di Mario Braconi

La giustizia degli Stati Uniti sta procedendo segretamente con l’ipotesi di spionaggio contro Assange e Bradley Manning, il militare americano sospettato di aver sottratto dai sistemi informatici della Difesa e girato a Wikilealks decine di migliaia di documenti riservati. Lo si è saputo ufficialmente solo quando, lo scorso 8 gennaio, il NYT ha pubblicato una “storia” secondo la quale gli investigatori degli Stati Uniti si sono rivolti a Twitter (la piattaforma di microblogging) per ottenere dati relativi agli account delle seguenti persone (oltre ovviamente ad Assange e Manning): Rop Gonggrijp (un hacker olandese), Birgitta Jonsdottir e Jacob Appelbaum (cittadino americano, sviluppatore per TOR, software che protegge la privacy di chi naviga su internet in modo anonimo, registrato sul social network con lo pseudonimo “ioerror”).

Le pretese avanzate dai pubblici ministeri americani lo scorso 14 dicembre sono brutali: infatti intimano a Twitter di rivelare generalità ed indirizzi elettronici collegati alle utenze oggetto di indagine, lunghezza dei collegamenti, IP impiegati (anche se temporanei), dati relativi a all’account (ad esempio gli indirizzi email e indirizzi IP dei destinatari). In poche parole, quello che gli inquirenti vogliono è: primo, carpire in qualche modo l’identità di chi ruota attorno al mondo di Wikileaks (sembra quindi stiano mirando ad identificare anche tutti gli altri utenti del social network che “seguono” Wikileaks); secondo, grazie all’analisi dei dati di collegamento, comprendere dove i membri e gli “amici” di Wikileaks si trovano (l’indirizzo IP, il provider, il fatto che ci si colleghi con una chiavetta o in wi-fi oppure alla LAN di un albergo sono infatti elementi rivelatori in questo senso).

Come conclude eufemisticamente l’elegante NYT “non è del tutto chiaro a prima vista in che modo i dati richiesti potrebbero essere di utilità agli investigatori”, mentre sembra che abbia colto nel segno Mark Stephens, l’avvocato di Assange in Gran Bretagna, quando ha dichiarato alla BBC: “Gli americani stanno scuotendo l’albero elettronico, nella speranza che alla fine un qualche capo di accusa finisca per cader loro vicino”. Cosa che segnala una disperata frustrazione.

Che gli Americani siano abituati a non andare troppo per il sottile quando si tratti di argomenti che ritengono loro interesse nazionale è cosa talmente nota da essere diventata un cliché. Un piccolo esempio che denota quella pericolosa miscela di sciatteria e cieca determinazione per cui la loro amministrazione è nota in tutto il globo: lo spelling del nome di uno delle persone sotto indagine è stato scritto male. Ma questa volta, forse si sono spinti un po’ oltre: non si sono resi conto, sembra, che Birgitta Jonsdottir è una rappresentante del Parlamento dell’Islanda, un Paese che non risulta essere un possedimento coloniale degli Stati Uniti d’America.

E in effetti l’irata reazione del ministro degli Esteri islandese Oessur Skarphedinsson non si è fatta attendere: “A quanto mi risulta dai documenti in mio possesso, una parlamentare di questo paese è indagata senza alcuna ragione nell’ambito di un procedimento penale negli Stati Uniti”, ha dichiarato alla radio pubblica islandese. “E’ intollerabile che un rappresentante regolarmente eletto venga trattato in questo modo”, ha aggiunto. Tuttavia, pei rappresentanti della giustizia americana, la Jonsdottir è tutt’altro che innocente: ci sarebbe, infatti, anche il suo zampino dietro la pubblicazione sul web del primo (e migliore) degli scoop di Wikileaks: la video-testimonianza dell’assassinio di una dozzina di civili iracheni il 12 luglio 2007 da parte dell’equipaggio di un Apache americano, pubblicato dalla creatura di Assange il 5 aprile 2010.

Motivo sufficiente per muovere l’artiglieria pesante, ignorando bellamente le garanzie che normalmente spettano a un parlamentare in qualsiasi Paese. E’ appena il caso di rilevare lo strabismo della “giustizia” americana, tanto aggressiva nei confronti di cittadini stranieri, quanto renitente se si tratti di crimini commessi da militari americani fuori dal sacro suolo a stelle e strisce (si pensi solo alle assurde mistificazioni cui si è stati costretti ad assistere nel caso Calipari e in quello della strage del Cermis, per i quali, grazie alla “giustizia” made in the USA, nessun militare americano ha pagato per i suoi errori).

A ben vedere, fa pensare anche lo strumento tecnico impiegato dal Giudice Theresa Buchanan di Alexandra, una cittadina della Virginia di sole 150.000 anime. Innanzitutto, la richiesta d’informazioni a Twitter del 14 dicembre era concepita per rimanere segreta; tuttavia, probabilmente a seguito dell’offensiva di rimando dei legali di Twitter, decisi a dimostrare l’illegalità del mandato (subpoena, in inglese), la Buchanan ha dovuto cedere e consentire la sua pubblicazione, in modo che le persone coinvolte ne fossero portate a conoscenza.

L’iniziativa dei legali di Twitter è stata lodata ufficialmente da uno degli indagati, l’hacker olandese Gonggrijp (“Gongrijp”, secondo il documento americano). Questo il suo commento al NYT: “Sembra che Twitter, per policy interna, si attenga alla corretta procedura di informare i suoi utenti quando uno di questi personaggi bussa alla porta. Solo Dio sa quanti altri (ISP, social network, eccetera…ndr) hanno ricevuto mandati di questo tipo senza che lo sapessi e i provider hanno trasmesso in silenzio tutto quello che mi riguardava”. Il che, per inciso, dimostra come la maggior parte delle invasioni governativa nella privacy dei cittadini su internet avvengano senza reazione semplicemente perché gli interessati non ne sanno nulla.

Il giudice Buchanan, infine, ha impiegato una fattispecie di subpoena (il 2703 d), che prevede letteralmente l’obbligo di fornire “tutti i record” e “tutta la corrispondenza” da e per gli account sotto osservazione: questo sembrerebbe includere anche il contenuto di messaggi come quelli che si mandano su Twitter o post (“tweet”, o cinguettii, in gergo) inviati da un account non pubblico. Pare che questo elemento offra il fianco a una possibile incostituzionalità del subpoena 2703 (d), come del resto stabilito dal pronunciamento di una Corte d’Appello americana dello scorso dicembre: in quel caso, la Corte decise che l’impiego del 2703 (d) nei confronti di un tale signor Warshak - milionario grazie al suo “magico” prodotto per l’estensione del pene, rivelatosi non proprio efficacissimo - era illegale, a meno che non fosse preceduto da un mandato di perquisizione.

La cosa che insospettisce è che, stranamente, il pronunciamento citato non è vincolante né in Virginia (dove il subpoena è stato emesso), né a San Francisco (dove ha sede Twitter). Insomma, anche se chi sta cercando di farla pagare ad Assange non è propriamente uno sprovveduto, pare che di questo passo non riuscirà a fare molto di più che rinfocolare il diffuso sentimento antiamericano.

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