di Mario Braconi

La giustizia degli Stati Uniti sta procedendo segretamente con l’ipotesi di spionaggio contro Assange e Bradley Manning, il militare americano sospettato di aver sottratto dai sistemi informatici della Difesa e girato a Wikilealks decine di migliaia di documenti riservati. Lo si è saputo ufficialmente solo quando, lo scorso 8 gennaio, il NYT ha pubblicato una “storia” secondo la quale gli investigatori degli Stati Uniti si sono rivolti a Twitter (la piattaforma di microblogging) per ottenere dati relativi agli account delle seguenti persone (oltre ovviamente ad Assange e Manning): Rop Gonggrijp (un hacker olandese), Birgitta Jonsdottir e Jacob Appelbaum (cittadino americano, sviluppatore per TOR, software che protegge la privacy di chi naviga su internet in modo anonimo, registrato sul social network con lo pseudonimo “ioerror”).

Le pretese avanzate dai pubblici ministeri americani lo scorso 14 dicembre sono brutali: infatti intimano a Twitter di rivelare generalità ed indirizzi elettronici collegati alle utenze oggetto di indagine, lunghezza dei collegamenti, IP impiegati (anche se temporanei), dati relativi a all’account (ad esempio gli indirizzi email e indirizzi IP dei destinatari). In poche parole, quello che gli inquirenti vogliono è: primo, carpire in qualche modo l’identità di chi ruota attorno al mondo di Wikileaks (sembra quindi stiano mirando ad identificare anche tutti gli altri utenti del social network che “seguono” Wikileaks); secondo, grazie all’analisi dei dati di collegamento, comprendere dove i membri e gli “amici” di Wikileaks si trovano (l’indirizzo IP, il provider, il fatto che ci si colleghi con una chiavetta o in wi-fi oppure alla LAN di un albergo sono infatti elementi rivelatori in questo senso).

Come conclude eufemisticamente l’elegante NYT “non è del tutto chiaro a prima vista in che modo i dati richiesti potrebbero essere di utilità agli investigatori”, mentre sembra che abbia colto nel segno Mark Stephens, l’avvocato di Assange in Gran Bretagna, quando ha dichiarato alla BBC: “Gli americani stanno scuotendo l’albero elettronico, nella speranza che alla fine un qualche capo di accusa finisca per cader loro vicino”. Cosa che segnala una disperata frustrazione.

Che gli Americani siano abituati a non andare troppo per il sottile quando si tratti di argomenti che ritengono loro interesse nazionale è cosa talmente nota da essere diventata un cliché. Un piccolo esempio che denota quella pericolosa miscela di sciatteria e cieca determinazione per cui la loro amministrazione è nota in tutto il globo: lo spelling del nome di uno delle persone sotto indagine è stato scritto male. Ma questa volta, forse si sono spinti un po’ oltre: non si sono resi conto, sembra, che Birgitta Jonsdottir è una rappresentante del Parlamento dell’Islanda, un Paese che non risulta essere un possedimento coloniale degli Stati Uniti d’America.

E in effetti l’irata reazione del ministro degli Esteri islandese Oessur Skarphedinsson non si è fatta attendere: “A quanto mi risulta dai documenti in mio possesso, una parlamentare di questo paese è indagata senza alcuna ragione nell’ambito di un procedimento penale negli Stati Uniti”, ha dichiarato alla radio pubblica islandese. “E’ intollerabile che un rappresentante regolarmente eletto venga trattato in questo modo”, ha aggiunto. Tuttavia, pei rappresentanti della giustizia americana, la Jonsdottir è tutt’altro che innocente: ci sarebbe, infatti, anche il suo zampino dietro la pubblicazione sul web del primo (e migliore) degli scoop di Wikileaks: la video-testimonianza dell’assassinio di una dozzina di civili iracheni il 12 luglio 2007 da parte dell’equipaggio di un Apache americano, pubblicato dalla creatura di Assange il 5 aprile 2010.

Motivo sufficiente per muovere l’artiglieria pesante, ignorando bellamente le garanzie che normalmente spettano a un parlamentare in qualsiasi Paese. E’ appena il caso di rilevare lo strabismo della “giustizia” americana, tanto aggressiva nei confronti di cittadini stranieri, quanto renitente se si tratti di crimini commessi da militari americani fuori dal sacro suolo a stelle e strisce (si pensi solo alle assurde mistificazioni cui si è stati costretti ad assistere nel caso Calipari e in quello della strage del Cermis, per i quali, grazie alla “giustizia” made in the USA, nessun militare americano ha pagato per i suoi errori).

A ben vedere, fa pensare anche lo strumento tecnico impiegato dal Giudice Theresa Buchanan di Alexandra, una cittadina della Virginia di sole 150.000 anime. Innanzitutto, la richiesta d’informazioni a Twitter del 14 dicembre era concepita per rimanere segreta; tuttavia, probabilmente a seguito dell’offensiva di rimando dei legali di Twitter, decisi a dimostrare l’illegalità del mandato (subpoena, in inglese), la Buchanan ha dovuto cedere e consentire la sua pubblicazione, in modo che le persone coinvolte ne fossero portate a conoscenza.

L’iniziativa dei legali di Twitter è stata lodata ufficialmente da uno degli indagati, l’hacker olandese Gonggrijp (“Gongrijp”, secondo il documento americano). Questo il suo commento al NYT: “Sembra che Twitter, per policy interna, si attenga alla corretta procedura di informare i suoi utenti quando uno di questi personaggi bussa alla porta. Solo Dio sa quanti altri (ISP, social network, eccetera…ndr) hanno ricevuto mandati di questo tipo senza che lo sapessi e i provider hanno trasmesso in silenzio tutto quello che mi riguardava”. Il che, per inciso, dimostra come la maggior parte delle invasioni governativa nella privacy dei cittadini su internet avvengano senza reazione semplicemente perché gli interessati non ne sanno nulla.

Il giudice Buchanan, infine, ha impiegato una fattispecie di subpoena (il 2703 d), che prevede letteralmente l’obbligo di fornire “tutti i record” e “tutta la corrispondenza” da e per gli account sotto osservazione: questo sembrerebbe includere anche il contenuto di messaggi come quelli che si mandano su Twitter o post (“tweet”, o cinguettii, in gergo) inviati da un account non pubblico. Pare che questo elemento offra il fianco a una possibile incostituzionalità del subpoena 2703 (d), come del resto stabilito dal pronunciamento di una Corte d’Appello americana dello scorso dicembre: in quel caso, la Corte decise che l’impiego del 2703 (d) nei confronti di un tale signor Warshak - milionario grazie al suo “magico” prodotto per l’estensione del pene, rivelatosi non proprio efficacissimo - era illegale, a meno che non fosse preceduto da un mandato di perquisizione.

La cosa che insospettisce è che, stranamente, il pronunciamento citato non è vincolante né in Virginia (dove il subpoena è stato emesso), né a San Francisco (dove ha sede Twitter). Insomma, anche se chi sta cercando di farla pagare ad Assange non è propriamente uno sprovveduto, pare che di questo passo non riuscirà a fare molto di più che rinfocolare il diffuso sentimento antiamericano.

di Fabrizio Casari

Quanto accaduto in Arizona propone con forza una domanda: fin dove può arrivare la follia della destra americana? C'é da dire che il contesto nel quale si è consumata la strage ad opera del fanatico razzista è terribile. L’Arizona, che ha da poco legiferato una legge sull’immigrazione dichiarata illegale dagli stessi tribunali statunitensi, è ormai la patria del fanatismo ideologico razzista; una miscela di segregazionismo, antistatalismo e darwinismo condita da una retorica bellica antisistema. La sua stessa comunicazione elettorale invita all’uso delle armi contro gli avversari politici, giammai riconosciuti come portatori di progetti diversi (e nemmeno poi così spesso) ma rapidamente etichettati come “socialisti”.

E’ la pancia profonda di un sistema in crisi che non cerca risposte praticabili ma propone uno stato di guerra permanente contro tutto e tutti. Non si tratta solo dell’estremismo liberale, della deformazione ignorante delle tesi antistataliste per l’autoregolamentazione del libero mercato, del rifiuto delle politiche d’integrazione e della salvaguardia dei diritti collettivi sanciti dalla Costituzione. La nuova destra è fanatica e oltranzista, infarcita di razzismo e d’integralismo religioso.

Certo, c’è chi con il giochetto del Tea-party si arricchisce, chi si costruisce carriere politiche altrimenti impensabili anche in un paese così analfabeta, dove la comunicazione è talmente elementare e priva di senso da far impallidire anche i leghisti nostrani. Ma soprattutto emerge una rappresentazione concreta di un settore della società americana che è divenuta famosa con il marchio del Tea-party, ma che in realtà è un concentrato di fascismo sociale difficile da riscontrare altrove.

Negli Stati Uniti si può morire per essere favorevoli all’aborto, per difendere l'ambiante, per essere contrari alla libera vendita delle armi o anche solo per chiederne l’obbligo di registrazione. E’ l’America del proliferare continuo delle sette religiose, aiutate dalla crisi d’immagine che ha colpito il Vaticano a seguito degli scandali della pedofilia. E’ la proliferazione delle aggregazioni locali fondate sul secessionismo negli stati del Sud, dove organizzazioni apertamente naziste e ripristinatori del Ku-Kux-Klan si fondono.

Sono organizzazioni identitarie, che nel loro dichiarare guerra ad ogni manifestazione della vita democratica del paese, lanciano una chiamata alle armi contro il virus della modernità. Modernità che per loro è sintomo minaccioso della partecipazione popolare che può colpire nel profondo l’America bianca, ricca e armata. proprio quella alla quale appartiene Jesse kelly, l'ex marine avversario della Giffords, che invitava i suoi elettori a farla fuori "scaricando un caricatore di M-16".

Certo, la follia estremista della destra americana viene da lontano e non ha esclusivamente la cittadinanza USA. La degenerazione politica e ideale determinata da una globalizzazione priva di governance non riguarda solo gli Stati Uniti: la crescita dell’odio xenofobo e l’ulteriore diffondersi del revisionismo storico, che favorisce la rinascita dei gruppi nazisti, è questione che riguarda anche l’Europa, che insieme alla memoria sembra perdere anche la decenza.

Del resto, se un governo come quello ungherese promulga una legge che vieta le opinioni alla vigilia del suo semestre di presidenza della Ue, se quello turco (che chiede di entrare nella stessa Ue) seppellisce sotto anni di carcere i curdi che non riesce a seppellire sotto terra e quello lituano rimembra con nostalgia il passato ustascia, non è responsabilità della crisi americana. Perlomeno, non solo. Ma ovunque appare conclamata la fine di un’identità dei moderati e dei conservatori e questo, comunque, è un elemento che trova comunanze e simmetrie europee con il contesto socio-politico statunitense.

Quella che sembra non trovare più spazio in Europa, ma soprattutto nella politica oltreoceano, è infatti proprio l’esistenza di una destra moderata. Ma la crisi profonda della leadership internazionale statunitense, che per i repubblicani ha anche significato la sconfitta elettorale, ha trascinato i conservatori - che di quella destra sono stati laboratorio e pensatoio, si pensi ai newcon - in una crisi politica alla quale hanno scelto di reagire cavalcando la destra oltranzista americana. Lo scopo è tornare quanto prima al governo, costi quel che costi.

La destra ha deciso che, vista la decadenza dell’impero e vista anche la retromarcia delle sue proposte, s’imponeva riformulare il proprio messaggio politico proprio su quella decadenza, per trasformare quel popolo fanatico e disperato nel nuovo ancoraggio elettorale su cui poggiare la riscossa anti-Obama. Il razzismo intrinseco degli stati del Sud è stato uno degli elementi sui quali la riscossa repubblicana ha puntato particolarmente. Georgia, Texas, Mississipi, Luisiana, Arizona, New Mexico, sono Stati nei quali il razzismo verso i neri e gli ispanici ha radici secolari. Ed anche nella crisi economica, le politiche anti-migratorie sono state condite tanto dalla necessità di mantenere nell’illegalità mercato del lavoro, così da poterlo sfruttare meglio, quanto da un odio viscerale per “lo straniero”, chiunque esso sia e da qualunque parte esso provenga.

Di razzismo becero e ignorante si tratta. Potremmo approfondire ulteriormente l’analisi storica e sociologica sugli stati del Sud, dalla storia del latifondo e della schiavitù fino alla conquista dei diritti costituzionali per i neri, ma di razzismo e di odio di classe si tratta. Non a caso uno dei catalizzatori di odio verso l’inquilino della Casa Bianca è proprio il colore della sua pelle. Centinaia di editoriali hanno spiegato in questi due anni scorsi quanto fosse maturata ed evoluta l’America che sceglieva un colored per la Casa Bianca, dimenticandosi però di sottolineare come proprio l’America più profonda veda nel consegnare la Casa Bianca ad un uomo di origini africane a religione musulmana come il definitivo affronto all’identità americana bianca e cristiana. Da qui la fine di ogni possibile mediazione, la testimonianza in sé dell’avvento dell’Apocalisse.

Solo in una cornice come questa poteva trovare spazio un personaggio di infimo ordine come Sarah Palin, che spiegava come la Giffords fosse una dei venti seggi da conquistare apponendo immagini da mirino di fucile. Un caso, certo, ma a quale persona normale sarebbe venuta in mente una simile associazione tra il mirino di un fucile ed un avversario politico? E stiamo parlando di colei che sarebbe potuta diventare Vicepresidente degli Stati Uniti!!

La crisi profonda del suo sistema valoriale (o il suo emergere senza ipocrisie) accompagna la crisi di leadership internazionale, vittima delle sconfitte del suo presidente che è, oggettivamente, risultato incapace di mantenere anche solo la metà di quanto promesso. E non ci si riferisce solo all’aspetto onirico della sua comunicazione politico-elettorale, ma proprio alle indicazioni programmatiche aventi per oggetto l’economia, la politica estera, i diritti civili.

Dall’Iraq non si esce e in Afghanistan si aumenta il contingente. Guantanamo non si chiude e i rapporti con l’America Latina sono privi di qualunque novità positiva. La diplomazia (messa alla berlina da Wikileaks) e l’intelligence collezionano figuracce a livello planetario. Le crisi internazionali sono dove e come Obama le aveva trovate. Le banche vengono salvate e i posti di lavoro non arrivano. La riforma sanitaria si è concretizzata come un aumento poco significativo delle risorse a disposizione della sanità pubblica, mentre il bilancio delle spese militari ha raggiunto il record storico proprio l’anno scorso.

L’amministrazione di Barak Obama, che al momento appare in preda a difficoltà insormontabili, stante l’abilità del manovratore, rischia di presentare nel secondo biennio del suo primo mandato un conto salato da pagare al sogno e all’illusione che a Washington poteva iniziare un’altra epoca per la storia del gigante a stelle e strisce. La crisi di popolarità di Obama la si coglie anche tra i delusi dall’attesa di un cambiamento che non è mai giunto, tra coloro che pensavano fosse arrivato l’uomo giusto al momento giusto per cambiare davvero.

Per invertire la tendenza, per mettere all’angolo le forze oscure della reazione americana, Obama dovrebbe dimostrarsi capace di politiche sociali e di rotture significative con l’establishment e i gruppi di potere che comandano a Washington. Al momento, però, sembra impossibile uno scatto di reni da parte di Obama, prigioniero delle lobbies e degli equilibri di potere. Resta perciò l’amarezza per quello che è, così diverso da quello sembrava potesse essere. Per un presidente che in campagna elettorale appariva un visionario e che dopo due anni si rivela solo un discreto funzionario.

di Carlo Musilli

Alcuni lo venerano come il salvatore, per altri è solo un delinquente sanguinario. L'imam Moqtada al-Sadr, leader radicale sciita, è tornato in Iraq la settimana scorsa dopo tre anni di esilio volontario in Iran. Per celebrare l'evento, migliaia di seguaci da ogni angolo del paese si sono ritrovati a Najaf, una delle città più sacre dell'Islam, a 160 chilometri da Bagdad.

Sabato scorso, una folla si è ammassata sul selciato davanti alla sua abitazione, dove l'imam ha tenuto il primo discorso pubblico dopo il rientro in patria. All'inizio sembrava che volesse riprendere esattamente da dove aveva lasciato: "Siamo ancora combattenti e diciamo no agli Stati Uniti". Parole dure non solo per gli americani, ma anche per israeliani e inglesi, "nostri comuni nemici". "Resisteremo sempre all'occupazione - ha continuato il leader sciita - militarmente e con ogni altro mezzo".

Fin qui, tutto da copione. Poi, finalmente, qualcosa di nuovo. Al-Sadr ha chiesto al suo popolo di concedere una possibilità al nuovo governo di Nouri al-Maliki, insediato lo scorso 21 dicembre dopo 9 mesi di trattative. "Se serve il popolo e la sua sicurezza - ha detto l'imam riferendosi al primo ministro - noi siamo con lui. Se non lo facesse ci sono vari modi per sistemare le cose, ma sono solo politici".

Non stupisce l'appoggio all'esecutivo, considerando che alle elezioni politiche del marzo scorso il Movimento Sadrista guidato dall'imam ha piazzato 39 uomini in parlamento e altri 7 sulla poltrona da ministro. Piuttosto, è significativo il riferimento ai modi "solo politici". Al-Sadr ha perfino affermato che l'uso della forza è prerogativa degli "uomini d'armi", riconoscendo implicitamente l'autorità dell'esercito e della polizia iracheni.

E' evidente la volontà di lanciare un segnale: il Movimento Sadrista non è più quello di un tempo. Può stare tranquillo chi temeva di veder ricomparire l'Esercito del Mehdi, la milizia sciita creata otto anni fa da Al-Sadr per combattere contro le truppe americane. Lo stesso Esercito è stato accusato di aver compiuto diverse stragi durante il conflitto civile fra sciiti e sunniti seguito alla caduta di Saddam. Ma "il nostro braccio non toccherà nessun iracheno - ha rassicurato ancora l'imam - contrasteremo solo l'occupazione, con ogni mezzo di resistenza. Noi siamo un popolo. E non siamo d'accordo con i gruppi responsabili degli eccidi".

Eppure, fino a qualche anno fa, la storia era diversa. Figlio di Mohammed Sadeq al-Sadr, un ayatollah venerato in tutto il mondo islamico, Moqtada al-Sadr era considerato una delle figure più estremiste e spietate dell'Iraq. Alla guida di un grande movimento populista emerso dopo l'invasione delle truppe internazionali, è riuscito meglio di altri leader a presentarsi contemporaneamente come punto di riferimento religioso e politico.

Ancora oggi gode del seguito di un'ampia base e sa benissimo come infiammare la piazza. Rimane antiamericano, fondamentalista e nazionalista. Ma non più rivoluzionario come prima: ora sa di essere l'ago della bilancia. Sa di essere indispensabile  per tenere in piedi il governo, per legarlo al territorio e alla popolazione sciita.

I sadristi si presentano adesso come un movimento più maturo e disciplinato. Si rendono conto finalmente di quanto convenga appoggiare il nuovo governo Al-Maliki, lo stesso che fino a non molto tempo fa liquidavano come un "giocattolo" in mano agli americani. Nei prossimi mesi la scommessa è di fare il salto definitivo, trasformando quello che ancora oggi ha molti tratti del movimento di strada in un partito politico vero e proprio.

Nel frattempo, dagli Stati Uniti arrivano segnali tiepidi. James Jeffrey, ambasciatore americano a in Iraq, ha detto di non aver ancora visto alcuna prova che i sadristi abbiano rinunciato all'idea di usare la forza contro i loro oppositori. Secondo fonti militari citate dalla stampa americana, inoltre, durante i mesi di negoziati seguiti alle elezioni presidenziali del marzo 2010, i diplomatici Usa erano molto preoccupati dalla possibilità che il Movimento di Al-Sadr svolgesse un ruolo nel nuovo governo.

Di fronte agli insulti e alle ripetute minacce ricevute dal leader sciita, in ogni caso, sembra che gli americani preferiscano aspettare e guardare. Più si alzano i toni a Najaf, più si abbassano a Washington. Anche questo è un bel cambiamento rispetto al passato. Se nel 2004 un portavoce americano a Bagdad aveva descritto Al-Sadr come "un teppista da quattro soldi", pochi giorni fa Philip Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato, si è messo il silenziatore alla bocca e l’ha definito, con indimenticabile eufemismo, "il leader di un partito politico iracheno che alle elezioni ha ottenuto un certo numero di seggi".

 

di Eugenio Roscini Vitali

Nell’agenda dei paesi mediorientali il nucleare è ormai uno dei punti di maggiore interesse e, in questa ottica, l’Arabia Saudita è senza dubbio il paese più attivo. O almeno quello che nelle ultime ore sembra essere il più deciso ad utilizzate l’atomo non solo per produrre energia civile ma anche, e soprattutto, per contrastare l’egemonia militare iraniana in abito regionale.

Secondo quanto pubblicato dal sito d’intelligence israeliano Debka, Ryadh starebbe consolidando con il Pakistan la collaborazione militare iniziata alcuni anni fa e ora sarebbe sul punto di acquisire da Islamabad due bombe atomiche e un lotto di missili balistici a medio raggio, come l’ultima versione dei Ghauri-II, vettore con range operativo di 2300 chilometri e testata da 750-1200 chilogrammi prodotto nella provincia del Punjab dall’industria bellica Kahuta Research Laboratories (KRL).

Mentre i due ordigni nucleari non avrebbero ancora lasciato la base aerea di Kamra, distretto settentrionale di Attock, nel Pakistan settentrionale, un numero non precisato di Ghauri-II sarebbe già stato consegnato e stoccato nei silos sauditi di Al-Sulaiyil, complesso missilistico situato 500 chilometri a sud della capitale.

Il fatto che Ryadh fosse in procinto di munirsi di armi atomiche era in parte trapelato dalle dichiarazioni di alcuni funzionari sauditi, che nelle settimane scorse, durante un giro di riunioni all’estero, hanno più volte ribadito come il Regno abbia per ora preferito rivolgersi ad altre fonti piuttosto che dotarsi della capacità di costruire un proprio arsenale nucleare.

Secondo le fonti israeliane il sospetto che le due bombe atomiche stiano per lasciare la Repubblica Islamica è confermato comunque dalla permanenza di due grossi velivoli da trasporto parcheggiati da alcuni giorni sulle piazzole si sosta dell’aeroporto di Kamra. Gli aerei, civili e sprovvisti d’insegne di riconoscimento, sarebbero pronti al decollo, ma per effettuare il volo l’equipaggio avrebbero bisogno di un doppio codice di autorizzazione, quello del Direttore generale dell’intelligence saudita, il principe Muqrin bin Abdel Aziz, e quello dello stesso re Abd Allah.

Per l’Arabia Saudita la corsa al nucleare risale agli anni Ottanta, quando le incertezze strategiche lasciano spazio alla Cina. Mentre nel caso del Pakistan l’obbiettivo predominante era quello di creare una piattaforma tecnologica capace di produrre autonomamente un arsenale di armi nucleari, l’Arabia Saudita era stata attirata dalla fornitura dei missili balistici a medio raggio CSS-2 (IRBM), 50 vettori a propellente liquido con la possibilità di installare testate nucleari e un raggio d’azioni di quasi 2.800 chilometri.

Alla collaborazione con Pechino ha poi fatto seguito il partenariato strategico con il Pakistan, un rapporto che Ryadh ha spesso utilizzato per controllare la politica interna pakistana e per diffondere l’influenza wahabita in Asia meridionale e nel sud-est asiatico. La stretta collaborazione tra i servizi segreti dei due Paesi, le luci e le ombre nei rapporti con Al Qaida e i talebani, hanno fatto da cornice ai piani sauditi riguardo le armi nucleari; cornice che per lungo tempo ha evitato un acquisto diretto degli armamenti, almeno fino a quando l’arsenale atomico iraniano non è diventato una vera minaccia e un’emergenza reale.

Da quando, nell’aprile del 2006, Ahmadinejad ha cominciato a sfidare il mondo ed ha annunciato che Teheran aveva iniziato ad arricchire l’uranio, tredici paesi arabi hanno preso o ripreso la strada del nucleare civile. In alcuni casi si tratta di programmi che puntano a raggiungere una sufficiente autonomia e sicurezza energetica, in altri si ravvede la necessità di far fronte a quella che viene vista come una minaccia alla stabilità dell’area.

L’Egitto ha rianimato un progetto che risale agli anni Ottanta ed ha annunciato che la prima centrale atomica verrà costruita ad el-Dabaa dalla francese Areva dall’americana Westinghouse ed entrerà in funzione nel 2019; gli Emirati Arabi Uniti hanno firmato con un consorzio sud-coreano guidato dalla Kepco, la compagnia elettrica nazionale che per 20 miliardi di dollari ha assicurato la costruzione di quattro reattori entro il 2017; il Kuwait, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco e la Giordania stanno trattando con la Areva ed Amman gia ha sottoscritto un’intesa per una prima centrale atomica che dovrebbe entrare in funzione entro il 2020 e per la creazione un centro tecnico di formazione, il tutto in cambio delle licenze per lo sfruttamento dei giacimenti giordani di uranio che secondo le stime ammontano a 140 mila tonnellate.

La Siria è l’unico paese ad essere oggetto di un’inchiesta da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ma il tentativo di dotarsi clandestinamente di un reattore nucleare simile a quello di Yongbyon, in Corea del Nord, potrebbe non essere un impedimento sufficiente a fermare il sogno nucleare del presidente Bashar al-Assar.

Mentre a Ryadh si preparano a difendere il ruolo saudita di superpotenza regionale, a Teheran c’è chi continua la sua affannata corsa al nucleare. Sempre secondo Debka, nei giorni scorsi una delegazione di scienziati e tecnici iraniani sarebbe partita alla volta di Yongbyon, centro di ricerca nucleare nord coreano situato nella contea di Nyongbyon, provincia del Pyongan settentrionale, 90 chilometri a nord di Pyongyang.

Dopo una visita alle centrifughe di arricchimento, la rappresentanza avrebbe fatto tappa al sito di Punggye-ri dove, secondo le ultime foto satellitari raccolte dall’intelligence americano, i nord coreani  starebbero scavando un tunnel sotterraneo ed entro la prossima primavera sarebbero pronti ad effettuare un nuovo test atomico.

Se la presenza degli iraniani fosse confermata, avvalorerebbe l’ipotesi avanzata alcune settimane fa dal vice primo ministro israeliano per gli Affari strategici, Moshe Yaalon, secondo il quale l’Iran non sarebbe ancora in grado di costruire un proprio ordigno nucleare;  le difficoltà tecniche fino ad ora incontrate avrebbero in qualche modo minato lo sviluppo, ma questo non significa che per raggiungere questo obbiettivo Teheran non possa chiedere ed ottenere un aiuto esterno.

 

di mazzetta

La settimana prossima ci sarà probabilmente un nuovo paese al mondo: il Sud Sudan, almeno in attesa di un battesimo diverso. Si tiene infatti nel fine settimana un referendum, con il quale la popolazione della parte meridionale del Sudan dovrebbe scegliere la secessione dal Sudan. La storia di questo referendum è lunga più della ventennale guerra che ha contrapposto gli indipendentisti al governo di Karthoum e ha le sue radici nella colonizzazione britannica del paese, che ha racchiuso in un territorio grande otto volte la Germania riunificata un coacervo di etnie diversissime e consegnato all'indipendenza un paese enorme e molto difficile da gestire.

Ancora di più se quasi subito le ingerenze britanniche ed occidentali hanno brigato per questa secessione, alimentando la guerra destinata a separare la parte del paese con l'80% delle risorse petrolifere dal resto. Il conflitto s è concluso nel 2004, quando il regime sudanese di Bashir ha completato una svolta a 180°, sotto l'influsso delle minacce americane post undici settembre ai paesi troppo vicini all'estremismo islamico.

Nelle more del processo di pace scoppiò in quell'anno la crisi del Darfur, che venne a lungo ignorata dall'Occidente, troppo preso dal sostegno alla secessione sudista per preoccuparsi degli attacchi dei ribelli darfurini sostenuti dal Ciad (e altri attori regionali in maniera più defilata) e della brutale risposta governativa, probabilmente praticata dopo un riservato via libera occidentale.

Il distacco di Bashir dagli islamisti, già maturato ai tempi della cacciata di Bin Laden anteriore al 9/11, si fece allora drastico con l'arresto dell'ideologo islamico al-Turabi, poi passato alla guida di una delle formazioni ribelli del Darfur d'ispirazione islamica. Già questo dettaglio denuncia la falsità della ricostruzione ad uso delle opinioni pubbliche occidentali, alle quali la tragedia del Darfur è stata presentata come un massacro ordito da un regime “islamico” e arabo contro popolazioni di etnia e cultura diversa.

Nemmeno l'evidenza rappresentata da al-Turabi in guerra contro il governo ha avuto ragione di questo falso della propaganda ed è inutile dire che gli abitanti del Darfur non sono stati protetti da nessuno. Anche se persino l'Italia ha inviato una missione militare in Sudan, ma si trattava di un contingente ospitato a Khartoum a garanzia degli accordi di pace con il Sud: se non ne avete mai sentito parlare chiedetevi perché.

La secessione sudista sembra destinata ad andare a buon fine, Bashir ha ribadito anche nei giorni scorsi che rispetterà l'esito del referendum e nulla sembra davvero minacciarne l'esito. I problemi sono semmai attesi in seguito perché i leader del Sud, affermatisi sul campo di battaglia e selezionati tra quelli più duttili alle esigenze occidentali, non hanno sfruttato gli anni trascorsi dagli accordi e i proventi del petrolio per costruire istituzioni o infrastrutture, ma piuttosto per acquistare armi e vecchi carri di produzione sovietica.

Un traffico illegale, perché tutto il Sudan è sottoposto ad embargo, scoperto quando i pirati somali che hanno sequestrato la nave Faina, all'interno della quale c'erano decine di tank di produzione sovietica e documenti di viaggio che indicavano la destinazione finale nel Sud Sudan attraverso il compiacente Kenya. Che poi cercò di attribuirsi l'acquisto senza grande successo. Nessuna condanna venne allora né poi dal Dipartimento di Stato americano o dal Foreign Office britannico, evidentemente consenzienti a quella che comunque ha rappresentato un'infrazione della legalità internazionale e degli accordi di pace.

Il leader del Sud, Salva Kiir, non sembra avere sottomano un esecutivo all'altezza della sfida e il governo provvisorio, composto da per lo più da ex-guerriglieri, in questi anni ha dato una prova pietosa delle proprie capacità. Salva Kir è sicuramente più presentabile di John Garang, leader del Sud in tempo di guerra, iscritto nella lista dei terroristi dall'ONU e opportunamente precipitato con l'aereo che lo trasportava insieme alla sua conoscenza della storia dei rapporti del Sud con l'Occidente; ma agli osservatori indipendenti non sembra all'altezza della sfida, resa ancora più ostica dal fatto che anche il Sud a sua volta ospita una popolazione per niente omogenea e spesso impegnata in conflitti intestini.

Diverse variabili influiranno sul futuro del nuovo Stato e molti problemi dovranno essere risolti privilegiando la costruzione del paese al suo ruolo nello scacchiere regionale. Il pericolo che incombe maggiormente è infatti quello di un'iniziativa del Sud che colleghi il paese, che non ha sbocchi al mare, all'oleodotto che dal Ciad raggiunge il Golfo di Guinea, tradendo così gli accordi con il Nord per la sua distribuzione attraverso gli oleodotti che lo portano fino ai terminal sul Mar Rosso.

Se il Sud riuscirà ad emanciparsi dal Nord in maniera non ostile e a costituirsi come uno Stato con istituzioni solide e leggi moderne, è il vero interrogativo che aleggia su tutta la vicenda. Ed è triste osservare come, ancora una volta, le analisi che circolano nel nostro paese riducano tutto, ancora una volta, alla “minaccia islamica” del Nord. Il Sud Sudan nasce e dovrà camminare con le sue gambe, che per ora appaiono malferme e per niente all'altezza delle sfide all'orizzonte.

Se l'Occidente avesse veramente a cuore la democrazia e lo sviluppo in quelle lande, probabilmente i comportamenti fin qui osservati sarebbero stati diversi, così come sarebbe stata diversa e più genuina la presentazione del suo caso alle opinioni pubbliche occidentali. Il mancato verificarsi delle due condizioni spinge al pessimismo sul futuro del paese, che rischia di scivolare in un'anarchia di stampo somalo ancora prima di nascere. La sua storia comincia oggi e solo il tempo potrà dire se i suoi abitanti riusciranno a emanciparsi da certe ingombranti tutele e trovare un sentiero sicuro in un futuro che si presenta denso d'incognite e di minacce.


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