di mazzetta

La vicenda di Wikileaks e del disvelamento dei cablo diplomatici americani offre molti spunti per riflessioni che vanno oltre l'ovvio e si spingono molto più in là delle analisi fin qui offerte dalla maggior parte dei commentatori e dei media. L'accoglienza riservata alla massa d'informazioni diffuse da Wikileaks meriterebbe lunghe discussioni, perché a tratti la reazione di media e politici è sembrata ancora più importante dello stesso contenuto dei documenti riservati.

Ufficialmente gli Stati Uniti hanno assunto una posizione contraddittoria, oscillando tra il "non c'è niente di nuovo nei cable" e "Quello di Wikileaks è terrorismo". Delle due una, no? Ma gli Stati Uniti non sono certo nuovi a ipocrisie e contraddizioni evidenti e non deve stupire che l'unica cosa che si capisce di fronte a due affermazioni del genere è che Wikileaks ha ferito l'amministrazione americana, ben oltre la figuraccia insita nella “perdita” di una tale massa di materiali riservati.

Il fatto che gli Stati Uniti minaccino Assange senza trovare un appiglio giuridico per muovergli guerra, è una dimostrazione indubbia che Wikileaks non ha messo in atto alcun comportamento illegale. Il fatto che gli Stati Uniti detengano - in condizioni che infrangono lo stesso diritto statunitense - il soldato Manning, ritenuto la fonte dell'ultima ondata di segreti, non fa che confermare la natura piratesca dell'amministrazione americana, che negli ultimi anni non ha avuto ritegno a far stracci del diritto nazionale ed internazionale per perseguire scopi inconfessabili, travestiti malamente da azioni contro i cattivi.

Allo stesso modo sembrano ragionare molti paesi alleati degli USA, l'Italia su tutti, che ripetono come pappagalli le parole d'ordine diramate da Washington con il sostegno dei media compiacenti. Non deve stupire: le colpe di Washington sono le stesse colpe di Roma o Londra. Ecco allora che il tentativo di ridurre le rivelazioni a qualcosa di noto assume il sapore della censura, perché quello che emerge dai cablo e smentisce questa conclusione viene sistematicamente ignorato.

Così alle opinioni pubbliche si propinano le opinioni delle ambasciate, evitando però di sottolineare l'emersione di fatti incontrovertibili e decisamente incompatibili con la narrazione americana degli ultimi decenni. Se l'ambasciatore che riferisce dello stile di vita di Berlusconi riprendendo i giornali italiani è acqua fresca, in quell'acqua i media allineati cercano di annegare l'attenzione dell'opinione pubblica, trascurando ben più solide rivelazioni.

Non è un caso che sia passato quasi inosservato il cablo nel quale il ministero della signora Clinton ordinava ai diplomatici di raccogliere ogni genere d'informazione, comprese le impronte digitali e campioni del DNA, sui dignitari stranieri che incontrano. Ma se è passato inosservato agli occhi delle opinioni pubbliche, non si può dire lo stesso per le diplomazie, che ora si rifiutano d'incontrare gli inviati americani in presenza dei loro staff.

Se n'è lamentato il vicepresidente Biden, ma anche il suo lamento ha avuto scarsa eco, perché è molto difficile convincere le opinioni pubbliche che è colpa di Wikileaks se i capi di stato stranieri non vogliono esporsi a questo tipo di spionaggio americano ed è ancora più difficile spiegare a cosa serve raccogliere impronte e DNA di ministri e capi di stato.

Così come non è strano che sia passata inosservata la rivelazione per la quale furono gli Stati Uniti a ordinare all'Etiopia l'invasione della Somalia. Uno scherzo costato centomila vittime e due milioni di profughi, peggio dell'Afghanistan o come il Darfur, che però ha avuto una copertura mediatica senza paragoni, forse perché lì la guerra è stata scatenata e sostenuta dall'alleato confinante (il Ciad) contro un governo ostile e “islamico” è stata trasformata in una catastrofe umanitaria per colpa dei soliti musulmani cattivi. È bene ricordare che l'invasione etiope della Somalia fu presentata ufficialmente come un'iniziativa del governo etiope e che gli Stati Uniti finsero addirittura di criticarla, mentre bombardavano i somali per aiutare gli etiopi.

Una terza guerra americana che ha avuto una tale copertura mediatica da non essere dibattuta nemmeno di striscio, sparita tra l'indifferenza e qualche balla. Mitico è il caso caso del Corriere della Sera, dove Magdi Allam scrisse che era sostenuta dall'Unione Africana il giorno stesso che l'UA diffondeva una dura condanna destinata a non raggiungere mai le opinioni pubbliche occidentali. Un fallimento totale, perché dopo due anni d'occupazione gli etiopi si sono ritirati e gli USA hanno promosso un governo tra l'UIC (Unione delle Comunità islamiche, che avevano preso il potere prima dell'attacco etiope) e i signori della guerra che Washington sponsorizza da anni.

Solo che nel frattempo la resistenza nazionale all'invasione etiope ha dato vita a formazioni “islamiche” ancora più estremiste di quelle che si voleva cacciare. Un fallimento che non può essere considerato tale solo perché non se n'è accorto nessuno (somali a parte) o perché quei pochi che se ne sono accorti hanno preferito parlare d'altro o mentire secondo convenienza.

Allo stesso modo non deve stupire che gli interventi americani in Yemen e Pakistan soffrano degli stessi vizi, con governi inetti e corrotti che permettono agli americani d'intervenire bombardando sul loro territorio cercando disperatamente di negare l'intervento agli occhi dei propri concittadini. Così come non deve stupire il sostegno a dittatori e sovrani assoluti in giro per il mondo, almeno fino a che si adeguano alle esistenze statunitensi e lo spietato cinismo con il quale la diplomazia americana ignora massacri e infrazioni dei diritti umani nei paesi che ritiene amici.

Una tradizione che dura almeno dai tempi di Kissinger. Così i crimini di guerra del governo dello Sri Lanka non arrivano mai all'attenzione pubblica, nessuno discute dell'assistenza militare a spietate dittature, nemmeno quando gli Stati Uniti fanno i salti mortali e infrangono le loro stesse leggi per sostenere veri e propri criminali, come nel caso del dittatore del Ciad Deby, al quale gli Stati Uniti forniscono assistenza nonostante una legge americana proibisca il finanziamento dei paesi che impiegano i minori in guerra.

Si potrebbe continuare a lungo con la lista delle ipocrisie e delle truffe che le amministrazioni statunitensi hanno propinato, soprattutto ai propri cittadini, negli ultimi anni. Siamo arrivati solo alla pubblicazione di una frazione dei cablo sottratti al segreto, ma già è chiaro che la loro pubblicazione sarà depotenziata secondo queste linee d'azione, fidando anche sul fatto che ben pochi governi avranno voglia di reagire con decisione a comportamenti che per lo più condividono.

Non sarà certo la Gran Bretagna, che i cablo rivelano impegnata ad addestrare squadre della morte nel Sud-Est asiatico, a scagliare la prima pietra; è determinante per Londra il ruolo ancillare e l'evidente desiderio di andare a ruota degli americani, conquistando il ruolo di alleato privilegiato di Washington a costo di danneggiare l'Unione Europea per compiacere i cugini americani.

E si può star certi che non sarà la dittatura egiziana a dare risonanza ai cablo che inguaiano Tel Aviv, così come ugualmente ritrose si sono rivelate la monarchia saudita e la dittatura clericale iraniana, che hanno preferito deplorare le rivelazioni, piuttosto che utilizzarne alcune ed esporsi così alla vergogna veicolata da altre.

Se c'è una verità che emerge dalla (parziale) diffusione dei cablo americani, è la tragica visione d'insieme, che restituisce un mondo animato da governi lontanissimi dal rispetto della legalità nazionale e internazionale, un mondo nel quale gli Stati Uniti intervengono quasi ovunque a tutela dei propri interessi (soprattutto economici, arrivando senza problema a supportare le peggiori dittature criminali quando conviene.

Un'immagine molto diversa da quella (già poco credibile) degli esportatori di democrazia, che restituisce una politica estera improvvisata, di volta in volta affidata a qualche geniale stratega, convinto che il fine giustifichi i mezzi (qualsiasi mezzo) , ma che proprio sui fini spesso sembra confusa, quando i fini non sono addirittura inconfessabili.

Un'immagine dilettantesca e a tratti criminale, con gli Stati Uniti immersi fino al collo in relazioni e operazioni illecite, spesso intraprese senza alcun motivo apparente che non sia il mantenimento di un dominio e di un controllo che poi sono tali solo all'apparenza, visto che nonostante l'invadenza del Dipartimento di Stato e delle numerose agenzie, i simpatici alleati fanno comunque come credono in funzione dello loro rispettive agende interne.

Quello che si evince dalla vicenda Wikileaks è che la prima e unica potenza planetaria non ha una politica estera, non agisce per promuovere la democrazia e i diritti umani, non rispetta le leggi, nemmeno le proprie. Sostiene e nutre spietate dittature, pratica costantemente il doppio standard con alleati e nemici e, quando è all'angolo, ricorre alla violenza o a metodi da mafiosi per uscirne. Proprio la vicenda Wikileaks conferma il ricorso a metodi da mafiosi, perché per danneggiare Wikileaks (che nessuno ha accusato di nulla d'illegale) il governo americano ha sollecitato l'intervento di numerose corporation che hanno negato i loro servizi a Wikileaks sulla base di una semplice adesione ai desideri di Washington.

Peggio del peggio, bullismo dei peggiori unito al totale disprezzo della legge e della cultura giuridica moderna e a un'ipocrisia plateale; perché oggi tocca a Wikileaks e domani potrebbe toccare al New York Times o agli altri media, che pure hanno diffuso i cablo senza finire all'indice, che risulteranno sgraditi al governo perché ne esporranno crimini, errori od orrori. Oggi non si scandalizza nessuno, ma che direste se le banche chiudessero i conti a La Repubblica perché pubblica rivelazioni sgradite al governo italiano?

Sì, il materiale pubblicato da Wikileaks è roba seria e le conseguenze della sua diffusione dovrebbero essere serie, se solo avessimo a che fare con classi dirigenti serie e responsabili, controllate da media indipendenti e sistemi giudiziari più sensibili alla regola della legge che ai desideri dei potenti.

Putroppo non esiste niente di tutto questo e anche le opinioni pubbliche sono da tempo sedate e ridotte a pubblico televisivo, incapaci di giudicare questioni per le quali non sono preparate, preferiscono giudicare i leader (di quello si sentono capaci) come giudicano i personaggi televisivi. Per questo sono poche le persone che hanno un'idea di cosa ci sia nelle carte di Wikileaks, mentre sono tantissime quelle che esprimono giudizi a caso, preferibilmente sul suo portavoce Assange, o che sbrigano la questione abbracciando almeno uno dei punti di vista di Washington, di preferenza il "non c'è niente di nuovo nei cablo”, che da noi si traduce nel berlusconiano “è solo gossip”. La magica frase con al quale si liquidano gli scandali di Berlusconi, funziona benissimo anche per Wikileaks.

Tanto i cablo non li legge nessuno, nemmeno i giornalisti nostrani, che ne riferiscono parzialmente cogliendo fior da fiore, solo dopo che qualche giornale straniero se n'è occupato. La maggior parte dei giornalisti italiani sono notoriamente allergici ai fatti, alle verifiche documentali e alla coerenza; ma per rendersene conto non serviva certo Wikileaks.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Ha 47anni. Si chiama Michail Borisovic Chodorkovskij. E’ uno dei massimi oligarchi della nuova Russia. Opera nel campo dell’industria petrolifera ed è stato alla testa di quella compagnia-piovra chiamata “Yukos”. Ed è appunto al vertice di questa impresa che ha operato come un monarca accumulando ricchezze incredibili ricorrendo a impressionanti evasioni fiscali. Tutto nel segno d’intrighi politici e diplomatici.

E’ così divenuto il simbolo di una Russia arrogante, mafiosa, basata sulle tangenti e sull’uso politico dell’economia. Di qui - favorito dalla sua origine ebraica e di conseguenza appoggiato dalle potenti lobby israeliane presenti nel paese - ha dato il via a una campagna di attacchi nei confronti del Cremlino. E ha individuato in Putin - altro oligarca allevato però nel settore della nomenklatura poliziesca - il vero nemico.

E’ cominciata così la lotta tra i due. Con Chodorkovskij che ha sempre apertamente affermato di voler arrivare alla poltrona presidenziale. Un concorrente forte non solo economicamente, ma anche appoggiato da lobby internazionali, negli Usa e in Israele. Tutto ok sino al 25 ottobre del 2003, quando per lui scattano le manette. Perché la sua compagnia Yukos (ai primi posti nel mondo per produzione ed esportazione) finisce nel mirino degli organi statali di controllo che scoprono un giro di evasioni per gli anni dal 2001 al 2003. E l’oligarca, mentre si dispiega una guerra di posizioni, finisce nel carcere di Chita, in Siberia.

Comincia il processo. A difendere l’oligarca corrono tutti gli uomini della lobby israeliana, che puntano a presentare il giudizio come una vera resa dei conti messa in atto da Putin contro un eventuale concorrente. Processo politico, quindi, con le tangenti e le evasioni che passano in secondo piano. Accanto a Khodorkovski (in galera insieme al suo partner Platon Leonidovi? Lebedev) arriva l’avvocato Vadim Kljuvgand, il quale concentra la difesa accentuando il fattore politico dell’intero processo. La procura ha chiesto 14 anni di carcere e, puntuale, è arivata la condanna per sottrazione di petrolio e riciclaggio.

Ma le acque dell’intera vicenda sono più che mai torbide. Nella scena generale c’è anche il recente licenziamento del tanto chiacchierato sindaco di Mosca, Jurij Luskov. E nella capitale non a caso ci si chiede cosa abbia accelerato i tempi della sua cacciata...

Forse la causa - anche in questo caso - è la corruzione, oggetto ufficiale delle crociate di Medvedev. Che evidenziano in primo luogo come la famiglia di Lužkov, attraverso la compagnia di costruzioni della moglie, l'Inteko, abbia beneficiato grandemente della sua carica. E così in questo momento due sono le questioni che battono alle porte del Cremlino. Per Putin c’è la resa dei conti con Khodorkovski e per Medvedev il contenzioso con l’eredità mafiosa di Luzkov e compagni vari.

E siamo alle nuvole di tempesta dell’oggi, con il processo d’appello sul caso Khodorkovski nelle aule del tribunale di Chamovniceskij - sempre a Mosca - con il giudice Viktor Danilkin. I due oligarchi vengono ancora una volta condannati pur se cadono alcuni capi d’accusa.

Il caso, quindi, continua e per il premier russo c’è sempre la cappa di questa arma letale che si chiama Khodorkovski. Perchè attorno all’oligarca (che è, ripetiamo, una delle figure più odiose e corrotte del firmamento russo attuale) si vanno raccogliendo lobby mafiose ed ebraiche che hanno una notevole influenza nella vita politica ed economica della Russia. Tanto è vero che nei picchetti in difesa dell’oligarca condannato figurano cartelli di questo tipo: “Cambio Putin per Khodorkovski”.

E’ anche questa la prova che si è nel pieno di un processo politico dove Putin individua l’arma letale che molti vorrebbero far esplodere sul suo cammino. Ecco perché il premier nei giorni scorsi, con una battuta da caserma (com’è nel suo stile poliziesco) ha affermato che “i ladri devono stare in galera”. E il Tribunale, rispettoso della legge, ha fornito subito una sentenza adeguata al diktat.

Eppure, uscendo dal Tribunale, la società russa di questi giorni si trova a dover affrontare domande di questo genere: siamo già all’inizio della fine del regime putiniano? Come mai oggi Medvedev decide di andare allo scontro con Putin? Le prossime elezioni registreranno una lotta all’interno del Cremlino? La Russia è pronta a mutamenti radicali? L’elite russa sarà incorporata nel tessuto della società occidentali?

Le risposte che vengono avanti sono molte e spesso di diverso orientamento. Una cosa sembra però chiara: in Russia si è di fronte ad una classe dirigente carica di paradossi con un ceto tutt’altro che compatto e uniforme. Con Medvedev che si presenta come leader di una possibile modernizzazione, facendo nascere una nuova speranza di “disgelo”. Con Putin che si presenta invece come un castigatore, duro, tutto teso a difendere le strutture del Cremlino.

Ed ecco che c’è anche chi sostiene che questo tandem Putin-Medvedev (un conservatore e un riformatore moderato) potrebbe anche essere un vero gioco delle parti: una sorta di forma efficace per la conservazione del potere e del conseguente prolungamento della vita di una gestione personalistica e pluralistica. I teorici del Cremlino, non a caso, ricordano i pericoli di quella “sindrome gorbacioviana”, cioè la perdita del monopolio del potere. E così, nonostante la stanchezza nei confronti di Putin, evidentemente c’è chi preferisce il noto all'ignoto.

di Eugenio Roscini Vitali

Mentre l’Argentina e l’Uruguay riconoscono la Palestina come Stato indipendente, nel vicino Medio Oriente la tensione torna ad essere alta: come riferito dal portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, la scorsa settimana circa 26 razzi Aqsa3 e diversi colpi di mortaio hanno colpito il Negev occidentale. Negli attacchi, rivendicati dai gruppi Ayman Jawda, cellule combattenti delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, è stato centrato l’asilo d’infanzia del  kibbutz di Zikim, pochi chilometri a sud della città portuale di Ashkelon, dove è rimasta ferita una ragazzina.

Pronta la reazione dello Stato ebraico: otto sortite aeree contro i tunnel scavati lungo sotto la Philadelphi Route, zona cuscinetto ad ovest di Rafah che divide l’Egitto dalla Striscia di Gaza e su un campo di addestramento delle Brigate Ezzedin al Qassam, situato nei pressi della città Khan Yunis, dove secondo fonti locali sono rimasti feriti due miliziani del braccio armato del movimento di resistenza islamico. Gli F-16 avrebbero poi bombardato un’area ad est di Beit Lahiya, dove i miliziani sarebbero miracolosamente scampati all’attacco, una serra agricola e un caseificio nella cittadina di Asda al-I’lamiya, sempre ad ovest di Khan Yunis, e altri quattro raid sarebbero stati compiuti ad est del quartiere di az-Zaytun, distretto orientale di Gaza, contro il vicino campo profughi di Jebaliya e nell’area di Beit Hanoun, la città palestinese situata a pochi chilometri dal valico di Erez.

A quasi due anni dall’operazione Piombo Fuso, la campagna militare lanciata il 27 dicembre 2008 contro Hamas dalle Forze armate israeliane durante la quale sono morti 13 israeliani e 1417 palestinesi, 926 dei quali civili, nella Striscia di Gaza è tornato l’incubo della guerra. Secondo fonti palestinesi, dalla fine di novembre i bombardamenti avrebbero causato 12 morti e 28 feriti e, in previsione di nuovi attacchi, le autorità ospedaliere avrebbero annunciato lo stato d’allerta. Il 23 dicembre si tornato a sparare anche nella zona agricola a ridosso della linea di confine, la fascia di trecento metri sul lato palestinese interdetta alla popolazione araba: nel corso di uno scontro a fuoco con l’esercito israeliano avvenuto ad est di Beit Lahiya un uomo sarebbe stato ucciso ed altri tre sarebbero rimasti feriti.

L’episodio ha fatto salire ulteriormente la tensione, ma in realtà la tregua entrata in vigore il 18 gennaio 2009 non è mai stata rispettata: nonostante il cessate il fuoco i miliziani del movimento islamico hanno continuato a lanciare i razzi Grad e Qassam contro le aree abitate di Ashkelon, Sderot, Eshkol e Ofakim, mentre i raid aerei israeliani hanno portato a termine violente rappresaglie che, nel solo 2010, hanno causato la morte di almeno 68 persone oltre ai dirigenti dei gruppi radicali e le basi del movimento combattente ma hanno colpito anche la popolazione civile.

Per disinnescare le tensioni delle ultime settimane Hamas sarebbe pronto ad aprire un tavolo di trattative per concordare una tregua reciproca, una proposta già avanzata altre volte ma che non ha poi trovato riscontro nei fatti. Nei giorni scorsi il capo dell’esecutivo, Ismail Haniyeh, ha lanciato un appello pubblico alla comunità internazionale affinché contribuisca a fermare l’escalation militare e dopo le preghiere del venerdì, davanti ad una folla di sostenitori, il leader Mahmoud Al-Zahar ha detto che, ad eccezione di gruppi minori, il movimento di liberazione e le altre fazioni presenti nella Striscia di Gaza si sono già impegnati per un cessate il fuoco, a patto che Israele lo rispetti: «Siamo impegnati nella moderazione, se non ci saranno oppressione e aggressione».

Anche il capo negoziatore dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), Saeb Erekat, ha definito la situazione di Gaza “pericolosa”, soprattutto per le ripercussioni che potrebbe avere un’eventuale operazione militare israeliana nel Territorio controllato Hamas: «Un attacco contro la Striscia complicherebbe la situazione e trascinerebbe la regione nella completa anarchia, nella violenza e nel sangue».

Secondo una fonte militare israeliana della BBC «finché Hamas resterà al potere nella Striscia di Gaza, una nuova guerra nel territorio palestinese è solo questione di tempo». Negli ultimi due anni il movimento di liberazione si sarebbe riarmato ed avrebbe ora a disposizione un consistente numero di missili 9M133 Kornet (nome in codice NATO AT-14 Spriggan), sistema d’arma anticarro di fabbricazione russa con guida laser a fascio, raggio d’azione di 5,5 chilometri e testata a carica cava di tipo HEAT (High Explosive Anti-Tank), con capacità di penetrare una corazza reattiva-esplosiva (ERA) e un’armatura in acciaio di 1200 mm.

Le numerose informative dell’intelligence israeliana e il tank danneggiato il 6 dicembre scorso da un Kornet lanciato dalla Striscia di Gaza, hanno indotto il comando delle forze armate israeliane a dispiegare lungo il confine con il territorio palestinese il 9° Battaglione corazzato della 401^ Brigata, il primo e fino ad ora unico reparto dotato dei carri armati Merkava Mk-4 equipaggiati con il nuovo sistema di difesa antimissilistica Windbreaker.

Il Windbraker non è la classica corazza applicata ormai su tutti i carri armati per proteggerli dalle armi a carica cava e dai missili anticarro, protezioni passive in molti casi efficaci ma che appesantiscono e rallentano i mezzi: è un vero e proprio sistema d’arma dotato di piccoli radar sistemati sui quattro lati che neutralizza la minaccia prima ancora che questa raggiunga il bersaglio; una volta intercettato l’ordigno in arrivo un computer elabora i dati e a un lanciatore apre il fuoco sul missile facendolo esplodere.

Il Windbraker, prodotto e collaudato nel 2005 dalla Rafael di Haifa con l’indicativo ASPRO-A Trophy (Active Protection System for AFVs), è in grado di colpire più missili contemporaneamente e per la sua efficacia è stato utilizzato in Iraq sui blindati statunitensi Striker; ogni kit ha un costo di circa 300.000 dollari ma in futuro potrebbe essere sviluppata una versione Light che l’esercito israeliano potrebbe installare sui veicoli cingolati da combattimento, sui blindati e sui mezzi utilizzati per il trasporto truppe.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Per la sua diretta dipendenza dall’ex presidente della Russia Putin, è stato sempre definito (anche sulla base della sua statura) come “Liliputin”, il “piccolo Putin”... Ora però Dmitrij Anatol’evic Medvedev (classe 1965, al vertice della Russia dal maggio 2008) si libera dall’etichetta che gli è stata affibbiata. E lo fa in modo clamoroso (mostrando una orgogliosa autonomia) in un’intervista a reti unificate dei tre maggiori canali televisivi  della Russia e dopo che Putin aveva occupato la tv statale con una intervista fiume di oltre quattro ore densa di affermazioni autoritarie ed antidemocratiche.

Ed ora Medvedev si è preso il gusto della rivincita a tutto campo mettendo in luce tendenze e traiettorie nuove. Stanco, evidentemente, di essere un secondo, umiliato ed offeso. E così vuota il sacco. Lo fa dapprima mettendo in rilievo i più importanti eventi dell’anno uscente nella vita interna del paese (superamento della crisi, svolta nella politica nei confronti del mondo d’infanzia, caldo anomalo di questa estate, 65esimo anniversario della Vittoria sul nazismo, sicurezza e Start 2  in dirittura d’arrivo). Poi, in appena due ore, sferra l’attacco. Ed è - pur se con giri di parole - che affronta il rapporto con Putin.

Prende spunto dalle gravi affermazioni fatte ultimamente dal premier, in tv, a proposito del processo che vede imputato l’oligarca Michail Borisovic Chodorkovskij (classe 1963) arrestato nel 2003 per evasione fiscale e da allora in galera. Putin – con una battuta ripresa da un telefilm di successo e relativa al fatto che “i ladri devono stare in prigione” – ha in pratica dettato la sua linea alla magistratura, violando ogni regola di elementare diritto. E così Medvedev lo ha sconfessato, riportando l’intera questione sul piano giuridico e facendo notare che chi dirige il Paese non deve fornire risposte in grado di fare pressioni sulla Magistratura.

A questo proposito - respingendo piccoli giochi politici interni - ha voluto ricordare che in Russia la democrazia sta uscendo dall’ambito parlamentare, in quanto non è rappresentata soltanto dalle istituzioni e da norme procedurali, ma  è anche espressione diretta dell’opinione pubblica, pure attraverso Internet. Ha poi parlato di democrazia diretta e, quindi, un nuovo affondo su Putin.

Perchè ha voluto mettere in evidenza che ci sono, in Russia, anche altri esponenti del mondo politico e sociale che possono venire avanti sino ad arrivare alle più alte cariche del Paese. E non a caso ha fatto i nomi di una serie di nemici personali di Putin... “Voglio fare - ha detto Medvedev - una dichiarazione ufficiale. Per dire che vi sono personaggi nel mondo politico attuale ed anche persone che non sono nel giro del Parlamento - come Michail Kasjanov, Eduard Limonov, Boris Nemtsov e Garry Kasparov - che possono benissimo salire ai vertici del Paese…”.

Un avvertimento molto esplicito alla vasta schiera di laudatores del primo ministro. Tutto questo per non parlare di altri due goal messi a segno da questo presidente che si sta ritagliando un suo grande spazio politico. Sullo sfondo c’è la cacciata dell’oligarca Jurij Michailovic Luskov da sindaco di Mosca (e della sua banda dominata dalla moglie Elena Baturina, una palazzinara di livello mondiale...) e la nomina del nuovo capo della città l’ingegnere Serghiei Semionovic Sobianin, classe 1968, un siberiano pragmatico che potrebbe divenire il “castigatore” degli oligarchi che imperversano in una Mosca (sono parole sparate in diretta tv da Medvedev) “sempre più corrotta”. Si può dire - senza paura di essere smentiti visto l’imprimatur presidenziale - che comincia l’era di Medvedev. Prima covava sotto le ceneri. Ora no.

 

di Michele Paris

Tra i provvedimenti più importanti che l’amministrazione Obama adotterà nei primi mesi del 2011, secondo alcune indiscrezione della stampa americana confermate dalla Casa Bianca, c’è una misura che legittimerà definitivamente la detenzione illegale dei presunti terroristi ospitati nel carcere di Guantánamo. La direttiva giungerà sotto forma di decreto presidenziale e, ricalcando le orme della precedente amministrazione, autorizzerà la detenzione a tempo indeterminato dei prigionieri, senza che nessuna accusa formale venga sollevata nei loro confronti.

Appena insediato alla Casa Bianca nel gennaio del 2009, Barack Obama promise solennemente di chiudere la struttura detentiva di Guantánamo entro un anno. Di fronte alle resistenze del Congresso (a maggioranza democratica) e in seguito alla politica sulla sicurezza nazionale da allora perseguita dalla stessa amministrazione, a quasi due anni di distanza non solo il famigerato carcere rimane operativo, ma ci si prepara addirittura ad un riconoscimento ufficiale degli abusi ai quali l’allora neo-presidente aveva promesso di porre fine.

A preparare l’opinione pubblica americana per l’imminente annuncio sono stati recentemente due articoli apparsi sul Washington Post e sulla testata investigativa indipendente ProPublica. Fonti governative anonime avrebbero rivelato come la nuova politica dell’amministrazione Obama sia in fase di elaborazione da oltre un anno, mentre l’addetto stampa di Obama, Robert Gibbs, ha successivamente confermato come la Casa Bianca stia studiando una soluzione per quei “prigionieri che necessitano di detenzione indefinita”.

L’iniziativa del presidente istituirà un sistema di revisione periodico della situazione di quei detenuti a Guantánamo - attualmente 48 - che vengono considerati troppo pericolosi per essere rilasciati e, allo stesso tempo, che non possono essere perseguiti legalmente in quanto sottoposti a tortura per ottenere presunte prove dei loro legami con organizzazioni terroristiche. Nel carcere di Guantánamo sono rinchiusi anche altri 126 accusati di terrorismo, la cui sorte risulta ancora incerta.

La valutazione dei singoli casi verrà affidata ad una commissione speciale, teoricamente simile alle commissioni per la libertà vigilata del sistema penale americano, con la differenza che queste ultime hanno a che fare con prigionieri che hanno subito una condanna definitiva. Tramite audizioni periodiche, i membri di questa commissione dovrebbero esaminare se i detenuti continuino a rappresentare una minaccia o se al contrario possano essere rilasciati e trasferiti in un paese terzo senza rischi per la loro incolumità.

Tale sistema dovrebbe rimpiazzare le procedure stabilite in precedenza dall’amministrazione Bush, già congelate da Obama e che prevedevano un’audizione annuale davanti ad una commissione militare, di fronte alla quale i detenuti non potevano essere rappresentati da avvocati difensori. La nuova direttiva in fase di formulazione, invece, dovrebbe comprendere membri della commissione non solo militari, una rappresentanza legale per i sospettati e l’accesso alle prove raccolte nei loro confronti.

Gli ospiti di Guantánamo vengono da anni tenuti in stato di detenzione sotto la categoria di “nemici in armi”, una definizione adottata all’indomani dell’11 settembre per aggirare il diritto internazionale e la stessa costituzione americana nel nome della cosiddetta guerra al terrore. In questo modo, presunti affiliati ad Al-Qaeda o a gruppi talebani possono essere imprigionati e tenuti in un limbo legale per un periodo di tempo indefinito.

Nonostante la condanna pronunciata più volte da Obama in campagna elettorale e all’inizio del suo mandato alla Casa Bianca verso i metodi anti-democratici promossi dal suo predecessore, l’eventuale chiusura di Guantánamo non era peraltro dettata da particolari scrupoli per il mancato rispetto dei diritti umani. Il carcere sull’isola di Cuba rappresentava per il presidente il simbolo dell’odio verso gli Stati Uniti, da qui la necessità di mettere in atto un’operazione di facciata e quindi chiuderlo definitivamente.

La fine delle detenzioni a Guantánamo, così, non ha mai rappresentato la premessa dell’abbandono definitivo degli abusi. Tant’è vero che da subito il Dipartimento di Giustizia si era adoperato per individuare strutture carcerarie sul territorio americano idonee ad ospitare i presunti terroristi. Il propagandato ritorno alla legalità promesso da Obama, insomma, non è mai stato altro che un trasferimento di massa da un lembo di terra su un isola caraibica ad un carcere negli Stati Uniti, dove i detenuti avrebbero continuato a rimanere imprigionati senza alcuna giustificazione legale.

Ora, l’ordine esecutivo del presidente che si annuncia a breve lascia pensare che nessuna chiusura di Guantánamo avverrà in tempi ragionevoli. Tanto più che nell’ultima seduta dell’anno il Congresso ha approvato una misura che stabilisce severe restrizioni al trasferimento in territorio americano dei sospettati di terrorismo rinchiusi a “Gitmo”, anche se per sottoporli ad un processo in sede civile. Ciò complica ulteriormente i piani di Obama, il quale inoltre difficilmente metterà il proprio veto sulle restrizioni al trasferimento perché approvate all’interno del provvedimento che rifinanzia le guerre di Iraq e Afghanistan.

Le conseguenze della posizione che prenderà ufficialmente l’amministrazione Obama sulle detenzioni illegali sono state prospettate dalle varie associazioni a difesa dei diritti civili che si battono da tempo per il ritorno alla legalità negli USA. Per il Center for Constitutional Rights, organizzazione che rappresenta molti prigionieri di Guantánamo, il decreto presidenziale in arrivo “getta le basi per trasformare le carceri americane in luoghi dove persone da tutto il mondo vengono rinchiuse senza accuse né processi, erodendo enormemente i principi della Costituzione e il diritto internazionale”. Per l’American Civil Liberties Union, una tale misura finirebbe per “normalizzare e istituzionalizzare la detenzione indefinita e altri metodi implementati dall’amministrazione Bush”.

Le rivelazioni della stampa americana, in ogni caso, non devono cogliere troppo di sorpresa, dal momento che l’amministrazione Obama ha già fatto ampiamente ricorso ai procedimenti anti-democratici nei confronti dei sospettati di terrorismo e autorizzati dal Congresso americano nel settembre del 2001. Ciò lascia pensare che il sistema che sarà ufficializzato tra pochi mesi verrà applicato anche ad altri prigionieri, oltre a quelli detenuti a Guantánamo.

La politica anti-terrorismo di Obama, d’altra parte, non si è discostata di molto da quella di chi lo ha preceduto. In questi due anni, infatti, oltre ad assicurare l’impunità per i responsabili degli abusi nella precedente amministrazione, il presidente democratico non ha esitato ad autorizzare detenzioni senza fondamento legale, omicidi mirati anche di cittadini americani all’estero e bombardamenti indiscriminati in paesi non in guerra con gli USA che hanno mietuto centinata di vittime civili.


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