di Michele Paris

Il patto appena siglato tra la Casa Bianca e il Partito Repubblicano per il prolungamento di altri due anni dei tagli alle tasse introdotti da George W. Bush nel 2001 per tutti i contribuenti americani, sembra aver inferto un colpo mortale ai rapporti tra Barack Obama e la sinistra del Partito Democratico. Lo spostamento sempre più a destra del presidente in questi primi due anni del suo mandato sta sollevando, più in generale, un coro di critiche tra la base del partito e i commentatori liberal. Alcuni di questi ultimi recentemente hanno così prospettato per la prima volta la possibilità concreta, nelle primarie democratiche del 2012, di opporre ad Obama un candidato “di sinistra”, nell’illusione di convincere il partito ad adottare una vera agenda progressista.

L’ennesimo compromesso cui è sceso Obama è stato dettato, a suo dire, dal ricatto messo in atto da un Partito Repubblicano fresco di vittoria nelle elezioni di medio termine dello scorso novembre. Grazie al lavoro del vice-presidente Joe Biden, la Casa Bianca avrebbe ottenuto quanto meno il prolungamento dei sussidi di disoccupazione per tredici mesi e altre modeste misure fiscali a beneficio dei lavoratori a basso reddito. In cambio, i repubblicani si sono assicurati un’estensione dei tagli alle tasse in scadenza a fine anno per tutti i redditi, forzando la mano ad un presidente che intendeva invece confermarli solo per quanti dichiarano entrate non superiori ai 200 mila e ai 250 mila dollari, rispettivamente per single e famiglie.

L’accordo bipartisan aggiungerà qualcosa come 900 miliardi di dollari ad un deficit già colossale e che gli stessi repubblicani continuano ad indicare come l’emergenza principale del paese. Il passaggio al Congresso non è in ogni caso assicurato, dal momento che soprattutto alla Camera dei Rappresentanti numerosi esponenti democratici devono ancora essere convinti della bontà del provvedimento. Anche perché, in un periodo di crisi appare difficile spiegare a milioni di americani in crisi un’iniziativa che destinerà un quarto dei tagli fiscali complessivi all’uno per cento della popolazione in cima alla scala dei redditi. Come se non bastasse, alcune fasce di reddito più basse vedranno addirittura aumentare il loro carico fiscale, mentre l’esenzione dalla tassa di successione (abbassata dal 55 al 35 per cento) è stata alzata da uno a cinque milioni di dollari e il tetto sul carico dei “capital gains” fissato ad un misero quindici per cento.

Proprio la trattativa sui tagli alle tasse pare avere segnato una rottura definitiva tra Obama e la costellazione liberal fatta di editorialisti, società civile e associazioni sindacali più o meno allineati al Partito Democratico. Il disagio sentito da costoro riflette una speranza perennemente frustrata di vedere i democratici adottare prima o poi un programma progressista, o quanto meno battersi per esso. Questa delusione palpabile, ormai ampiamente diffusa negli editoriali dei media cosiddetti di sinistra, nasce in realtà da una vana illusione e dall’incapacità di valutare il Partito Democratico per quello che è: cioè un partito, come quello repubblicano, interamente asservito agli interessi delle élite economico-finanziarie che rappresentano i veri centri del potere negli Stati Uniti come altrove.

L’auspicio di un’irrealizzabile svolta a sinistra con un candidato dalle credenziali autenticamente progressiste, da proporre per la nomination democratica del 2012, non differisce di molto dall’inutile attesa di molti liberal americani per un Obama finalmente in grado di mantenere la promessa di cambiamento che lo proiettò verso il successo nel 2008. A conferma della natura illusoria delle aspettative che si nutrono a sinistra del Partito Democratico, c’è d’altra parte l’impietosa realtà di questi ultimi anni. Se infatti i democratici non sono stati in grado di lavorare per una società più giusta nonostante la conquista della presidenza e le ampie maggioranze nei due rami del Congresso dopo le elezioni del 2006 e del 2008, è necessario forse cominciare a farsi qualche domanda sulla vera natura del partito.

Un dubbio questo invece che non inquieta mai una classe di intellettuali liberal che, come lo stesso Partito Democratico, non mette ormai più in discussione un modello sociale ed economico, come quello capitalistico, che negli ultimi tre decenni non ha fatto altro che creare disuguaglianze, precarietà, miseria e guerre, per non parlare della distruzione dell’ambiente e della continua compressione dei diritti civili. A guidare i democratici seduti al Congresso e alla Casa Bianca sono esclusivamente gli interessi di quei poteri forti che finanziano le loro campagne elettorali milionarie e che, allo stesso modo, pagano ricchi stipendi a editorialisti e intellettuali incapaci di far intravedere una visione di società alternativa ad una working-class e ad una classe media sempre più prive di vera rappresentanza politica.

Una dimostrazione esemplare di quest’attitudine della stampa liberal d’oltreoceano si è potuta leggere in alcuni interventi dello scorso fine settimana, a seguito dell’annunciato compromesso sui tagli fiscali. La popolare pubblicazione on-line The Huffington Post ha ospitato, ad esempio, due editoriali di autorevoli commentatori progressisti. Il primo, Robert Kuttner, fondatore e co-direttore della rivista liberal The American Prospect, critica Obama per aver spostato a destra il baricentro della sua amministrazione dopo la batosta di medio termine. La deriva centrista della Casa Bianca appare agli occhi di Kuttner la conseguenza dell’incapacità di Obama di “agire da leader progressista”. Il fallimento che viene attribuito al presidente sembra essere un mero deficit personale e la sua ipotetica sostituzione nelle presidenziali del 2012 dovrebbe perciò bastare a implementare un’agenda progressista.

È poi preoccupazione di Kuttner che Obama possa diventare l’Herbert Hoover democratico, il presidente repubblicano che precedette Roosevelt e la cui eredità principale sarebbe a suo dire l’aver dato vita ad una generazione di egemonia democratica a Washington. Un timore singolare, visto che solo due anni fa l’avvento di Obama veniva salutato dai media liberal come l’alba di un dominio democratico che sarebbe durato per molti anni. Da queste premesse fuorvianti derivano inevitabilmente due proposte illusorie: il rilancio di un movimento di attivisti dal basso che possa galvanizzare un elettorato del tutto sfiduciato e la promozione di un candidato progressista nelle primarie del 2012.

Sullo stesso Huffington Post ha scritto poi Clarence B. Jones, docente a Stanford e già amico e confidente del reverendo Martin Luther King. Anche per Jones il problema è la gestione del potere di Obama e la sua inclinazione personale al compromesso con i repubblicani, dimenticando le aspettative degli elettori. Da qui perciò un altro appello ad una sfida da sinistra nelle primarie democratiche, come accadde nel 1968, quando il senatore del Minnesota Eugene McCarthy si oppose a un Lyndon Johnson che appariva intoccabile e che finì invece per abbandonare la corsa alla presidenza.

La prospettiva di un nuovo trionfo repubblicano di qui a un paio d’anni è infine la premessa per una simile proposta avanzata dal rabbino progressista Michael Lerner, attivista politico e direttore del magazine Tikkun. Dalle colonne del Washington Post, Lerner prevede gli effetti devastanti di un successo repubblicano nel 2012 per l’economia, l’ambiente, la giustizia sociale e il prolungamento del conflitto in Afghanistan, senza rendersi conto che in tutti questi ambiti la situazione è già peggiorata in questi anni, nonostante le affermazioni democratiche del 2006 e del 2008. Per Lerner un candidato democratico alternativo tra due anni non avrebbe alcuna chance di ottenere la nomination ma servirebbe a spostare a sinistra il baricentro di un secondo mandato Obama. Quest’ultimo, infatti, sarebbe pressato da un movimento popolare, la cui mobilitazione appare tuttavia alquanto improbabile, viste le cocenti delusioni seguite alle presidenziali del 2008.

Abbozzare una lista di possibili candidati da opporre a Obama appare al momento impossibile. Per Matt Bai del New York Times, l’unica personalità in grado di sostenere un tale ruolo sarebbe l’ex segretario del Partito Democratico, Howard Dean. Già governatore del Vermont, Dean non sembra però intenzionato a correre nuovamente per una nomination, soprattutto dopo che il suo tentativo nel 2004 fallì miseramente dopo solo due successi ottenuti nel suo Stato e nel District of Columbia.

Se Obama dovrà sostenere una battaglia interna al partito in vista delle presidenziali del 2012 è in ogni caso troppo presto da prevedere. Quel che è certo è che un tale scenario non contribuirà a cambiare un sistema paralizzato da un bipartitismo che non permette lo sviluppo di una politica di contrasto ai grandi interessi economici e finanziari. A comprenderlo perfettamente sono quei cittadini americani che hanno rinunciato da tempo a partecipare ad elezioni che servono unicamente a legittimare la linea pro-business di un Partito Democratico che si dichiara paladino di lavoratori e classe media solo in campagna elettorale.

A non volerlo capire ancora è invece un’intellighenzia pseudo-progressista, che non vede alternative di sinistra oltre il Partito Democratico e che appare completamente integrata in un sistema che le assicura posizioni di prestigio e profumati compensi. Non a caso, in tutte le analisi dei commentatori sopra citati non vi è nemmeno l’ombra di un riferimento ad un progetto di riorganizzazione delle forze liberal al di fuori del Partito Democratico, l’unica strada percorribile per rompere una struttura di spartizione del potere che continua ad escludere la grande maggioranza dei cittadini americani.

di mazzetta

A una settimana dall'esplosione del Cablegate si possono già trarre alcune conclusioni sicure. Prima fra tutte che chi dice che trattarsi di gossip mente sapendo di mentire o avrebbe fatto meglio a leggerne qualcuno prima di scrivere un'enormità del genere. Allo stesso livello di certezza c'è la veridicità del materiale, certificata dagli Stati Uniti che ne piangono la sottrazione.

Altrettanto certo è che Wikileaks non ha commesso alcun reato divulgandoli, come non l'avrebbe commesso un qualsiasi altro media più tradizionale. Altro dato certo è che sul piano penale gli Stati Uniti possono aggredire solo la persona che ha fatto uscire le informazioni e non chi le pubblica, ancora meno se le pubblica all'estero.

Lo dimostra il fatto che nessuna azione è stata intrapresa per fermare le pubblicazioni del The New York Times o degli altri giornali che accompagnano le pubblicazioni con titoli capaci di scuotere i governi di mezzo mondo. Nessun paese ha preso iniziative legali contro Wikileaks, solo il nostro ministro Frattini ha gioito per l'arresto di Assange e solo lui ha invocato la sua incriminazione per reati che non ha commesso o da inventare allo scopo, un'autorevole conferma del fatto che non esista terreno legale per dire che Wikileaks ha commesso un crimine.

L'ostilità verso Wikileaks e il suo portavoce Assange ha quindi il sapore di una vendetta, nulla di legale o democratico, tanto che il governo degli Stati Uniti ha chiaramente aperto una guerra sporca al sito cercando di fargli terra bruciata intorno. Le pressioni sulle aziende che poi hanno negato i loro servizi a Wikileaks sono state testimoniate da chi le ha subite e non hanno nulla di rituale o di democratico. Il fatto che ora queste aziende siano ora sotto attacco da parte di gruppi libertari che abbattono i loro siti come birilli é invece la dimostrazione di una refrattarietà della rete, intesa come ambiente sociale dotato di proprie peculiarità, ai soprusi. Sulla stessa trincea si situa l'apparire di oltre un migliaio di siti che offrono il re-indirizzamento a Wikileaks o una sua copia virtuale e quest’operazione da sola dimostra l'impossibilità di oscurare tecnicamente la diffusione dei documenti.

Un'azione solidale che costituisce un importante contrappeso alle illegalità governative e agli abusi commessi dalle corporation divenute strumento di questa guerra sporca, ma non c'è da gioire se governi e conglomerati finanziari decidono di fare carne di porco dei diritti dei cittadini, nemmeno se poi raccolgono figuracce. Sono azioni di una gravità enorme e testimoniano un grado di complicità che travolge le previsioni normative creando una zona grigia nella quale complicità, illegalità e impunità diventano una sola cosa.

Nessuna istanza giurisdizionale perseguirà questi comportamenti (e questo è grave) ma sarà difficile trovare qualcuno disposto a perseguire anche gli eventulai crimini svelati in quei messaggi. Basti per tutti la reazione di Luis Moreno Ocampo, il Procuratore capo dell'ICC, il Tribunale Penale Internazionale, che ha già messo le mani avanti dicendo che i cablo non potranno essere usati per accusare gli Stati Uniti, perché si tratta di materiale sottratto illegalmente.

Un'aggressione tanto scomposta e sopra le righe, se non altro ha avuto il pregio di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio quale delle due parti in causa sia animata dalle peggiori intenzioni e disposta a giocare sporco per soddisfarle. Se Assange è finito in prigione per un'accusa assurda, lisergica se si scende nel dettaglio, non è servito mentire e indicarlo al mondo come imputato per uno stupro anche se non c'è stato nessuno stupro e non c'è nemmeno alcuna imputazione formale, solo un ordine di comparizione per essere sentito su quel caso.

Al momento appare un'altra mossa controproducente e la detenzione di Assange sembra deporre a suo favore presso le opinioni pubbliche che la percepiscono come ingiusta. Già questo esito dovrebbe sconsigliare un'escalation a colpi di leggi speciali o la sua eliminazione fisica, già auspicata da più di un politico nordamericano, ma ancora non ci sono all'orizzonte segnali che indichino un cambio di rotta.

Gli Stati Uniti stanno sbagliando tutto. Servirebbe una piccola considerazione, che per ora sembra sfuggire solo a loro e ad alcuni rappresentanti delle destre più rozze, come quella italiana: non c'è un solo partito di destra - al di fuori degli Stati Uniti - che possa giustificarne l'ossessivo ingerire negli affari degli altri paesi, fatto che emerge con chiarezza dalla somma dei cablo, quando si arriva al proprio. Il nazional-patriottismo è carne e sangue delle destre (e non solo) e ancora oggi è ovunque un potente ingrediente della formazione del sé politico.

Tanto più che proprio il giudizio delle ambasciate della prima potenza al mondo, sia il semplice riportare quello che appare sulla stampa locale o questioni più delicate, rappresentano ovunque un'opportunità per le lotte politiche locali che ben pochi sono disposti a lasciarsi sfuggire per compiacere Washington.

Il bullismo con il quale Washington sta rispondendo a Wikileaks riecheggia inoltre la stessa protervia con la quale l'amministrazione Bush ha piegato la realtà e le leggi internazionali ai suoi voleri e l'azione di Obama risulta indistinguibile nello stile da quella di Cheney, minando così l'eccezionale successo d'immagine conseguito proprio con l'elezione di Obama e confermando la delusione dell'elettorato progressista americano che del famoso change non ne ha visto l'ombra.

Se gli Stati Uniti sono ancora quelli tragici di Bush, quelli che hanno portato mezzo mondo alla guerra mentendo e tutto il mondo alla recessione con il fallimento delle truffe finanziarie delle loro banche non regolate, non é pensabile che a destra come a sinistra, al Nord come al Sud, le opinioni pubbliche possano apprezzare l'attivismo di Washington e le attenzioni dedicate ai rispettivi paesi e che sono descritte dai file di Wikileaks.

Il gradimento sarà per di più inversamente proporzionale al crescere del nazional-patriottismo nei diversi soggetti, che tenderanno per questo a identificare gli Stati Uniti non solo nella categoria dei cattivi, ma in alcuni casi li piazzeranno direttamente in quella dei nemici della patria, con l'ovvia conseguenza di minare il genuino entusiasmo con il quale le destre hanno sempre accolto l'attivismo americano in giro per il mondo.

Sarà l'immaturità delle opinioni pubbliche o sarà che i comuni cittadini non ci guadagnano nulla a reggere la parte agli Stati Uniti, la battaglia mediatica contro Wikileaks sembra già persa e bene farebbero gli americani a concentrarsi sul come rimediare al danno, perché a tutti appare chiaro che i primi responsabili di questa ecatombe sono proprio a Washington, dove hanno messo in piede un sistema per la circolazione delle informazioni segrete che si è rivelato un vero e proprio colabrodo.

I prossimi mesi dovranno poi essere impegnati ad ammortizzare l'effetto delle scomode rivelazioni e a lenire gli alleati offesi, paese per paese quando non persona per persona, e ancora non sarà finita, perché non è detto che il danno si possa riparare solo decidendo di rimescolare il personale diplomatico per evitare imbarazzi e mandare la povera Clinton a dire a tutti che sono “il migliore amico degli Stati Uniti”, che è pure un'investitura dal valore in ribasso ultimamente.

Siamo ad appena un migliaio di cablo pubblicati, ma il Golgota del Dipartimento di Stato é lungo duecentocinquanta volte tanto e la battaglia contro Wikileaks è già persa. Meglio impegnarsi per riconquistare rispetto e credibilità internazionale. Eleggere Obama non è stato sufficiente.

 

di Michele Paris

Nella tarda serata di venerdì 26 novembre, circa dieci mila abitanti di Portland si sono ritrovati nella Pioneer Courthouse Square, il salotto della tranquilla cittadina dell’Oregon, per assistere all’annuale cerimonia di accensione dell’albero di Natale. Nel corso dell’evento, secondo un annuncio sensazionalistico del FBI, è stata condotta un’operazione di anti-terrorismo che ha portato all’arresto di un teenager locale di origine somala, accusato di aver piazzato dell’esplosivo in un minivan parcheggiato nei pressi della piazza per compiere una vera e propria strage.

Il giorno successivo, il 19enne Mohamed Osman Mohamud, nato a Mogadiscio ma naturalizzato americano, è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. A ben vedere, tuttavia, a condurre ogni fase dell’operazione sono stati gli stessi agenti del FBI coinvolti nel caso, impegnati nell’ennesima montatura costruita ad arte per instillare la consueta dose di paura nell’opinione pubblica americana e mondiale.

La vittima designata dell’ultima fatica dell’agenzia investigativa federale statunitense è uno studente come tanti altri, figlio di immigrati dal Corno d’Africa installatisi nella periferia di Portland. Mohamud si era diplomato alla Westview High School di Beaverton, in Oregon, per poi intraprendere presso la Oregon State di Corvallis una carriera universitaria prematuramente interrotta lo scorso ottobre, con ogni probabilità a causa delle nuove frequentazioni con gli agenti dell’FBI sotto copertura.

Proprio questi ultimi - come accade puntualmente nel corso delle cosiddette “sting operations” - si sono spacciati per militanti islamici alla ricerca di nuovi adepti per portare a termine attentati terroristici sul suolo americano. A Portland si sono così imbattuti in un improbabile candidato, un normalissimo adolescente cui, secondo le descrizioni degli amici, piaceva bere, fumare, ascoltare musica hip-hop e giocare alla play station.

Ad attirare l’attenzione dell’FBI sono stati i presunti contatti di Mohamud con ambienti legati alla jihad in Pakistan. In particolare sarebbero state intercettate alcune sue e-mail scambiate con un uomo non meglio identificato, che agiva da reclutatore e che aveva operato in Yemen e nello stesso Pakistan prima di trasferirsi in Oregon. Le prove del primo contatto con il giovane somalo-americano - ovviamente fondamentali per giustificare la montatura dell’FBI - risultano però misteriosamente mancanti dagli archivi federali, ufficialmente a causa di un malfunzionamento dei dispositivi utilizzati per registrare le conversazioni avvenute.

Per quanto, in definitiva, non ci fosse praticamente alcuna prova concreta di un contatto diretto con terroristi islamici, Mohamud è stato piazzato su una sorta di lista nera e approcciato fin dallo scorso mese di giugno dagli agenti sotto copertura. Istigato da questi ultimi, il potenziale terrorista sembra avesse mostrato un atteggiamento sempre più aggressivo ed un crescente desiderio di creare un piano per fare quante più vittime possibili. Ad agosto, poi, l’obiettivo è stato individuato nella piazza principale di Portland. Da quel momento, l’FBI si è occupata interamente dei dettagli logistici dell’operazione, così come del reperimento dell’esplosivo e dell’autoveicolo in cui piazzarlo.

Tutto ciò che Mohamud doveva fare era digitare un numero su un cellulare che, per quanto gli era stato riferito, sarebbe servito ad innescare l’esplosione. Gli agenti dell’FBI, secondo i documenti ufficiali, gli avrebbero anche chiesto più volte se preferisse esprimere la propria rabbia verso l’America con azioni pacifiche, ma il 19enne dell’Oregon sarebbe stato irremovibile. A conferma delle sue intenzioni, sempre secondo i federali, avrebbe anche definito “grandiosi” gli attentati dell’11 settembre. La sera del finto attentato, infine, dopo aver digitato inutilmente il numero per attivare l’esplosione, Mohamud è stato arrestato con l’accusa di terrorismo, per la quale rischia ora fino all’ergastolo.

Per spiegare una vicenda che appare a tratti assurda, subito dopo l’arresto i portavoce dell’FBI hanno rilasciato dichiarazioni schizofreniche. Mentre è stato detto che la minaccia era reale, vista l’intenzione di Mohamud di portare a termine un attentato (ideato interamente dall’FBI) con l’impiego di un’arma di distruzione di massa (ugualmente fornita dall’FBI), allo stesso tempo la popolazione di Portland è stata rassicurata, poiché lo stesso 19enne non avrebbe avuto nessuna possibilità concreta di portare a termine il progetto terroristico. La gran parte dei media americani si è poi data da fare per descrivere Mohamud come un giovane radicalizzato, come ad esempio il New York Times, che con dovizia di particolari ha raccontato come durante l’arresto scalciasse e urlasse a squarciagola “Allahu akbar” (Dio è grande).

Un’analisi equilibrata dei fatti in questione dimostra che in realtà nello scorso fine settimana non c’è stata nessuna minaccia terroristica a Portland. I fatti rientrano in una ben consolidata strategia dell’FBI, secondo la quale scelti insospettabili cittadini musulmani, di solito giovani, poveri o emarginati, che vengono spacciati per estremisti islamici. Senza il coordinamento e l’appoggio degli agenti federali in incognito, questi individui non sarebbero mai stati coinvolti in azioni terroristiche. Puntualmente, alla vigilia degli attacchi studiati minuziosamente, l’FBI conduce poi arresti a cui viene dato un eccezionale rilievo mediatico.

Queste operazioni nulla hanno a che vedere con il mantenimento della sicurezza negli Stati Uniti, bensì appaiono chiaramente come operazioni studiate a tavolino per tenere in un perenne stato di paura la popolazione americana e, di conseguenza, giustificare il prolungamento delle guerre all’estero e l’adozione di misure domestiche sempre più restrittive delle libertà personali. Forse non a caso, la trama che ha portato in carcere Mohamed Osman Mohamud è giunta solo pochi giorni dopo le proteste di milioni di viaggiatori americani, costretti a passare attraverso controlli di sicurezza sempre più invasivi negli aeroporti d’oltreoceano.

Di fronte ad un tribunale federale, i legali di Mohamud hanno dichiarato il proprio assistito non colpevole e, giustamente, hanno accusato l’FBI di aver incastrato deliberatamente un giovane vulnerabile. “Le informazioni rese pubbliche dal governo sollevano seri dubbi circa la messinscena del crimine”, ha sostenuto un avvocato della difesa. “Le dichiarazioni giurate rivelano come gli agenti federali abbiano suggerito a questo ragazzo le azioni da intraprendere, abbiano speso migliaia di dollari per l’acquisto di esplosivo, lo abbiano addestrato e, in definitiva, abbiano avuto un ruolo fondamentale negli eventi di venerdì scorso”.

Per gli inquirenti e il Ministro della Giustizia americano, Eric H. Holder, tuttavia, qualsiasi ipotesi di “entrapment” appare totalmente ingiustificata. Secondo Holder, infatti, Mohamud avrebbe avuto numerose occasioni per rinunciare all’attentato, ma alla fine ha scelto di continuare su questa strada. L’isteria provocata da queste dichiarazioni e dall’intero caso ha alzato notevolmente il rischio di violenze ai danni dei musulmani negli USA. Due giorni dopo l’arresto, il centro islamico dell’Oregon dove Mohamud si recava per la preghiera è stato infatti incendiato ad opera di ignoti.

In molte occasioni, nonostante tutto, i tribunali federali che hanno ascoltato casi di “entrapment” legati a finti attentati terroristici dopo l’11 settembre hanno dato ragione alle forze di sicurezza. Tutto ciò, malgrado le stesse regole stabilite dall’FBI sulle operazioni sotto copertura definiscano “legalmente discutibile” da parte di agenti del governo indurre gruppi religiosi o politici a commettere “attività criminali che altrimenti non avrebbero avuto luogo”. Ma, come si sa, nell’America di Bush e Obama il rispetto della legge e dei diritti civili troppo spesso continua ad essere sacrificato in nome della guerra al terrore.

di Eugenio Roscini Vitali

La Costa d'Avorio è di nuovo sull’orlo della guerra civile, ostaggio di una situazione paradossale nella quale il presidente uscente, Laurent Koudou Gbagbo, si rifiuta di accettare la sconfitta elettorale e l’Onu ribadisce e “certifica” la vittoria del candidato dell’opposizione, Alassane Ouattara. Lo scenario è quello di un Paese nel caos, uno stallo politico alimentato dalle decisioni del Consiglio Costituzionale che ha invalidato una buona parte dei voti espressi nelle regioni settentrionale ed ha rovesciato il verdetto della Commissione elettorale indipendente (Cei) imposta dalla comunità internazionale.

Gbagbo, che negli ultimi cinque anni era riuscito a rinviare le elezioni per ben sette volte, ha subito approfittato della confusione e, per rimanere in sella, ha nominato un nuovo premier, l’economista e docente universitario Gilbert Marie N'gbo Ake. La decisione ha subito scatenato la furia di Guillaume Soro, ex primo ministro di un governo di unità nazionale e nemico giurato di Gbagbo, che dopo aver riconosciuto la vittoria di Ouattara ha minacciato il ritorno in campo delle milizie. Intanto, i sostenitori del neoeletto presidente hanno annunciato la costituzione di un nuovo governo e la lista di tredici ministri, tutti alleati di Ovattare, che dovrebbero costituire l’esecutivo guidato dallo stesso Soro, fresco anche lui di nuova nomina a premier.

Nei giorni scorsi, parlando all’emittente francese Europe 1, Guillaume Soro aveva detto che il presidente uscente deve ormai rinunciare ad ogni velleità e che la Costa d’Avorio si deve preparare ad un trasferimento dei poteri. Pur rimanendo convinto che la divisione del Paese è fuori discussione, l’alleato di Ouattara aveva affermato che per defenestrare Gbagdo sarebbe pronto a riorganizzare il disciolto Movimento Patriottico, il gruppo ribelle che nel 2002 fu protagonista della rivolta che spaccò in due la Costa d'Avorio tra nord islamico e sud cristiano.

«Se lui ci costringe a tanto - ha affermato Soro - non avremo altra scelta. Il suo regime è ormai finito, è stato condannato da tutti. Il suo destino è stato deciso dal sovrano popolo ivoriano. Gli saranno comunque garantite le prerogative di un ex capo dello Stato». Soro aveva anche assicurato che nel caso in cui Gbagbo avesse lasciato il potere, non ci sarebbero state «rappresaglie» contro i suoi sostenitori e i ministri del suo partito sarebbero stati i benvenuti nel nuovo governo.

Nonostante la presenza delle comunità internazionale e le misure speciali prese dalle autorità ivoriane, la tensione in Costa d’Avorio rimane altissima e gli scontri e gli atti di violenza hanno già causato numerose vittime. Quattara, che può contare sull’appoggio dell’ex-rivale nonché ex-presidente Henri Konan Bédié, sa che se lo scontro dovesse degenerare i suoi avrebbero probabilmente la peggio e per questo ha sempre invitato le fazioni che lo sostengono a non rispondere alle aggressioni dei gruppi armati fedeli Gbagbo, i Jeunes Patriotes, che secondo alcuni testimoni si sono già resi responsabili di gravi atti di violenza.

Il 1° dicembre, quando i risultati non erano ancora ufficiali, un commando di una cinquantina di uomini, vestiti con divise della Gendarmeria e a volto coperto, è penetrato nella sede del partito di Ouattara, nella parte ovest di Abdjan, e ha fatto fuoco sui presenti uccidendo otto persone e ferendone altre 14. Il giorno successivo, nel quartiere di Yopougon, nelle vicinanze del più grande seggio del partito di Laurent Gbgabo, i gendarmi, intervenuti per disperdere alcuni manifestanti armati, avrebbero aperto il fuoco causando 4 vittime e numerosi feriti. Incidenti simili sarebbero occorsi anche nella località centro-occidentale di Bonon, in uno dei feudi elettorali di Gbagbo, dove gruppi di militanti della coalizione di opposizione, armati di bastoni e machete, avrebbero cercato di intimidire la popolazione.

La situazione sulla sicurezza e gli sviluppi del dopo elezioni preoccupano anche le Nazioni Unite, che hanno deciso di ritirare 460 membri non essenziali dello staff. Il personale Onu non militare verrà temporaneamente trasferito in Gambia mentre i Caschi blu continueranno a garantire il cessate il fuoco lungo tutta la zona cuscinetto che dal 2004 divide in due il Paese. Il 24 novembre scorso, per far fronte ad una crisi annunciata, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva adottato una Risoluzione con la quale aveva stabilito il  trasferimento di un contingente della Missione Onu in Liberia (Minul) a sostegno alla Missione Onu in Costa d’Avorio (Onuci), tre battaglioni di fanteria e due elicotteri da trasporto militare rischierati in Costa d’Avorio per un periodo massimo di quattro settimane. La missione Onuci, autorizzata in seguito al tentato colpo di stato del 2002, è attualmente composta da 8.000 soldati di 41 Paesi che operano in Costa d’Avorio con il supporto di 4.000 militari francesi dell’Operazione Licorne.

Durante la campagna elettorale Gbgabo, che rischia sempre si essere coinvolto nel  processo per corruzione nel settore caffè-cacao che vede alla sbarra 28 imputati, aveva accusato il rivale Ouattara di essere il responsabile della ribellione scoppiata nel 2002 e delle successive violenze, causa principale della crisi economica in cui versa il Paese.

In realtà il declino dei quello che tra gli anni Sessanta ed Ottanta è stato considerato il più prospero dei Paesi dell'Africa Occidentale Francese, è iniziato con il governo di Houphouët-Boigny (partito unico, i progetti faraonici e la recessione internazionale) ed è esploso con il successore Henri Konan-Bédié (aumento della corruzione, nepotismo e conflitto etnico, dovuto essenzialmente al concetto di ivorianità che ha portato gran parte della popolazione del nord ad essere esclusa dai posti guida del Paese).

Sul putch del 19 settembre 2002 ci sono poi versioni contrastanti, con testimoni indipendenti che hanno parlato di ribelli mercenari pagati dal governo francese per destabilizzare un sistema politico indipendente ed intellettualmente autonomo che minava gli interessi economici francesi in Costa d'Avorio.

Per cercare di risolvere la crisi post-elettorale, l’Unione Africana ha inviato nella regione l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, giunto ad Abidjan per mediare una situazione sempre più complicata, uno stallo istituzionale che potrebbe indurre la Banca Mondiale e la Banca Africana di Sviluppo a rivedere i programmi di prestito al Paese. Mbeki non ha certo un compito facile e anche se c’è chi parla ancora di pragmatismo, i titoli dei giornali ivoriani parlano ormai di “un Paese con due presidenti.

Fino ad ora l’elezione di Ouattara è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dall’Unione Africana da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, ma nonostante ciò Gbagdo non sembrare intenzionato a cedere il timone. Oltre al sostegno di Cina e Russia, che in Africa sono sempre a caccia di buoni affari,  il fondatore del Fronte popolare ivoriano (Fpi) può sempre contare sull’appoggio del presidente del Consiglio Costituzionale, Paul Yao ‘Ndrè, suo fedelissimo alleato che ancora detiene il controllo dell’esercito e della gendarmeria.

La preoccupazione principale rimane comunque legata alla paura che qualcuno soffi sul fuoco ed alimenti la crisi sostenendo i falchi di entrambe i fronti dell’occasione. Nonostante la crisi economica, gli interessi sono enormi: la Costa d’Avorio è il primo produttore al mondo di cacao e tra i primi posti per il caffè, l’olio di palma e il mogano; notevoli i giacimenti di notevoli quantità di diamanti, manganese, nichel e bauxite e recentemente la compagnia petrolifera francese Total ha siglato un accordo con l’uomo d’affari Pierre Fakhoury da cui ha rilevato il 55% di una società  petrolifere che gestisce il giacimento off-shore “Block CI 100”, un impianto situato a un centinaio di chilometri al largo delle coste ivoriane che secondo gli esperti potrebbe arrivare ad avere una capacità di almeno un miliardo di barili di greggio.

 

 

di Mario Braconi

Israele l’ha fatto capire chiaramente: la legge britannica che consente ad un qualunque cittadino di adire le vie giudiziarie denunciando o addirittura chiedendo l’arresto di uno straniero di passaggio sul suolo del Regno Unito, qualora questi si sia reso responsabile di crimini di guerra, ai suoi politici proprio non piaceva; figuriamoci ai militari. Uno di questi ultimi, il generale di "Tsahal", Doron Almog, certamente non ha dimenticato la sua indigesta gita a Londra del settembre del 2005.

A dispetto del fatto che il suo viaggio in Gran Bretagna fosse ufficialmente motivato da scopi sociali e benefici, verso i quali é obiettivamente sensibile per motivi personali, sul campo di battaglia Almog non è esattamente un bonaccione.

Secondo gli avvocati dello studio londinese Hickman & Rose, assunto dagli attivisti filo-palestinesi, nel 2002 avrebbe ordinato la distruzione di una cinquantina di case private palestinesi, quale rappresaglia per un attacco. E’ una violazione delle leggi internazionali di guerra che tutelano le proprietà dei civili (anche se Israele annovera questa misura tra i mezzi leciti per proteggere i suoi cittadini).

In un primo momento, la Metropolitan Police ha cercato di dribblare una situazione potenzialmente esplosiva dal punto di vista diplomatico, ma alla fine non ha potuto che dare seguito alle richieste degli avvocati, che pretendevano semplicemente il rispetto della legge; è così che i poliziotti si sono decisi a prelevare Almog dall’aereo, con l’idea di condurlo in una stazione di polizia.

Proposito mai divenuto realtà grazie all’intervento di uno zelante funzionario, rimasto ovviamente senza nome e senza volto, che ha prontamente avvisato l’Ambasciata israeliana di Londra di quanto si stava verificando in aeroporto. A quel punto, Almog si è rifiutato di scendere dall’aereo della EL AL e, dopo due ore di trattative, è riuscito a rimpatriare. Si dice che la polizia britannica non si sia decisa a salire sull’aereo per prelevare Almog anche per motivi di sicurezza (il generale viaggiava infatti con una scorta armata e non era esclusa, almeno secondo gli atti di un’inchiesta sull’incidente, la possibilità di un confronto armato con la Met...).

Secondo i giornali britannici, anche Tzipi Livni, ex Ministro degli Esteri (2006-2009) del Governo israeliano, e “mente” (per così dire) dell’operazione Piombo Fuso, che portò morte e distruzione indiscriminate nella striscia di Gaza tra il dicembre del 2008 e il gennaio del 2009, ha rischiato di farsi arrestare in Gran Bretagna, meta di una sua visita ufficiale programmata per il dicembre del 2009. Anche se la Livni se l’è cavata, annullando in extremis il suo viaggio, tra i due Paesi è comunque scattato l’incidente diplomatico.

Secondo Associated Press, inoltre, non solo Israele avrebbe rinviato sine die la visita di un certo numero di ufficiali di alto grado in Gran Bretagna nel timore di possibili arresti, ma ha anche sospeso polemicamente qualsiasi dialogo “strategico” (leggi militare) con il Regno Unito fino a che non venga rimosso quello che i politici dello stato ebraico considerano un imbarazzante e pericoloso impaccio da parte delle autorità britanniche.

In concreto, l’interpretazione che Londra dà al principio di giurisdizione universale, secondo cui i suoi tribunali si riservano di giudicare, in alcuni casi specifici (tortura, genocidio, terrorismo), anche su crimini commessi all’estero su cittadini esteri da un cittadino estero,  purché quest’ultimo si trovi in Gran Bretagna al momento in cui l’azione giudiziaria viene intrapresa.

Nel corso della sua visita in Israele del mese scorso, il capo del Foreign Office, il conservatore William Hague, ha preso finalmente un impegno definitivo, promettendo al primo ministro Benjamin Netanyahu di tagliare le unghie ad una legge da lui stesso definita “indifendibile”. Ed ecco che nel progetto di “riforma della polizia e di responsabilità sociale”, che ha iniziato il 30 novembre il suo percorso parlamentare, salta fuori un “punto” che non sembra avere molto a che fare con l’obiettivo generale dichiarato per la legge (rendere la polizia più responsabile di fronte alle autorità locali e gestire il problema del crimine legato all’abuso di alcol): “Modificare la procedura per ottenere un mandato di arresto per reati internazionali, in modo tale che esso possa essere spiccato solo quando vi sia una ragionevole probabilità di un’accusa sostenibile davanti ad un tribunale”. Nel concreto, se la proposta di legge dovesse essere approvata, prima di poter arrestare un criminale di guerra in Gran Bretagna, si dovrà ottenere l’approvazione del Procuratore Generale del Regno (scelto dall’Attorney General, a sua volta nominato dal Primo Ministro).

E’ possibile che l’estrema facilità con la quale si può procedere oggi contro un cittadino straniero di passaggio nel Regno Unito lasci spazio a qualche strumentalizzazione: ma è anche vero che i casi concretamente verificatisi (Pinochet, Almog, Livni) - al di là di come sia poi andata a finire, ché questa è un’altra storia - non sembrano proprio il parto di qualche avvocato esaltato ed esibizionista, tutt’altro.

Tuttavia, la riforma che Cameron vuole mettere in piedi in fretta e furia per compiacere gli amici israeliani, distrugge uno strumento potentissimo nelle mani delle vittime dei tiranni, che oggi possono agire in modo veloce per incastrare despoti, assassini seriali e generali con la mano pesante e la coscienza leggera.

Senza contare che, di fatto, su futuri casi di giurisdizione universale a decidere sarà, anche se indirettamente, il governo in carica; il che ovviamente vuol dire che saranno ufficialmente “crimini contro l’umanità” solo quelli che il governo deciderà di considerare tali, ovvero quelli commessi dai suoi nemici. E’ su questa falsariga il commento a caldo di Kate Allen, direttore di Amnesty International UK: “Si tratta di un cambiamento non necessario e pericoloso. A meno che non si includa nella proposta di legge uno strumento per assicurarsi che i sospetti non si dileguino, il Regno Unito avrà conseguito l’obiettivo di aver indebolito la lotta per la giustizia internazionale fornendo ai criminali di guerra un biglietto gratis per sfuggire alla giustizia”. Sembra insomma che a tutti i dittatori con le mani lorde di sangue non verrà negato qualche rilassante weekend di shopping a Londra.


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