di Fabrizio Casari

Quanto accaduto in Arizona propone con forza una domanda: fin dove può arrivare la follia della destra americana? C'é da dire che il contesto nel quale si è consumata la strage ad opera del fanatico razzista è terribile. L’Arizona, che ha da poco legiferato una legge sull’immigrazione dichiarata illegale dagli stessi tribunali statunitensi, è ormai la patria del fanatismo ideologico razzista; una miscela di segregazionismo, antistatalismo e darwinismo condita da una retorica bellica antisistema. La sua stessa comunicazione elettorale invita all’uso delle armi contro gli avversari politici, giammai riconosciuti come portatori di progetti diversi (e nemmeno poi così spesso) ma rapidamente etichettati come “socialisti”.

E’ la pancia profonda di un sistema in crisi che non cerca risposte praticabili ma propone uno stato di guerra permanente contro tutto e tutti. Non si tratta solo dell’estremismo liberale, della deformazione ignorante delle tesi antistataliste per l’autoregolamentazione del libero mercato, del rifiuto delle politiche d’integrazione e della salvaguardia dei diritti collettivi sanciti dalla Costituzione. La nuova destra è fanatica e oltranzista, infarcita di razzismo e d’integralismo religioso.

Certo, c’è chi con il giochetto del Tea-party si arricchisce, chi si costruisce carriere politiche altrimenti impensabili anche in un paese così analfabeta, dove la comunicazione è talmente elementare e priva di senso da far impallidire anche i leghisti nostrani. Ma soprattutto emerge una rappresentazione concreta di un settore della società americana che è divenuta famosa con il marchio del Tea-party, ma che in realtà è un concentrato di fascismo sociale difficile da riscontrare altrove.

Negli Stati Uniti si può morire per essere favorevoli all’aborto, per difendere l'ambiante, per essere contrari alla libera vendita delle armi o anche solo per chiederne l’obbligo di registrazione. E’ l’America del proliferare continuo delle sette religiose, aiutate dalla crisi d’immagine che ha colpito il Vaticano a seguito degli scandali della pedofilia. E’ la proliferazione delle aggregazioni locali fondate sul secessionismo negli stati del Sud, dove organizzazioni apertamente naziste e ripristinatori del Ku-Kux-Klan si fondono.

Sono organizzazioni identitarie, che nel loro dichiarare guerra ad ogni manifestazione della vita democratica del paese, lanciano una chiamata alle armi contro il virus della modernità. Modernità che per loro è sintomo minaccioso della partecipazione popolare che può colpire nel profondo l’America bianca, ricca e armata. proprio quella alla quale appartiene Jesse kelly, l'ex marine avversario della Giffords, che invitava i suoi elettori a farla fuori "scaricando un caricatore di M-16".

Certo, la follia estremista della destra americana viene da lontano e non ha esclusivamente la cittadinanza USA. La degenerazione politica e ideale determinata da una globalizzazione priva di governance non riguarda solo gli Stati Uniti: la crescita dell’odio xenofobo e l’ulteriore diffondersi del revisionismo storico, che favorisce la rinascita dei gruppi nazisti, è questione che riguarda anche l’Europa, che insieme alla memoria sembra perdere anche la decenza.

Del resto, se un governo come quello ungherese promulga una legge che vieta le opinioni alla vigilia del suo semestre di presidenza della Ue, se quello turco (che chiede di entrare nella stessa Ue) seppellisce sotto anni di carcere i curdi che non riesce a seppellire sotto terra e quello lituano rimembra con nostalgia il passato ustascia, non è responsabilità della crisi americana. Perlomeno, non solo. Ma ovunque appare conclamata la fine di un’identità dei moderati e dei conservatori e questo, comunque, è un elemento che trova comunanze e simmetrie europee con il contesto socio-politico statunitense.

Quella che sembra non trovare più spazio in Europa, ma soprattutto nella politica oltreoceano, è infatti proprio l’esistenza di una destra moderata. Ma la crisi profonda della leadership internazionale statunitense, che per i repubblicani ha anche significato la sconfitta elettorale, ha trascinato i conservatori - che di quella destra sono stati laboratorio e pensatoio, si pensi ai newcon - in una crisi politica alla quale hanno scelto di reagire cavalcando la destra oltranzista americana. Lo scopo è tornare quanto prima al governo, costi quel che costi.

La destra ha deciso che, vista la decadenza dell’impero e vista anche la retromarcia delle sue proposte, s’imponeva riformulare il proprio messaggio politico proprio su quella decadenza, per trasformare quel popolo fanatico e disperato nel nuovo ancoraggio elettorale su cui poggiare la riscossa anti-Obama. Il razzismo intrinseco degli stati del Sud è stato uno degli elementi sui quali la riscossa repubblicana ha puntato particolarmente. Georgia, Texas, Mississipi, Luisiana, Arizona, New Mexico, sono Stati nei quali il razzismo verso i neri e gli ispanici ha radici secolari. Ed anche nella crisi economica, le politiche anti-migratorie sono state condite tanto dalla necessità di mantenere nell’illegalità mercato del lavoro, così da poterlo sfruttare meglio, quanto da un odio viscerale per “lo straniero”, chiunque esso sia e da qualunque parte esso provenga.

Di razzismo becero e ignorante si tratta. Potremmo approfondire ulteriormente l’analisi storica e sociologica sugli stati del Sud, dalla storia del latifondo e della schiavitù fino alla conquista dei diritti costituzionali per i neri, ma di razzismo e di odio di classe si tratta. Non a caso uno dei catalizzatori di odio verso l’inquilino della Casa Bianca è proprio il colore della sua pelle. Centinaia di editoriali hanno spiegato in questi due anni scorsi quanto fosse maturata ed evoluta l’America che sceglieva un colored per la Casa Bianca, dimenticandosi però di sottolineare come proprio l’America più profonda veda nel consegnare la Casa Bianca ad un uomo di origini africane a religione musulmana come il definitivo affronto all’identità americana bianca e cristiana. Da qui la fine di ogni possibile mediazione, la testimonianza in sé dell’avvento dell’Apocalisse.

Solo in una cornice come questa poteva trovare spazio un personaggio di infimo ordine come Sarah Palin, che spiegava come la Giffords fosse una dei venti seggi da conquistare apponendo immagini da mirino di fucile. Un caso, certo, ma a quale persona normale sarebbe venuta in mente una simile associazione tra il mirino di un fucile ed un avversario politico? E stiamo parlando di colei che sarebbe potuta diventare Vicepresidente degli Stati Uniti!!

La crisi profonda del suo sistema valoriale (o il suo emergere senza ipocrisie) accompagna la crisi di leadership internazionale, vittima delle sconfitte del suo presidente che è, oggettivamente, risultato incapace di mantenere anche solo la metà di quanto promesso. E non ci si riferisce solo all’aspetto onirico della sua comunicazione politico-elettorale, ma proprio alle indicazioni programmatiche aventi per oggetto l’economia, la politica estera, i diritti civili.

Dall’Iraq non si esce e in Afghanistan si aumenta il contingente. Guantanamo non si chiude e i rapporti con l’America Latina sono privi di qualunque novità positiva. La diplomazia (messa alla berlina da Wikileaks) e l’intelligence collezionano figuracce a livello planetario. Le crisi internazionali sono dove e come Obama le aveva trovate. Le banche vengono salvate e i posti di lavoro non arrivano. La riforma sanitaria si è concretizzata come un aumento poco significativo delle risorse a disposizione della sanità pubblica, mentre il bilancio delle spese militari ha raggiunto il record storico proprio l’anno scorso.

L’amministrazione di Barak Obama, che al momento appare in preda a difficoltà insormontabili, stante l’abilità del manovratore, rischia di presentare nel secondo biennio del suo primo mandato un conto salato da pagare al sogno e all’illusione che a Washington poteva iniziare un’altra epoca per la storia del gigante a stelle e strisce. La crisi di popolarità di Obama la si coglie anche tra i delusi dall’attesa di un cambiamento che non è mai giunto, tra coloro che pensavano fosse arrivato l’uomo giusto al momento giusto per cambiare davvero.

Per invertire la tendenza, per mettere all’angolo le forze oscure della reazione americana, Obama dovrebbe dimostrarsi capace di politiche sociali e di rotture significative con l’establishment e i gruppi di potere che comandano a Washington. Al momento, però, sembra impossibile uno scatto di reni da parte di Obama, prigioniero delle lobbies e degli equilibri di potere. Resta perciò l’amarezza per quello che è, così diverso da quello sembrava potesse essere. Per un presidente che in campagna elettorale appariva un visionario e che dopo due anni si rivela solo un discreto funzionario.

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