a quelle psicologiche. Ho sopportato a lungo il confino solitario (per un totale di più di un anno), senza telefonate o la possibilità di visitare i miei cari, subendo la costante minaccia che arrestassero e torturassero mia moglie e la mia famiglia, se non avessi collaborato. Mi hanno anche fornito notizie false riguardo ad un presunto arresto di mia moglie. La mia salute mentale è stata gravemente minacciata. Non ho avuto accesso a libri o riviste nelle celle d'isolamento. A volte, non parlerei con nessuno per giorni.

Le restrizioni e le pressioni psicologiche su di me e la mia famiglia sono cresciute a dismisura dopo la morte di mio padre, il 16 marzo 2009. Nonostante i funzionari fossero a conoscenza della sua morte, mi tennero nascosta la notizia per circa 40 giorni. Ho saputo della morte di mio padre solo durante una telefonata  a casa di cinque minuti.

Masoud, uno dei torturatori, scoppiò a ridere si prese gioco di me quando mi vide piangere per la morte di mio padre. Nonostante le mie suppliche, non mi fu permesso di partecipare al funerale di mio padre. Oltre alle torture psicologiche, una delle Guardie Rivoluzionarie in modo del tutto illegale e contrario ai principi religiosi ha ritirato alcuni depositi dal conto della mia carta di credito. Hanno anche ottenuto il mio conto Paypal. Non sono sicuro di quello che ne hanno fatto.l medico, dopo aver visto la mia condizione, ha sottolineato che avrebbero dovuto trasferirmi ad un ospedale. Tuttavia fui riportato alla mia cella

Un altro esempio di tortura psicologica è stata la messa in scena davanti alla telecamere di un copione dettato dalle Guardie Rivoluzionarie. La squadra di torturatori mi aveva promesso che questi film non sarebbero mai stati trasmessi in TV, e sarebbero serviti ai funzionari del regime per ricevere un budget maggiore per il loro progetto "Gerdaab.” Tuttavia, ho scoperto in seguito che i film sono stati mostrati più volte alla televisione di stato durante il servizio funebre per il settimo giorno dalla morte di mio mio padre, provocando un forte dolore alla mia famiglia. Mia madre subì un attacco di cuore dopo aver visto la mia foto e le false confessioni in televisione. Alcune delle confessioni che mi hanno costretto a fare sono talmente ridicole e inverosimili che non sono nemmeno possibili fisicamente.

Per esempio, mi hanno chiesto di confessare falsamente di aver acquistato del software dal Regno Unito e di averlo pubblicizzato sul mio sito web con lo scopo di venderlo. Sono stato costretto ad aggiungere che se qualcuno visitasse il mio sito web, tale software verrebbe installato sul suo computer all'oscuro del visitatore e che prenderebbe il controllo della webcam, anche quando la webcam è disattivata. Nonostante avessi detto loro che ciò che mi stavano chiendendo di confessare era impossibile da un punto di vista tecnologico, hanno risposto che non dovevo mi occupo di queste cose.

Mi era stato promesso in presenza del magistrato incaricato della causa che, se avessi partecipato alla loro falsa confessione televisiva, mi avrebbero liberato con la condizionale o su cauzione fino alla data del processo. Hanno anche promesso che avrei potuto godere della massima clemenza da parte dell'accusa. Mi era stato promesso che avrei ricevuto un massimo di due anni di carcere. Queste promesse sono state ripetute molte volte, però, dopo la fine delle riprese, nessuno ha onorato le promesse.

Sulla base delle informazioni di cui sopra, sono stato sottoposto a varie forme di tortura psicologica e fisica in violazione dei commi 1-9, 14-17 e dell'articolo 1 della legge sull'abolizione della tortura, approvata dal Parlamento nel 2004. Ai sensi dell'articolo 4 della legge, le confessioni che ho fatto non sono ammissibili, e ho fatto la maggior parte delle confessioni per alleviare la pressione sulla mia famiglia e i miei amici.

Dopo 17 mesi di detenzione "temporanea," sono ancora in uno stato di limbo. Non mi è mai stato permesso di incontrare il mio avvocato. Date le dimensioni del caso, e la natura delle accuse contro di me, ho bisogno di un esperto di computer di fiducia da parte della magistratura, con accesso al mio avvocato. Ho anche bisogno di un luogo dotato di strutture tecniche (come Internet) per preparare la mia difesa. Pertanto, vorrei chiedere che la mia richiesta per quanto riguarda il rilascio su cauzione sia esaudita, e che mi sia fornito accesso alle strutture di cui sopra.

Saeed Malekpour

(traduzione di Luca Mazzucato)

di Eugenio Roscini Vitali

Trenta giorni per salvare i negoziati di pace israelo-palestinesi, altrimenti saranno abbandonate tutte le trattative fino ad ora intraprese: questo è quanto ha concesso agli Stati Uniti la Lega Araba, riunitasi l’8 ottobre scorso a Sirte dopo la ripresa della colonizzazione israeliana in Cisgiordania. L’ultimatum arriva in un momento in cui nella Regione il contesto politico è particolarmente teso e mette alle corde l’amministrazione Obama, alla quale è stato chiesto di fare pressioni sullo Stato ebraico affinché prolunghi la moratoria sugli insediamenti scaduta il 26 settembre scorso.

Al vertice arabo era presente il presidente palestinese Abu Mazen, che durante il suo intervento ha accusato Israele di aver spogliato Ramallah di gran parte dei suoi già limitati poteri, intromettendosi giornalmente nelle aree controllate dalle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp): «Israele ha di fatto cancellato l’accordo di Oslo e tutti gli altri accordi firmati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina».

Al termine dell’incontro il capo negoziatore palestinese, Saeb Erakat, ha confermato che, qualora i negoziati con Israele dovessero fallire, Abu Mazen sarebbe pronto a percorre altre strade: chiedere a Washington di riconoscere uno Stato palestinese entro la zona denominata “Sessantasette” (Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est); chiedere all'Assemblea generale dell'Onu di porre i Territori occupati sotto tutela internazionale o, come ha riferito Salih Rafat, membro del Comitato esecutivo, preparare un piano per portare la questione dell’espansione edilizia israeliana in Cisgiordania di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Intanto il Presidente palestinese ha raccolto il consenso di Fatah e del gruppo dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) che, con il sostegno di due terzi della popolazione, ha già approvato una mozione con la quale appoggia la decisione presa dall’Autorità palestinese sul ritiro dai negoziati diretti con Israele.

Sul fronte opposto le premesse non sono rassicuranti: nel discorso di apertura della sessione invernale della Knesset il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, ha lanciato l’ipotesi di una nuova moratoria degli insediamenti, ma solo in cambio del riconoscimento palestinese di Israele come stato ebraico. Una richiesta che Abu Mazen ha definito “inaccettabile” e che, secondo Erakat, è del tutto forviante: «Quest’ordine non ha niente a che fare con il processo di pace o con gli obblighi non rispettati da Israele».

Qualsiasi decisione del governo israeliano dipende comunque dal sostegno del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, e da quello del ministro dell’Edilizia, Ariel Atias, entrambi appartenenti alla destra sionista più radicale. Le idee del leader del partito, Yisrael Beiteinu, sono note e secondo alcuni deputati del partito Shas, anche Atias appoggerebbe il ministro dell’Interno, Eli Yishai, forte oppositore dello stop alle colonie.

E’ quindi evidente che alla fine Netanyahu dovrà fare i conti con i membri del suo stesso governo e con quella parte dell’Esecutivo che pretende vengano rispettati gli impegni sottoscritti dall’amministrazione Bush nel 2004; vale a dire annessione da parte di Israele dei grandi blocchi di colonie al di là della Linea Verde stabilita nel 1949 dagli accordi di Rodi.

Se politicamente si può parlare di stallo, la situazione sulle strade della Cisgiordania è tutt’altro che confortante. Dalla fine dello stop imposto all’espansione edilizia negli insediamenti ebraici in Cisgiordania i coloni hanno avviato la costruzione di 350 nuove unità residenziali: lavori di ampliamento nella colonia di Eli, a sud di Nablus, e in quella di Maskiout, nella Valle del Giordano; trentaquattro nuove case a Kiryat Arba, cinquantaquattro unità ad Ariel, lavori di assestamento del terreno a Kadumim e Karmei Tzur e un piano edilizio pronto per essere messo in atto ad Adam, Matityahu, Nili, Nariya, Revava e Kfar Adumim.

A questo si aggiunge il problema della confisca dei terreni e la demolizioni delle case abitate dalla popolazione araba, come le 110 abitazioni palestinesi nel quartiere di Silwan che nell’arco di qualche settimana dovrebbero essere abbattute, o la demolizione delle moschee, come quella del villaggio di Burin.

Fatti di tutti i giorni le cui conseguenze sono sempre le stesse: scontri, gas lacrimogeni, proiettili di gomma e sassaiole, seguite da campagne di arresti di massa, come quella ordinata alla polizia di Gerusalemme dal ministro della Sicurezza nazionale di Israele, Yitzhak Aharonovitch, che nel tentativo di impedire gli attacchi contro i coloni, attacchi rivendicati dalle brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, e dalle brigate al-Aqsa del movimento di Fatah e al-Quds del movimento del Jihad Islamico, che negli ultimi mesi hanno causato numerose vittime, ha deciso di blindare gli enclavi ebraici.

Secondo il Centro per gli studi dei prigionieri di Ramallah, nell’ultimo anno le truppe israeliane avrebbe aumentato la pressione sulla popolazione palestinese a tal punto che il numero degli arresti ai posti di blocco risulterebbe raddoppiando, così come le perquisizioni notturne e le irruzioni occasionali.

Dai report pubblicati dalle associazioni per i diritti umani, in Cisgiordania negli ultimi 12 mesi lo Tsahal avrebbe fermato 4.320 persone e, nonostante i continui rilasci, nelle carceri israeliane sarebbero ancora rinchiusi 6.800 palestinesi; circa 5.000 sarebbero invece i profughi ai quali non verrebbe neanche riconosciuta l’identità palestinese e per questo non sarebbero autorizzati a rientrare in Cisgiordania.

Per l’Ufficio centrale di statistica palestinese, negli ultimi anni il numero di coloni ebrei è aumentato drasticamente: alla fine del 2009 se ne contavano 517.774, distribuiti in 144 insediamenti, 26 dei quali costruiti a Gerusalemme Est; rispetto all’anno precedente l’aumento sarebbe stato del 3,4% ma se si prende in esame il 1972 la presenza ebraica in Cisgiordania è aumentata di 40 volte.

Per più di mezzo secolo l’Aliya, l’immigrazione ebraica verso Israele, è stata considerata come il principale strumento del progetto sionista e, anche se prima della crisi economica internazionale “l’assorbimento” sembrava destinato a scemare, ora si può parlare di vera e propria controtendenza.

Secondo l’Agenzia ebraica nel 2010 il numero degli ebrei arrivati dal nord America sarebbero aumentato del 20%; nel 2009 i nuovi ingressi erano cresciuti del 17%, 16.200 persone contro le 13.860 dell’anno precedente; nell’ultima decade sarebbero 221.000 gli ebrei entrati in Israele, più di 3 milioni quelli immigrati dal 1948 ad oggi nel “nuovo Stato”.

 

di Michele Paris

Qualche giorno fa la commissione presidenziale d’inchiesta sull’esplosione della piattaforma petrolifera della BP nel Golfo del Messico lo scorso mese di aprile, ha reso note le prime conclusioni della propria indagine. Secondo gli investigatori nominati dalla stessa amministrazione Obama, il governo americano avrebbe intenzionalmente nascosto all’opinione pubblica la vera entità della fuoriuscita di greggio, ostacolando, di fatto, un’adeguata risposta a quello che sarebbe poi diventato uno dei più seri disastri ecologici degli ultimi decenni.

“Sottostimando la quantità di petrolio fuoriuscito inizialmente e, successivamente, alla fine dell’estate, minimizzando la quantità di greggio rimasto nel golfo, il governo federale ha dato l’impressione di non essere pienamente in grado di gestire la perdita o di voler nascondere agli americani le dimensioni del disastro”. Così si conclude una delle quattro relazioni della commissione insediatasi nel mese di giugno e che dovrà presentare un rapporto finale alla Casa Bianca agli inizi del prossimo anno.

La strategia del governo per coprire le responsabilità della BP nel disastro che ha causato la morte di 11 lavoratori impegnati sulla piattaforma Deepwater Horizon era stata messa in atto già nei giorni successivi al 20 aprile. Pubblicamente, infatti, la Casa Bianca ha continuato a lungo a sostenere che la fuoriuscita di greggio ammontava appena a cinquemila barili al giorno. A questo scopo venne anche impedito all’agenzia federale che si occupava di monitorare gli effetti del disastro (NOAA) di rendere pubbliche le proprie stime relative alla perdita, ovviamente ben superiori a quelle del governo.

Grazie al lavoro di qualche ricercatore indipendente, nonostante gli ostacoli incontrati per accedere alle informazioni necessarie, la vera entità della fuoriuscita sarebbe stata rivelata molto più tardi e fissata attorno ai 60 mila barili al giorno, per un totale di petrolio versato nelle acque del Golfo del Messico non inferiore ai 5 milioni di barili. Un quantitativo venti volte superiore al già enorme disastro causato dalla Exxon Valdez in Alaska nel 1989. Il pozzo situato ad una profondità di oltre un miglio sarebbe stato infine chiuso il 15 luglio e definitivamente sigillato alla fine di settembre.

Nel mese di agosto, poi, esponenti dell’amministrazione Obama cercarono nuovamente di manipolare la realtà dei fatti nel golfo, annunciando trionfalmente che i tre quarti del petrolio fuoriuscito si era già dissolto oppure era stato raccolto dalle petroliere. Un’affermazione totalmente inattendibile, nel tentativo di esaltare gli sforzi del governo per combattere il disastro e limitare gli effetti devastanti sull’ecosistema del Golfo del Messico.

Anche in questo caso, sarebbe toccato a biologi e oceanografi svincolati da ogni legame con il governo o con la BP smentire le stime ufficiali. Circa la metà del greggio fuoriuscito rimarrebbe infatti tuttora sospeso nelle acque del golfo, sepolto in profondità o depositato sulle coste meridionali degli Stati Uniti e, solo, per conoscere il reale impatto del disastro ecologico saranno necessari ancora molti mesi, se non anni.

Se l’amministrazione Obama in seguito all’esplosione della piattaforma della BP emise una moratoria per le trivellazioni dei pozzi situati nelle acque più profonde della propria piattaforma continentale, l’intera risposta al disastro è stata indirizzata praticamente alla salvaguardia dell’immagine della corporation britannica.

A guidare la stessa commissione d’inchiesta sulla fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico ci sono personalità dal curriculum discutibile, come William K. Reilly - ex direttore dell’Agenzia di Protezione Ambientale (EPA) sotto Bush senior e membro del consiglio di amministrazione del gigante petrolifero ConocoPhillips - e l’ex senatore democratico ed ex governatore della Florida Bob Graham, da sempre acceso sostenitore della deregulation.

Per proteggere gli interessi della BP ed evitare un conto troppo salato in fase di risarcimento, il presidente Obama ha infine da qualche tempo chiesto ai vertici della compagnia petrolifera l’accantonamento di 20 miliardi di dollari per coprire i danni provocati. Una cifra del tutto inadeguata, nonché in gran parte detraibile dalle tasse, che eviterà alla BP di risarcire interamente gli effetti del disastro provocato da una politica aziendale che pone il profitto al di sopra di qualsiasi scrupolo per l’ambiente e la sicurezza dei propri dipendenti.

Dall’esplosione della scorsa primavera, d’altra parte, nessun dirigente della BP è stato arrestato, indagato o licenziato per i fatti accaduti nel Golfo del Messico, nonostante la documentata negligenza della compagnia nella gestione della piattaforma Deepwater Horizon e in numerose altre installazioni petrolifere negli Stati Uniti e altrove. Ciò è stato possibile solo grazie all’azione tempestiva di un governo che si è adoperato in tutti i modi per difendere la corporation britannica fino a nascondere ai propri cittadini la verità sul disastro ambientale più grave della storia americana.


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