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di Emanuela Pessina
Amara sorpresa per la popolazione svedese all'indomani delle elezioni parlamentari di domenica scorsa. L'estrema destra di Jimmie Akesson, il leader populista dei Democratici Svedesi, è approdata per la prima volta in Parlamento, superando di poco lo sbarramento del 4%, attestandosi tra i possibili candidati per la prossima alleanza di governo. La coalizione di centro-destra, infatti, ha vinto la consultazione elettorale, ma ai conservatori moderati mancano tre seggi per ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento e il primo ministro, Fredrik Reinfeldt, è costretto a ricercare un'alleanza anche tra le più pericolose o improbabili. Ma agli svedesi l'eventualità non piace...
In base ai risultati definitivi dello spoglio delle elezioni in Svezia, l'Alleanza guidata dal primo ministro conservatore Reinfeldt ha ottenuto il 49.2% dei voti, che corrisponde a 172 seggi su 349 totali in Parlamento. La coalizione di centrosinistra, costituita dai socialdemocratici di Mona Sahlin e dai Verdi, ne ha ottenuto il 45%, aggiudicandosi 157 seggi. Con grande sorpresa di tutti, la terza forza in gioco è risultata l'estrema destra populista di Jimmie Akesson (DS), che ha guadagnato il 5.7% dell'elettorato: i Democratici Svedesi di Akesson hanno raggiunto per la prima volta l'arco parlamentare di Stoccolma e potrebbero diventare addirittura l'ago della bilancia per la formazione del nuovo governo.
Nonostante si facciano chiamare Democratici Svedesi (DS), l'impronta reale del partito di Jimmie Akesson è quella del partito populista e xenofobo di estrema destra. Per tutta la campagna elettorale, Akesson ha sostenuto che la Svezia, quella contemporanea, "non è abbastanza svedese". Al centro della sua campagna elettorale gli stranieri e la criminalità: "Non tutti gli immigrati sono criminali, ma naturalmente tra le due cose c'è un legame" tuona il controverso motto dei Democratici Svedesi. Anche se, si deve sottolineare, Akesson è molto attento a distinguersi dai partiti neonazisti, con cui dice che gli piacerebbe non avere nulla a che fare: il suo obiettivo è mascherare la sua politica xenofoba dietro i sani valori della moderna borghesia medioalta, distaccandosi concettualmente dagli estremismi ma proponendo in sosteanza le stesse soluzioni.
Ma la maggior parte degli svedesi, nonostante i voti concessi al partito alle elezioni, non ha mostrato di apprezzare il traguardo raggiunto dai Democratici Svedesi. Senza perdere tempo, la popolazione si è riunita spontanemente a Stoccolma e a Goteborg per manifestare contro l'ingresso in Parlamento dell'estrema destra, facendo conoscere la propria posizione con determinazione ai politici: "No ai razzisti nel nostro Parlamento" è stato il motto della manifestazione. A fine serata i manifestanti sono arrivati a riempire un intero quartiere, sostenuti anche dalla stampa main stream che non vede di buon occhio l'evoluzione della politica del Paese. Tanto per citarne uno, il quotidiano svedese Expressen ha accusato ..... "le forze dell'oscuro hanno preso in ostaggio anche la democrazia svedese".
In realtà, per ora, anche la politica sembra prendere le distanze da Akesson. Reinfeldt, al suo secondo mandato a Stoccolma, ha escluso da subito apertamente un'alleanza con i Democratici Svedesi: il premier ha annunciato di voler piuttosto intavolare trattative con i Verdi, presentatisi al voto nella coalizione rosso-verde. Ma i Verdi non sembrano disposti a scendere a compromessi solo per garantirsi un ruolo di governo: i rappresentanti del Green party svedese hanno già provveduto a criticare la politica delle forze conservatrici in diversi punti. Il messaggio è chiaro: Reinfeldt deve guadagnarsi l'alleanza aprendosi a una politica che soddisfi anche il partito d'opposizione dei Verdi.
La Svezia conta poco più di 9 milioni di abitanti, di cui il 15% sono immigrati. La maggior parte di questi sono finlandesi, ma ci sono anche considerevoli gruppi provenienti dalla ex-Jugoslavia, dall'Iran e dall'Iraq grazie ai programmi di asilo politico liberali portati avanti negli anni 90.
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di Michele Paris
I nuovi dati resi noti qualche giorno fa dall’Ufficio del Censimento degli Stati Uniti, rivelano il durissimo impatto sulla popolazione americana della recessione iniziata nell’autunno del 2008. I numeri ufficiali, pur sottovalutando gli effetti della crisi sulla classe media e i lavoratori d’oltreoceano, evidenziano sia un drammatico aumento del livello di povertà nel paese teoricamente più ricco del pianeta, sia il sostanziale fallimento dell’amministrazione Obama in ambito economico a quasi due anni dal cambio della guardia alla Casa Bianca.
A livello generale, il numero degli americani costretti a vivere al di sotto della soglia ufficiale di povertà, così come definita dal governo, nel 2009 è salito a 43,6 milioni, con un incremento di 3,8 milioni rispetto al 2008. Tale numero è il più alto mai registrato dal “Census Bureau” da quando iniziò a raccogliere i dati mezzo secolo fa. In termini percentuali si è passati dal 13,2 per cento del 2008 al 14,3 per cento dello scorso anno, cioè il tasso più elevato dal 1994.
Le conseguenze della situazione economica negli USA hanno prodotto nel paese una situazione non troppo differente da quella che aveva spinto il presidente Lyndon Johnson a lanciare la cosiddetta “Guerra alla Povertà” nella prima metà degli anni Sessanta e che aveva portato all’approvazione, tra l’altro, dell’Economic Opportunity Act e del Social Security Act, rispettivamente nel 1964 e 1965. Oggi come allora, il numero delle famiglie ridotte in povertà sfiora i nove milioni.
Come prevedibile, gli effetti più pesanti riguardano la popolazione adulta in età lavorativa e soprattutto i bambini. Tra i minori, la percentuale di povertà tra il 2008 e il 2009 è passata dal 19,4 al 20,7. Una realtà che appare il risultato di una risposa alla crisi che - con il pieno appoggio del governo democratico - ha prodotto licenziamenti di massa e drastici ridimensionamenti delle retribuzioni dei lavoratori americani. Meno peggio, relativamente, è andata invece per la popolazione anziana, protetta dalla sia pur debole rete assistenziale pubblica, la cui percentuale al di sotto della soglia di povertà è scesa dal 9,7 all’8,9.
L’incidenza della recessione più grave dagli anni Trenta del secolo scorso è risultata poi peggiore per le minoranze etniche. Se pressoché ogni gruppo razziale è stato colpito duramente, a pagare il prezzo più caro sono stati neri e ispanici. Mentre per la popolazione bianca la percentuale di persone sotto la soglia di povertà è salita al 9,4 nel 2009, per i neri è stata del 25,8 e del 25,3 per gli ispanici.
La perdita di milioni di posti di lavoro si è inoltre tradotta per molti nella perdita della copertura sanitaria, dal momento che quest’ultima negli Stati Uniti è in gran parte garantita dai contratti di impiego. Nell’anno in cui era arrivata la prima approvazione della cosiddetta riforma sanitaria del presidente Obama, il numero di americani sprovvisti di qualsiasi copertura ha sfondato il tetto dei 50 milioni (16,7 per cento) per la prima volta dal 1987. Nel 2008 i non assicurati erano 46,3 milioni, pari al 15,4 per cento della popolazione.
Scorrendo i dati dell’Ufficio del Censimento si scorgono numerosi altri segnali della profondissima crisi sociale in cui versano gli Stati Uniti. Oltre al declino del livello medio dei redditi, è evidente l’incapacità del governo di garantire una redistribuzione della ricchezza in un frangente nel quale più se ne sarebbe sentita la necessità. Al contrario, nel 2009 il venti per cento della popolazione ha guadagnato oltre la metà del reddito complessivo, mentre addirittura il cinque per cento ha avuto quasi il 22 per cento del totale.
Se già questi numeri bastano a disegnare un quadro drammatico, a ciò vanno aggiunti quei milioni di americani che non rientrano nella categoria di poveri solo per le cifre governative. La soglia ufficiale di povertà è fissata ad un reddito annuale di 22.050 dollari per una famiglia di quattro persone e di 10.830 dollari per un adulto single. Queste cifre, che già di per sé non garantiscono un livello di vita decente, non sono oltretutto aggiustate su base geografica, giacchè il costo della vita, ad esempio, nelle grandi città è di gran lunga superiore a quello delle aree rurali e i parametri si basano su parametri e necessità vecchi di cinquant’anni.
Il quadro è destinato poi a deteriorarsi nei prossimi mesi. Già a fine anno si esauriranno infatti i sussidi di disoccupazione di cui godono circa tre milioni di americani e la cui più recente proroga era stata approvata dal Congresso a grande fatica. Non molto più rosee sono anche le prospettive a medio termine. Il modello economico lungo il quale si sono incamminati gli Stati Uniti – e non solo – secondo una previsione del think tank “Brookings Institution” spingerà altri dieci milioni di americani al di sotto della soglia di povertà ufficiale entro la metà del decennio.
La pubblicazione del rapporto dell’Ufficio del Censimento è stato accolto con una sostanziale indifferenza da un Barack Obama impegnato ad incontrare i vertici di alcune delle più influenti corporation statunitensi. In una nota formale la Casa Bianca si è limitata a ricordare i presunti benefici del proprio pacchetto di stimolo all’economia approvato a inizio 2009 che avrebbe evitato una situazione ancora peggiore. Una consolazione molto modesta per quei milioni di americani che hanno perso il lavoro, la casa o la copertura sanitaria.
Per quanto modesti, gli effetti del momentaneo allargamento dei cordoni della spesa pubblica in questo biennio si assottiglieranno ulteriormente il prossimo anno, quando le nuove cifre sulla povertà negli USA riveleranno verosimilmente una realtà ancora più pesante. Le prossime statistiche, infatti, mostreranno tutte le conseguenze degli aumenti delle spese sanitarie e dei servizi pubblici, il cui impatto sta già facendo sprofondare nell’indigenza un numero sempre più elevato di cittadini abbandonati a loro stessi da un sistema politico in grado di rispondere esclusivamente ai grandi interessi economici e finanziari americani.
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di Eugenio Roscini Vitali
Secondo gli ispettori dell'Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) entro breve tempo Teheran potrebbe essere in grado di armare i propri missili balistici con testate nucleari. Dallo scorso maggio la produzione di uranio a basso livello di arricchimento sarebbe aumentata del 15% e negli ultimi mesi dalle centrifughe a cascata di Natanz sarebbero stati estratti tra i 1.800 e i 2.800 chilogrammi di combustibile nucleare arricchito tra il 3% e il 5% e 22 chilogrammi di materiale fissile arricchito al 20%.
Il fatto di per sé conferma il sospetto che in Iran il nucleare non sia solo finalizzato a scopi puramente civili e che l’industria bellica è ora più vicina alla soglia limite per produrre armi atomiche a bassa affidabilità, uranio a basso livello di arricchimento dove l’isotopo U235 raggiunge una concentrazione del 60%.
Attualmente le centrifughe attive sarebbero 3.772, ma a fine agosto 2009 l’IAEA ne aveva contate 8.308, 4.592 delle quali funzionanti; altre 3.000 sarebbero dovute diventare operative se la costruzione dell’impianto di Fordow, poi apparentemente sospesa, fosse stata terminata, ma secondo l’intelligence americano nei piani dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell'Iran (AEOI) ci sarebbero anche altri progetti.
Al timore che le continue obiezioni poste da Teheran sul personale scelto dall'IAEA servano ad impedite le attività di controllo stabilite dall’agenzia internazionale con sede in Vienna, si è aggiunto il sospetto che la Repubblica islamica abbia quasi concluso la costruzione di un nuovo sito segreto per l'arricchimento dell'uranio, un tunnel scavato nelle montagne a nord-ovest di Teheran che verrebbe gestito direttamente dallo stesso ministero della Difesa.
L'allarme è stato lanciato l’8 settembre scorso dalla rappresentante negli Stati Uniti per il Consiglio nazionale della resistenza iraniana, Soona Samsami, che durante una conferenza stampa tenuta a Washington ha dichiarato che i lavori di costruzione sono stati quasi completati e che nel nuovo impianto potranno essere collocate migliaia di centrifughe.
Le informazioni divulgate da Samsami sono suffragate dalle foto raccolte negli ultimi anni nella regione ad ovest del lago Taleghan dai satelliti americani, sulle montagne di Alborz: 100 chilometri a nord della capitale e a non più di 25 chilometri dalla città di Abyek, lungo l’autostrada che collega Qazvin a Karaj, tra i villaggi di Behjatadan e Todaran, gli iraniani starebbero ultimando la costruzione di un impianto atomico sotterraneo che gli addetti ai lavori hanno identificato con il nome in codice di “sito 311”.
Il sito fa parte della rete di centri di comando e controllo e di laboratori per lo sviluppo di armi nucleari chiamata MOJDEH, la struttura diretta da Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, professore di fisica all’università Imam Hossein di Teheran e tra i responsabili del Progetto 111, il programma che segue la realizzazione di una testata nucleare da installare sui missili Shahab-3.
Accessibile attraverso una galleria alta 8 metri e lunga circa 200, l’impianto è posto a quasi 100 metri di profondità ed in superficie occupa un area di 30 chilometri quadrati; difeso da batterie anti-aeree, si trova all’interno di una zona militare identificata come Javad-nia 2 (Javad-nia 1 è una base di addestramento e supporto logistico che sorge qualche miglio a sud est nei pressi del villaggio di Jazmeh e che viene utilizzata per fornire supporto logistico al personale impegnato nel “sito 311”).
Nel novembre scorso le autorità iraniane hanno dichiarato l’intenzione di voler costruire dieci nuovi siti nucleari, impianti che si andrebbero ad aggiungere a quelli già esistenti o in avanzato stato di realizzazione. Il centro di ricerca di Isfahan, identificato come base industriale per la produzione dei missili Shahab, Fadjr, Nazeat e Zelzal e “primary location” dell’industria bellica iraniana, è ormai considerato il cuore del programma atomico iraniano.
Intorno alla città di Isfahan, 415 chilometri a sud di Teheran, il regime ha costruito il progetto annunciato nel febbraio 2003 dal presidente Mohammad Khatanmi: l’intero ciclo industriale che entro il 2023 permetterà all’Iran di produrre in ambito nazionale il combustibile nucleare necessario a produrre 6.000 megawatt di energia.
Dal 1988 ad oggi l’Iran ha aperto non meno di dieci miniere di uranio, depositi stimati per un totali di circa 5.000 tonnellate di materiale fissile: la miniera di Saghand, nel deserto dell'Iran centrale, è certamente la più conosciuta ma se ne registrano numerose anche nella vasta regione del Khorassan e nelle province di Hormozgan, Sistan-Baluchestan, Bandar-e-Abbas e Badar-e-Lengeh, sul Golfo Persico. Il materiale estratto in natura viene poi trattato nella struttura di Ardekan, provincia di Yazd, dove viene macinato e trasformato in ossido di uranio, lo yellowcake, che viene utilizzato nella fase di arricchimento e che in Iran dovrebbe essere disponibile per circa 20.000 tonnellate.
Ufficialmente utilizzato per fini scientifici, il reattore sperimentale a bassa potenza da 40 megawatt costruito nella città di Arak, 300 chilometri a sud di Teheran, è sicuramente uno dei siti di maggiore interesse per l’intelligence occidentale. Inaugurato il 26 agosto 2006 dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, l’Arak Heavy Water Production Plant è un reattore nucleare IR-4 ad acqua pesante (di-ossido di deuterio) che favorisce l’utilizzo di uranio non arricchito dal quale viene prodotto il plutonio e trizio, sostanze utilizzate nella produzione di armi nucleari avanzate.
Al centro ricerche di Isfahan, che impiega circa 3.000 scienziati e dispone di un reattore di ricerca miniaturizzato a sorgente neutronica da 27 chilowatt, e alla centrale di Arak si aggiungono: il sito sotterraneo di Natanz, 40 chilometri a sud di Kashan, utilizzato per l’arricchimento dell’uranio e in grado di ospitare fino a 50.000 centrifughe; gli impianti sotterranei di Abyek e Fordow, ancora in costruzione ma che entro breve tempo potrebbero essere usati per produrre uranio altamente arricchito; la centrale da 360 megawatt di Darkhovin, in costruzione nei pressi del fiume Karun, a sud della città di Ahvaz, provincia del Khuzestan, un progetto annunciato il 10 dicembre 2005 che prevede l’uso esclusivo di combustibile prodotto in Iran, e la centrale nucleare ad uso civile di Bushehr, inaugurata lo scorso 21 agosto, che con il suo primo reattore sarà in grado, entro fine anno, di produrre 915 megawatt (altri due reattori sono in fase di costruzione e dovrebbero entrare in funzione nel 2011 e nel 2012).
E’ proprio a Bushehr che l’Iran starebbe spostando gran parte delle risorse utilizzate nel programma di ricerca nucleare: nell’enorme area di stoccaggio utilizzata dalle società russe durante la fase di costruzione dell’impianto starebbero affluendo armi e una grande quantità di materiale proveniente dagli impianti a nord di Teheran e dal sito di Arak. Secondo fonti israeliane l’Iran è certo che l’attivazione della centrale abbia reso l’area più sicura e che il pericolo di un attacco contro Bushehr sia ormai scongiurato: la paura dell’emissione di radiazioni e il conseguente disastro ambientale causato da un bombardamento aereo avrebbe dissuaso il Pentagono dall’intraprendere una missione di attacco.
L’iniziativa, proposta dal Consiglio nazionale di sicurezza ed approvata dallo stesso Ayatollah Ali Khamenei, capo delle forze armate iraniane, prevede inoltre il trasferimento dei laboratori di ricerca e sviluppo impegnati nel settore dei missili balistici e degli armamenti presenti nella provincia meridionale del Khuzestan.
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di mazzetta
Il presidente americano ha ricevuto il Nobel per la Pace per alcune sue prese di posizione in merito al disarmo nucleare. La riduzione degli armamenti nucleari di Stati Uniti e Russia echeggia promesse che, a ben vedere, aveva fatto anche un presidente-falco come Reagan e, nel caso delle due maggiori potenze atomiche, si tratta della rottamazione di ordigni obsoleti, costruiti in quantità oscene durante la Guerra Fredda. Niente che possa alterare la supremazia indiscussa di Stati Uniti e Russia, ma Obama si è speso anche per un Medioriente senza atomiche e per il libero accesso alle tecnologie nucleari dei paesi che vogliano ricorrere al nucleare per produrre energia senza produrre Co2.
Ci sono diversi problemi davanti ad Obama, ma la ricompensa alla fine dell'avventura potrebbe essere succosa, per gli Stati Uniti come per gli altri paesi con know-how nucleare, che potranno costruire all'estero decine di centrali che in patria nessuno vuole più. Un progetto che probabilmente si tradurrà nell'ultima grande truffa di stampo coloniale, con il trasferimento di tecnologie obsolete e la creazione di un mercato del combustibile e delle tecnologie che “per ragioni di sicurezza” sarà controllato da fornitori di fiducia.
Mentre l'Europa investe una cifra spaventosa per produrre energia elettrica nei deserti africani e portarla in Europa, le cancellerie occidentali combattono per un ricco mercato in espansione, paesi asiatici, arabi, africani, paesi disposti a sobbarcarsi i giganteschi investimenti per la costruzione delle centrali e che hanno la possibilità di accedere al nucleare perché il fornitore controllerà tutto il processo e, di fatto, potrà fare il prezzo dell'energia.
Il modello di accordo è quello di Dubai con la Francia, che farà la centrale nucleare con i soldi degli sceicchi per illuminare il luna park del Golfo, ma che ha ottenuto la presenza di una base militare nell'emirato a garanzia e protezione dell'investimento; la prima base militare francese fuori dall'Africa da molto tempo.
Sfuggono a questo progetto di racket i paesi che possiedono già le capacità tecnologiche per fare da soli come Cina e India, che sono invece considerati gentili clienti, tanto che lo stesso Bush ritagliò sull'India un regime d'eccezione al Trattato di Non Proliferazione, aprendo il supermarket nucleare americano ai desideri e ai soldi dell'India. Fino a poco prima l'India era una specie di stato-canaglia, una paranoia americana risalente ai tempi di Nixon, perché gli Stati Uniti sostenevano il Pakistan, l'India guidava il movimento dei non-allineati e faceva la spesa militare anche a Mosca.
Ancora oggi l'India deve completare e perfezionare questo genere di pratiche con l'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, ma nessuno ci fa caso, ormai è ammessa tra i buoni. Anche il Pakistan ha capacità nucleari e anche armamenti nucleari, rivelate pubblicamente in risposta ai primi test indiani, non sembra avere nessuna intenzione di aderire al TNP. Il nucleare pachistano è gelosamente custodito dall'esercito pachistano, circostanza che rende impossibili azioni di forza, e negli anni è stato distribuito con generosità all'Iran, alla Libia e alla Corea del Nord. Il tutto sotto l'occhio delle amministrazioni americane, che con i militari pachistani (e i sauditi loro sponsor) hanno sempre avuto ottimi rapporti: giocavano insieme a golf e poi andavano insieme a caccia di russi in Afghanistan.
Obama-Nobel deve mettere le mani in un bell'intrigo: l'Iran aderisce al TNP e non ha armi atomiche (nemmeno un'aviazione degna di questo nome, en passant...) ed è accusato dagli Stati Uniti che hanno il primo arsenale al mondo e da Israele,che ha un discreto arsenale nucleare ufficialmente “clandestino” solo perché Israele stessa si rifiuta di dire che ce l'ha, anche dopo che le prove della sua esistenza circolano da anni. E il bello é che nessuno accusa il Pakistan: lo scienziato pachistano al quale hanno dato la colpa nel 2003 è già libero e riverito, i pochi occidentali presi e processati per i traffici nucleari pachistani hanno “collaborato” e hanno ottenuto l'immunità.
Se le ipocrisie incrociate sono tali e tante, sembrerebbe interesse comune quello di avere un regime universale, con regole e standard comuni validi per tutti i paesi, ma per il momento siamo ancora allo stadio nel quale al più forte è permesso tutto e gli altri si devono adeguare.
In occasione dei colloqui per il rinnovo del TNP, però, gli Stati Uniti hanno dovuto cedere a che nel documento si citasse la posizione d'Israele e l'auspicio alla sua adesione al trattato. Inutile dire che in Israele la cosa non è piaciuta, ma lì da tempo pensano e dicono che l'AIEA è in mano a chi vuole la distruzione d'Israele. In fondo è stata l'AIEA a non aiutare le amministrazioni americane nella costruzione di false accuse prima all'Iraq e poi all'Iran, ricordate le armi di distruzione di massa? Tanto fecero che ordirono addirittura un complotto contro el Baradei, il capo dell'agenzia, pure lui Nobel per la Pace e forse con maggiori meriti di Obama. Del complotto si autoaccusarono due esponenti repubblicani e la cosa finì lì, con la vittoria ai punti dell'AIEA.
Oggi a capo dell'AIEA c'è il giapponese Amato, che è andato in Israele, è stato poco considerato, ma ha recapitato l'invito all'adesione al TNP. A ruota sono arrivati gli Stati Uniti che continuano ad insistere perché Israele non sia indicata tra i problemi alla conferenza prevista per il 2012 per la promozione di un Medio Oriente denuclearizzato..
Glym Davies, l'ambasciatore americano all'AIEA, è arrivato a fare esplicite pressioni sui paesi della Lega Araba perché si ritiri il riferimento a Israele, senza grande spreco di argomenti a dire il vero. Israele ha risposto che siglerà il TNP solo una volta raggiunta la pace in Medio Oriente. Al di là di questo tradizionale stallo tra arabi e israeliani, entra però in gioco il lato commerciale del problema, perché sarà indubbiamente più difficile vendere centrali nucleari in mancanza di un quadro certo e nella permanenza delle minacce al programma nucleare iraniano.
Bisognerà lavorare molto per convincere certe autocrazie e certi regimi che ai tradizionali problemi delle centrali nucleari e a una disponibilità dell'uranio in calo, non bisogna aggiungere la remota possibilità che qualcuno usi quelle stesse centrali per dichiarare il potere locale coinvolto in crimini nucleari e quindi bombardabile.
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di Carlo Musilli
Come un pugile intronato, il Partito Democratico americano poteva sperare solo in un errore dell’avversario per non andare al tappeto prima della campanella. Il ring è quello delle elezioni di medio termine: il prossimo 2 novembre gli Stati Uniti voteranno per rinnovare l’intera Camera e un terzo del Senato. Tutto lasciava presagire un trionfo incontrastato dei Repubblicani, ma il partito dell’Elefante si è fatto lo sgambetto da solo. E Obama ringrazia. Perderà lo stesso, ma gli rimarrà il fiato per respirare.
Artefici del sabotaggio sono stati gli ultraconservatori del “Tea Party”, che in un paio di Stati fondamentali hanno soffiato ai repubblicani più moderati e credibili la candidatura al Senato, spalancando le porte della vittoria ai democratici. In principio fu il Delaware, dove nelle primarie repubblicane l’agguerritissima Christine O’Donnel ha sbaragliato Micheal Castle, che dalla sua aveva tutta l’establishment del partito. Qualche giorno dopo il Tea Party ha messo a segno un altro colpaccio, ancora più clamoroso: New York. Nello stato della Grande Mela, dove la partita si giocava tutta fra paisà italo-americani, il non meglio identificato Carl Paladino ha incredibilmente mandato a casa il super favorito repubblicano-doc Rick Lazio.
La rivincita di Carneade, insomma. Chi sono costoro? Non proprio figure rassicuranti. La signorina O’Donnell è nota fra i suoi stessi alleati per aver ritoccato con una certa fantasia il suo curriculum vitae. Una laurea in più fa sempre comodo. Non è nemmeno brillantissima come amministratrice di finanze, tanto che ha sfiorato la bancarotta del suo patrimonio personale. Ben più scozzonato, da questo punto di vista, è “Compare Paladino”, imprenditore miliardario di Buffalo. Piccolo particolare: ha 64 anni e fino a ieri di politica non si era mai interessato.
Carl ha poi un certo gusto per la crapula e lo scherzetto da caserma: durante la campagna elettorale ha inviato ad amici e colleghi e-mail con battute razziste condite con delicatissime immagini porno. Ancora, quando un suo alleato ha definito il presidente dell’assemblea legislativa newyorkese “Anticristo” e “Hitler” (aveva l’imperdonabile difetto di essere ebreo), Paladino (nomen omen) non ha mancato di difenderlo. Tanto per gradire, ha anche proposto di spedire i poveracci nelle carceri dismesse “per insegnargli l’igiene”.
Ora, questi due soggetti saranno i prossimi candidati repubblicani per il due novembre. Questo significa che la vittoria del democratico Andrew Cuomo (altro “paisà”) nello Stato di New York è praticamente incisa su pietra. Leggermente meno scontato l’esito del voto in Delaware, dove pure sembra difficilissimo che la O’Donnell possa battere Chris Coons, del partito dell’Asinello. Contro di lei ha proferito verbo perfino Karl Rove, lo stregone delle elezioni che portò alla vittoria Bush Jr: “Le ho sentito dire abbastanza sciocchezze. Se prima potevamo vincere in otto seggi su nove, ora possiamo vincere solo in sette. In Delaware non c’è partita, abbiamo perso”.
I Repubblicani possono così dire addio al sogno di fare jackpot e sfilare ad Obama Camera e Senato. Il Presidente, che non è mai stato così in basso nei sondaggi, tira il fiato. Tanto più che non ha dovuto fare niente per evitare la debacle. Anche perché, ormai, nulla avrebbe potuto fare. I suoi avversari sapevano che per vincere negli Stati più importanti conviene presentare dei conservatori “soft”, non dei padri pellegrini redivivi, per evitare di alienarsi l’elettorato moderato e indipendente, che è decisivo. Stavolta però la situazione gli è sfuggita di mano: alle primarie sono andate a votare poche persone, per la maggior parte militanti furibondi, quindi il Tea Party era fortissimo. Quando il bacino elettorale si allargherà, tuttavia, la situazione sarà diversa.
Ma da dove salta fuori questo Tea Party? Partiamo dal nome, che si ispira al celebre “Boston Tea Party” del 1773, quando un gruppo di coloni si ribellò alle tasse della Madre Patria gettando a mare carichi di tè dalle navi inglesi (scintilla che fece scoppiare la Guerra di Indipendenza americana). Sorvolando sul triste giochino linguistico dietro la parola “party” (che vuol dire “festa”, ma anche “partito”), vale la pena di sottolineare che “Tea” è un acronimo. Sta per “taxed enough already” (già tassati abbastanza).
Lungi dall’interessarsi di alcuna questione sociale o realmente politica, infatti, i membri del Tea Party si concentrano essenzialmente su una becera e populista retorica economica. Sono nati nel 2009, quando un cronista della Cnbs Business News criticò la politica fiscale di Obama, suggerendo di protestare gettando a mare i titoli derivati (altro che tè). L’ideona ebbe successo. In nemmeno due anni il movimento è cresciuto in modo impensabile.
La protesta ha degli obiettivi specifici: vincolo al pareggio di bilancio federale, controlli contro gli sprechi delle agenzie, abolizione della riforma sanitaria, liberalizzazione delle politiche energetiche, falciatura delle tasse, etc. Il tutto proposto con toni roboanti, in grado di far vibrare le corde dell’anima ai reazionari meno pentiti. Non mancano, com’è ovvio, gustosi spunti razzisti.
La stampa Usa dipinge i membri del Tea Party come buffe macchiette, innocui zoticoni, rozzi illetterati. Ma è evidente che questi Tarzan della democrazia cominciano ad avere un peso sempre più rilevante. C’è di che preoccuparsi, sia da destra che da sinistra. Significativa l’immagine regalata da quell’inguaribile buontempone di Bill Clinton: “Ne ho visti parecchi - ha detto - e devo dire che rispetto a loro George W. Bush sembra un liberal”.