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di Eugenio Roscini Vitali
La storica visita in Abkhazia del presidente russo, Dmitrij Medvedev, è stata l’ennesima dimostrazione di forza con la quale Mosca vuole riaffermare la sua influenza politica sul Caucaso e fermare le ambizioni di rivincita diTbilisi sulle regioni georgiane auto-proclamatesi indipendenti. L’8 agosto scorso, nel discorso ai militari della caserma russa di Gudaula, 30 chilometri ad ovest della capitale georgiana Sukhumi, Medvedev ha ricordato l’aggressione subita dai fratelli abcasi e osseti e il sacrificio dei soldati russi morti per la loro libertà.
E poche ore dopo, con l’omologo Sergej Bagapsh, il capo del Cremlino ha parlato di collaborazione politica ed economica, di “territori occupati e liberati” ed in tema di sicurezza ha riaffermato la necessità di una strategia comune; una strategia che si è subito concretizzata con l’installazione nell’ex provincia georgiana di un numero non precisato di batterie missilistiche S-300PMU1, il modernissimo sistema di difesa aerea capace di ingaggiare simultaneamente 12 obiettivi e di abbattere non solo aerei ma anche missili balistici tattici.
La posizione di Mosca è chiara. Il comandante delle forze aeree russe, il Generale Alexander Zelin, legittima il dispiegamento dei sistemi di difesa aerea come parte del programma di cooperazione militare con l’Abkhazia e, attraverso l’agenzia Interfax, il Cremlino ha fatto sapere che gli S-300PMU1 sarebbero stati installati nella regione separatista già due anni fa e che quello degli ultimi giorni altro non è che un leggero ricollocamento delle batterie. Per il portavoce del Ministero degli Esteri, Andrey Nesterenko, i missili fanno parte intergrate degli equipaggiamenti militare dislocati nelle basi russe in Abkhazia e il loro utilizzo è di tipo strettamente difensivo: «Il loro spiegamento non può in alcun modo destabilizzare la situazione nella regione e quindi non viola gli impegni internazionali della Russia».
Completamente diverso è il punto di vita georgiano. Il presidente Mikhail Saakasvili considera l’atteggiamento russo una vera e propria provocazione, un’iniziativa pericolosa e preoccupante: «<I missili cambiano i rapporti di forza» e sono un motivo in più per puntare in tempi rapidi all’ingresso della Georgia nella NATO. Il vice ministro degli Esteri, David Jalagania, ritiene che la presenza degli S-300 in Abkhazia sia una minaccia per l’area del Mar Nero e per la sicurezza della stessa Europa: «Chiediamo ai Paesi amici e alla comunità internazionale di fare pressioni sulla Russia affinché demilitarizzi la regione e ritiri delle proprie truppe».
Un appello immediatamente raccolto dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Unione Europea, Catherine Ashton, che considera il dispiegamento di un tale sistema di armi «una contraddizione con l’Accordo in sei punti di cessate il fuoco,una misura che potrebbe rischiare di aumentare ulteriormente le tensioni nella regione; le visite ufficiali in Abkhazia e Ossezia del Sud dovrebbe essere fatte nel pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale della Georgia».
Sta di fatto che però tutti sapevano dell’esistenza vera o presupposta degli S-300. Lo scorso 17 febbraio l’Abkahzia e l’Ossezia del Sud hanno infatti sottoscritto con la Russia un accordo che prevede la presenza permanente di truppe russe nella base abcasa di Gudauta e in quella ossetta di Tskhinvali: 3.400 militari (1.700 per ogni comando), carri armati T-62, blindati leggeri, sistemi di difesa aerea, elicotteri da combattimenti e velivoli da trasporto.
L’intesa fa parte di un patto di cooperazione che risale al settembre del 2009 e che include un contratto di affitto dei siti militari che, previa rinnovo, dovrebbe scadere nel 2060. Agli uomini del Federal Security Service (FSB), i servizi segreti russi, è stato già affidato il controllo della frontiera (aprile 2009) e i militari hanno ormai in mano gran parte delle infrastrutture, inclusa la base navale abcasa di Ochamchira, situata a pochi chilometri dai porti georgiani di Poti e Supsa, importanti terminal per il trasporto di risorse energetiche.
Ma la protezione ha un costo ed oltre ai missili S-300, l’11 agosto sono arrivati da Mosca anche i tecnici della compagnia statale OAO Rosneft Oil Company, azienda di trivellazione impegnata nella ricerca e nell’estrazione di gas e petrolio che al largo della repubblica separatista georgiana ha già dato inizio ai lavori di prospezione di nuovi giacimenti.
Il Caucaso è sempre stata una regione in perenne ebollizione e si può dire che è stato così sin dall’epoca degli zar. Le rivolte e le guerre interne si fermarono con l’Unione Sovietica solo perché il Cremlino adottò la politica delle deportazioni di massa e lasciò mano libera alle elite locali, le stesse che dopo il crollo del muro di Berlino si misero a disposizione della nuova Russia o, come nel caso della Georgia, degli Stati Uniti.
Attraverso il dislocamento dei sistemi missilistici S-300, Mosca non vuole quindi ribadire il solo appoggio alla causa indipendentista dell’Abkhazia; cerca piuttosto di dimostrare che la Russia continua ad influenzare la politica sociale ed economica di quello che viene definito lo spazio caucasico post-sovietico, un’area dove gli Stati Uniti, e l’amministrazione Bush in particolare, hanno ottenuto vantaggi enormi, vantaggi che il Cremlino non vuole e non può più concedere.
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di Mario Braconi
Hanno fatto il giro del mondo le due disgustose foto che la ex soldatessa israeliana, Eden Abergil, ha postato lo scorso fine settimana sul suo profilo di Facebook. In una di esse, la giovane, in divisa, posa per l’obiettivo sullo sfondo umano di tre palestinesi bendati ed ammanettati con le tristemente note stringhe di plastica, uno dei marchi di fabbrica delle Forze di Forze di Difesa Israeliane (IDF); nell’altra, più difficile da reperire in Rete, Eden, seduta accanto ad un prigioniero palestinese, sembra rivolgersi con atteggiamento ironicamente seduttivo verso un poveraccio, seduto con le mani legate dietro la schiena, la vista impedita da uno straccio legato alle tempie, il capo piegato da un lato nella posizione internazionale dello sconforto e della disperazione.
Entrambe le immagini sono fastidiose, ma la seconda è un involontario capolavoro. Vi si scorgono da un lato odio, disprezzo, arroganza, sarcasmo; dall’altro dolore, miseria, rassegnazione, umiliazione. Un documento disturbante quanto utile a comprendere il livello di dis-umanizzazione cui inevitabilmente conduce la guerra. Come giustamente sottolinea il portavoce dell’Autorità Palestinese, Ghassan Khatib, “questo episodio mostra la mentalità dell’occupante, che é fiero di umiliare i Palestinesi; l’occupazione non è solo ingiusta ed immorale, ma, come dimostrano queste immagini, é moralmente corrosiva”.
Il vergognoso comportamento della soldatessa ha scatenato reazioni sdegnate in Israele, cosa che solleva e conferma la necessità morale (e giornalistica) di distinguere con nettezza il popolo israeliano dalle scelte spesso criminali ed controproducenti del suo governo. Va riconosciuto che anche l’Esercito israeliano ha stigmatizzato con ammirevole nettezza il comportamento della soldatessa: “Queste foto sono una disgrazia - ha dichiarato alla TV della Associated Press il Capitano Barak Raz, un portavoce delle forze armate - a prescindere da considerazioni relative alla sicurezza; qui si sta parlando di gravi violazioni ai principi morali e alle linee guida etiche dell’Esercito. Non v’è dubbbio che - ha proseguito il portavoce dell’esercito - se la signora Abergil fosse ancora un militare (purtroppo si è congedata nel 2008... ndr), sarebbe sottoposta al giudizio di una corte marziale.” Forse farà sorridere quel richiamo all’etica e alla morale, ma va riconosciuto che di censura inequivocabile si tratta. Piuttosto sarebbe interessante capire se la condotta della Abergil costituisca una violazione alla legge civile, visto che quella militare la lascerà impunita...
L’unica persona apparentemente inconsapevole della gravità dei fatti documentati sul social network è la diretta interessata, che, nel corso di un’intervista ad una radio israeliana, si è detta molto delusa dalla scarsa comprensione dell’esercito per quella che lei continua a considerare una leggerezza, una ragazzata: “Ho servito il mio Paese per due anni nella West Bank ed ora l’esercito mi scarica a causa di quelle stupide foto. Sono molto delusa”. Come nota sul blog del giornale Yael Lavie, capo della Redazione Medio Oriente di Sky News, “é proprio l’incapacità di Eden a comprendere il significato delle sue stesse azioni il dato con cui l’intera nazione dovrà fare i conti. Sarà pur vero che si tratta di una ragazza con poca esperienza di vita e con ancor meno sale in zucca, però bisogna anche riconoscere - sostiene la Lavie - che è in qualche modo il prodotto malato di quaranta anni di occupazione: è proprio quella sua prima reazione a caldo (“non capisco proprio cosa ci sia di male, li [i Palestinesi fermati] ho usati come sfondo per le mie foto”) ad esemplificare tragicamente come “non solo l’occupazione ci corrompa, ma finisca per erodere anche quelli che dovrebbero essere i valori fondamentali per le nuove generazioni”.
Commenta da par suo la vicenda il giornalista Max Blumenthal in un post del suo blog personale, efficacemente titolato “Eden Abergil, il risultato di una società bendata”: “Non occorre andare [come ha invece fatto lui ndr] nella West Bank o in una prigione israeliana per comprendere che comportamenti come quelli della Abergil sono il frutto di una società profondamente militarizzata”. Blumenthal invita i suoi lettori a vedere il documentario “To see when I’m smiling” (“Da guardare quando sorrido”) diretto da Tamar Yarom. Sono 60 minuti agghiaccianti nei quali alcune ex soldatesse israeliane, pescando a piene mani dal proprio vissuto, danno conto dei cambiamenti di personalità, della sovversione dei valori e della costruzione di maschere psicologiche sperimentati sulla propria pelle a causa della cultura di guerra nella quale ogni donna israeliana di 18 anni è obbligata (volente o nolente) ad immergersi.
Particolarmente sconvolgenti due episodi: quello di di una donna che a suo tempo ha posato per una “foto ricordo” in cui sorride radiosa vicino al cadavere di un palestinese cui il destino non ha voluto risparmiare nulla, essendo egli passato a miglior vita con addosso i chiari segni di un’inutile erezione. Racconta Blumenthal che, nel corso del documentario, alla donna viene proposta quella orribile immagine vecchia di due anni: “L’espressione contorta del suo volto sembra non volersi identificare con quel mostro ritratto: ero veramente io?”.
L’altro episodio vede protagonista una sergente che improvvisamente sente il bisogno irrefrenabile di sputare addosso ad un palestinese, la cui unica colpa era quella di trovarsi sulla strada percorsa dalla sua pattuglia: un adolescente che, oltre allo sputo, si è buscato pure qualche schiaffone, più il trattamento standard (benda e manette). Il fatto è, prosegue la sergente, che era innocente: altro che terrorista, era solo un ragazzo che ronzava un po’ troppo vicino alla base e ha finito per farsi acchiappare.
E’ interessante il modo in cui il senso dell’umanità abbia, sia pur tardivamente, fatto breccia in quel cuore ottenebrato: “Sì, mi è capitato di pensarci il giorno della Memoria, tipo, ci pensi e dici: ehi, ma noi ci siamo passati prima di loro, ci sono successe cose molto simili, sono esseri umani dopo tutto...”. La speranza è che la società israeliana faccia tesoro di questi documenti brutali e abbia uno scatto di orgoglio: se non ai “nemici” palestinesi, lo deve senz’altro ai suoi figli, quelli i cui corpi e la cui anima stanno sacrificando da decenni.
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di Carlo Musilli
Dopo minacce, provocazioni e sanzioni punitive, alla fine qualcosa di concreto sul fronte del nucleare iraniano è accaduto. Rosatom, l’agenzia nucleare russa, ha fatto sapere che il 21 agosto trasporterà 64 tonnellate di uranio arricchito nel reattore nucleare della città-porto di Bushehr, Iran del sud. La centrale è nata negli anni 70 per mano dell’azienda tedesca Siemens, che è fuggita dal Paese dopo la rivoluzione islamica di Khomeini del 1979. I russi sono subentrati nel 1995, impegnandosi a ricostruire la centrale, reattore incluso, e a formare il personale. I lavori si sono trascinati a lungo, rallentati da continue sospensioni dovute a non meglio precisate “ragioni tecniche”.
Sembra che per anni Mosca abbia sfruttato la costruzione dell’impianto come arma diplomatica: non appena gli amici mediorientali facevano qualcosa di sgradito alla Grande Madre Russia, saltava fuori una bella “ragione tecnica”. Al contempo, i rinvii tornavano utili anche per placare momentaneamente i bollenti spiriti degli Stati Uniti, i nemici più agguerriti dell’arroganza iraniana verso l’Onu. Ma ormai ci siamo, la centrale è finita. Fra pochi giorni taglieremo il nastro.
Ali Akbar Salehi, capo dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica, ha invitato alla festosa cerimonia anche gli ispettori dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica di Vienna. Una bella soddisfazione, dopo le recenti sanzioni Onu e Ue contro il programma nucleare dell’Iran. Ma, soprattutto, una dimostrazione d’autonomia e di forza da parte della Russia. “L’attivazione di Bushehr - spiega la Ria Novosti, un’agenzia russa - rispetta totalmente le norme internazionali vigenti e il regime di non proliferazione”, ma il fatto che arrivi a così breve distanza dal duplice atto di sanzione non può non avere un significato.
In realtà, quello del 21 agosto sarà solo il primo dei tre passi che porteranno al vero avviamento della centrale. Ci vorranno infatti ancora tre mesi prima di iniziare a produrre energia elettrica: 160 barre di combustibile da 700 chili l’una andranno caricate nel nocciolo, quindi si potrà iniziare con la fissione, che per le prime settimane sarà tenuta a livelli minimi in modo da consentire i test di sicurezza. Quando finalmente inizierà a funzionare, la centrale produrrà plutonio, che potrebbe essere usato per realizzare armi atomiche. Per questo motivo la Russia ha posto una condizione agli iraniani: se volete l’uranio, dovete riconsegnarci il plutonio.
Nonostante questa lodevole accortezza, il Cremlino è stato accusato di anteporre i propri interessi commerciali alla sicurezza dell’Europa e di Israele. Da Mosca hanno risposto che il contratto da un miliardo di dollari per la centrale di Bushehr è stato firmato addirittura nel 1995 e ormai non ha più alcun interesse per loro. L’avvio del nuovo impianto pone invece le premesse perché un giorno tutte le attività nucleari iraniane si svolgano sotto l’egida dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
C’è da credere che l’atteggiamento collaborazionista della Russia abbia fatto venire l’orticaria all’intero corpo diplomatico Usa, che da mesi cerca di isolare l’Iran per costringerlo a trattare. Nel marzo scorso, quando Vladimir Putin ha rivelato che la centrale di Bushehr sarebbe entrata in funzione ad agosto, Hilary Clinton ha definito la decisione “prematura”, chiedendo a Mosca di rimandare l’avvio del reattore mediorientale a tempi meno sospetti. Voleva esser sicura che Tel Aviv non rischiasse di far la fine di Nagasaki. Purtroppo il segretario di Stato convive ancora con le sue angosce.
Eppure, formalmente, gli Stati Unti non hanno problemi con la centrale di Bushehr. E’ vero, quindici anni fa erano contrari alla collaborazione Russia - Iran, ma nel 2006 hanno avuto modo di ricredersi. A colpi di bianchetto, ogni riferimento a Bushehr è stato cancellato dalle sanzioni dell’Onu contro la repubblica islamica. In cambio, Mosca ha sottoscritto il documento. Stessa storia anche per le tre successive risoluzioni delle Nazioni Unite contro Teheran.
Questo però non è bastato ad ammansire gli yankee nella loro crociata contro il nucleare iraniano. Secondo Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, “se la Russia si occupa di rifornire di combustibile la centrale e di ritirare poi le scorie, l’Iran non ha evidentemente alcun bisogno di sviluppare una propria capacità di arricchimento”. Il fatto che Teheran non interrompa il programma per l’arricchimento dell’uranio, quindi, alimenta sempre più il dubbio: gli iraniani stanno sfruttando il programma nucleare civile per coprire lo sviluppo di armi atomiche? Loro continuano instancabilmente a negare, “il nucleare - dicono - ci serve per l’elettricità”, ma in pochi sono disposti a credergli sulla parola. Ahmedinejad non somiglia per niente a Enrico Mattei.
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di Luca Mazzucato
NEW YORK. “I musulmani hanno lo stesso diritto di praticare la loro religione come chiunque altro in questo paese. E questo include il diritto di costruire un luogo di culto e un centro culturale su proprietà privata a Manhattan.” Così Barack Obama alla cena ufficiale alla Casa Bianca per celebrare l'inizio del Ramadan, il mese musulmano di digiuno e preghiera. Il Presidente dà il via libera alla costruzione del centro islamico che ha creato un polverone sui media americani.
Il giorno dopo, in visita nel Golfo, Obama precisa di non aver commentato sull'opportunità o meno di costruire la moschea, che dipende esclusivamente dalle amministrazioni locali, ma semplicemente di aver ribadito il diritto fondamentale alla libertà religiosa. La precisazione è stata letta come un parziale passo indietro dalla sinistra e come segno di vulnerabilità dai repubblicani, che hanno subito attaccato a testa bassa il Presidente.
L'estrema destra del Partito Repubblicano sta giocando una carta molto pericolosa per le elezioni di Novembre: soffiando sul fuoco del risentimento anti-islamico, forte nella fascia di popolazione bianca e cristiana. Per far questo, con la complicità iniziale dei media come Fox News (che in seguito ha ritrattato), è stato creato il caso della “moschea a Ground Zero,” sotto la voce “attacco all'America.”
Questi i fatti. Mentre i lavori di ricostruzione dell'isolato di Ground Zero nel cuore di New York proseguono alacremente, si è scoperto un piano da cento milioni di dollari per la costruzione di un importante centro culturale islamico, denominato "Pack51" o "Cordoba House": un palazzo di tredici piani che include piscina, palestra, auditorium e, infine, una moschea. Il punto più interessante è che il centro non sorgerà a Ground Zero, ma a due isolati di distanza. E nel raggio di due isolati sono già presenti altre due moschee, su cui Sarah Palin e Newt Gringich non hanno apparentemente nulla da ridire.
“Musulmani amanti della pace, per favore capite, la moschea a Ground Zero è una provocazione inutile; ci pugnala al cuore.” Così l'ex-governatore dell'Alaska Sarah Palin su Twitter. Secondo Newt Gringich, “l'America sta subendo un'offensiva politica e culturale da parte islamica, disegnata per distruggere la nostra civiltà. Finché l'Arabia Saudita non permetterà la costruzione di sinagoghe e chiese, noi non possiamo lasciare che i musulmani costruiscano una moschea a Ground Zero.” Come dire, finché i Nazi continueranno ad uccidere gli ebrei perché noi non possiamo sterminare i giapponesi?
Gli attivisti dell'Iniziativa in Difesa della Libertà Americana, tragicamente privi di senso dell'umorismo, hanno comprato le pubblicità sugli autobus della municipalità di New York e fra una settimana cominceranno ad apparire cartelli con degli aerei in volo contro le Torri Gemelle, accompagnati dalla scritta “WTC Mega Moschea” e “Perché lì?”
In rotta di collisione frontale con il Primo Emendamento, che sancisce la libertà di religione come un pilastro della Costituzione americana, i Repubblicani negli Stati del Sud e del Midwest stanno lanciando una campagna senza quartiere contro la costruzione di centri culturali islamici. Siccome la battaglia contro i matrimoni gay è ormai perduta, la nuova stella polare repubblicana è l'intolleranza contro musulmani da una parte e contro gli immigrati sudamericani dall'altra.
Anche se servirà a rastrellare qualche voto tra gli estremisti, è ovvio che questa volgare messinscena alienerà tutto l'elettorato moderato (per non parlare dei milioni di americani musulmani o di lingua spagnola). Ma i Repubblicani ormai sono un'armata brancaleone senza leader né programma.
Ma vediamo cosa ne pensano i diretti interessati. Secondo i sondaggi, i newyorchesi si dividono a metà tra favorevoli e contrari al progetto, anche se i residenti a Manhattan sono in maggioranza a favore. Michael Bloomberg, il miliardario sindaco di New York, ha fatto del progetto della moschea una bandiera della sua amministrazione, rilanciando i valori di tolleranza e ospitalità, che non sono negoziabili nemmeno in cambio della sicurezza. Non resta alcun dubbio che la moschea verrà infine costruita, se non altro perché a Wall Street (il quartiere in questione) comanda il denaro e i cento milioni di dollari di investimento non si toccano.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. È stata chiusa in questi giorni ad Amburgo la moschea Taiba, entrata nelle cronache di tutto il mondo qualche anno fa per essere stata frequentata dagli attentatori delle Torri Gemelle. La polizia amburghese ha sigillato l'edificio ufficialmente lunedì, sospendendo senza indugio l'associazione islamica cui il luogo di culto faceva capo. Per quanto drastica, la misura di sicurezza non ha causato nessuno shock nella comunità islamica: già da tempo, in effetti, la maggior parte dei musulmani tedeschi aveva preso le distanze della comunità Taiba proprio in ragione delle sue ideologie troppo radicali.
E Taiba, da parte sua, non voleva avere nulla a che fare con la maggior parte dei fedeli all'Islam tedeschi. Rimangono ora da chiarire gli effetti concreti della chiusura della moschea, soprattutto in relazione alla mancanza di una strategia più profonda nella guerra al terrorismo.
La moschea Taiba è nata come moschea Al Quds più di dieci anni fa: Al Quds è il nome arabo dato a Gerusalemme, la città simbolo dei conflitti arabo-israeliani. Fondata nel 1996 nel quartiere di St. Georg, la moschea ha acquisito la sua “cattiva reputazione” nel 2001, in seguito all'attacco al World Trade Center di New York: tre dei dirottatori dell'11 settembre - Mohammed Atta, Marwan al Shehhi e Ziad Jarrah - la frequentavano quotidianamente e risultavano iscritti alla comunità cui fa capo la moschea, l'associazione islamica Al Quds.
Presso il luogo di culto pregavano anche altri presunti complici dell'attentato alle Torri Gemelle, tra cui Ramsi Binalshibh, uno dei capi e ideatori dell'azione terroristica, arrestato nel 2002 in Pakistan, e diversi sostenitori diretti dei dirottatori. Sono tante le figure controverse legate alla moschea, forse troppe, e, proprio per questo, ha destato l'attenzione del mondo: dal 2001 la moschea Al Quds è stata sempre e immancabilmente messa in relazione all'ala più estrema dell'Islam.
Tra gli oratori della moschea si conta in realtà qualche personaggio dalle ideologie tanto rigide da toccare l'estremismo. Come il predicatore marocchino Mohammed al Fasasi, che avrebbe addirittura fomentato gli stessi attentatori dell'11 Settembre e avrebbe fornito loro le basi ideologiche per l'attacco del terrore. Secondo quanto riporta il quotidiano tedesco Tagesspiegel, al Fasasi avrebbe istigato i suoi fedeli con parole come "avete il compito di cancellare la dominazione degli infedeli, ucciderne i bambini, conquistarne le donne e distruggerne le case".
Frasi che, purtroppo, lasciano parecchio campo a interpretazioni e fraintendimenti in ogni direzione. Al momento, al Fasasi sta scontando una pena di 30 anni in un carcere in Marocco: le autorità autoctone segnalano un allontamento del predicatore dall'estremismo ideologico, ma ciò non ha impedito alla moschea Al Quds di conservare la sua fama di terrore.
Nel 2008 la moschea di Al Quds è diventata la moschea Taiba. In arabo, Taiba significa "la bella": con il nuovo nome, pulito e innocente, si è cercato forse di dare aria nuova a un luogo di culto ormai schiacciato dal pregiudizio. Anche se, in realtà, non è cambiato nulla: il centro ha continuato a costituire un punto di ritrovo per islamisti particolarmente rigidi e presunti estremisti. Nel marzo 2009, l'ultimo episodio della serie. Un gruppo di fedeli è partito da Amburgo per arruolarsi in un campo di addestramento per terroristi al confine tra Afghanistan e Pakistan: tutti aspiranti militanti che, secondo le autorità tedesche, avrebbero frequentato assiduamente la moschea Taiba.
Uno del gruppo, in particolare, è apparso nel video di propaganda terroristica di Al Qaida che ha fatto il giro del mondo nell'ottobre 2009. Sotto il nome di Abu Askar, armato di kalashnikov e spada, il ragazzo incitava alla guerra santa contro gli infedeli. Per quel che riguarda le autorità amburghesi, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e le conseguenze non hanno tardato ad arrivare.
La reazione delle autorità tedesche non si é fatta attendere. La polizia ha perquisito la moschea Taiba e quattro appartamenti di proprietà di membri del consiglio direttivo dell'associazione che le fa capo: l'edificio è stato chiuso e l'associazione Taiba è stata messa ufficialmente al bando. Il comune di Amburgo si è detto soddisfatto dell'azione: "Abbiamo chiuso la moschea perché qui si educavano i giovani al fanatismo religioso", ha spiegato in Christoph Ahlhaus (CDU), il senatore per gli affari interni di Amburgo. "Reclamizzando la guerra santa", ha aggiunto, l'associazione Taiba ha "vergognosamente sfruttato la libertà concessa dalla democrazia".
Resta da capire ora fino a che punto la misura di sicurezza abbia effettivamente un senso. La politica ha avuto ottimi motivi per chiudere la moschea, questo è fuor di dubbio, concedendo anzi all'associazione Taiba parecchio tempo per "redimersi". Per gli estremisti la moschea aveva "assunto un alto valore simbolico" e, secondo l'ente per la tutela della Costituzione di Amburgo, rischiava di incentivare le persone a "diventare eroi".
E ora anche la chiusura della moschea Taiba rischia di assumere un ruolo del tutto simbolico e di dare risultati poco concreti. Tanto per cominciare, d'ora in poi sarà più difficile tenere sotto controllo la scena radicale di Amburgo: la moschea poteva servire alle forze di sicurezza da spioncino per osservarne gli associati considerati pericolosi. Senza dimenticare l'importanza che vanno assumendo internet, appartamenti privati, palestre e prigioni stesse per la propaganda degli estremisti, dove però le forze di sicurezza non agiscono in maniera strategica.
In Gran Bretagna, ad esempio, si cerca di affrontare la questione in maniera "propedeutica": agli ex-predicatori radicali ravveduti il compito di salvare i giovani dall'illusione di una propaganda sbagliata. Ed è così che, nel mondo anglosassone, si rendono inutili la chiusura di una moschea o la proibizione di una associazione religiosa.