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di Fabrizio Casari
Gli Stati Uniti sono nervosi. Balbettano scuse e lanciano accuse. Chiedono e ottengono dall’Interpol un mandato d’arresto internazionale per Assange. Lo scopo è quello d’incolpare il messaggero per salvare il messaggio. Infatti, non arrivano scuse per quanto scritto e, meno che mai, per quanto detto e fatto ai quattro cantoni del pianeta. Bisogna distinguere i due livelli, cioè il testo e il contesto. Sul primo, infatti, le rivelazioni del sito di Assange non sono poi così sconcertanti. Davvero serviva Wikileaks per raccontarci cosa scrivono, pensano e dicono le diplomazie e le robuste differenze che intercorrono tra i tre diversi momenti?
In attesa di leggere le restanti migliaia di file annunciati, sappiamo che i funzionari statunitensi ritengono Berlusconi “il portavoce di Putin”, lo giudicano “inabile” a governare causa festini e lo considerano di scarso spessore politico. Ma è una novità solo per Emilio Fede. Ed é nuovo sapere che Gheddafi usa il botox, perché la Rivoluzione sarà anche Verde ma l’età non lo è più e si fa accompagnare dall’infermiera ucraina in quanto ipocondriaco? O ci giunge nuovo che Sarkozy raccoglie nei suoi 160 centimetri dosi massicce di arroganza e dispotismo?
C’è invece il contesto nel quale le rivelazioni avvengono a segnare in profondità questa vicenda, e il contesto chiama in causa il vero nocciolo della questione: la perforabilità del sistema di comunicazione interno alla superpotenza planetaria. Se questo è il tema, la guerra contro Wikileaks gli Usa l’hanno già persa. Le rivelazioni del sito hanno dimostrato che un budget miliardario e un migliaio di hacker a disposizione della cyber-guerra non sono stati sufficienti a tutelare la sicurezza delle comunicazioni interne, trasformando il Cyber-comando Usa in una confraternita di incapaci. Un tizio qualunque copia, incolla e riversa su un cd interi pacchi di mail e li consegna a chi vuole.
Eppure, per tutelare le loro comunicazioni interne, gli statunitensi avevano predisposto un sistema di sicurezza denominato Siprnet, (Secret Internet Protocol Router Network). Per capirci, una specie di Internet militare separato dalla Rete, dove sono veicolate tutte le informazioni confidenziali tra il Dipartimento di Stato e le ambasciate, oltre che tra il Pentagono e le basi Usa sparse per il mondo a difesa degli interessi dell’impero.
Ma ciò che doveva rimanere uno strumento utilizzabile da pochi, un canale riservato alle comunicazioni di qualche centinaio di persone, è stato in seguito messo a disposizione di quasi tutte le ambasciate e molti dei reparti militari all’estero e che ora é alla portata di circa tre milioni di utenti. Questa è la vera sostanza del problema: nonostante gli sforzi e gli investimenti, le minacce e le esibizioni di muscoli, gli Usa sono perforabili tecnologicamente. E’ forse per questo che il Ministro Frattini (esagerando assai) definisce le rivelazioni di Wikileaks “l’11 Settembre della diplomazia”.
Questa vicenda sembra confermare quanto previsto dal padre della comunicazione moderna, Marshall Mc Luhan, che insegnava come più che il messaggio in sé, ai fini della sua efficacia, importa più il mezzo attraverso cui lo stesso viene veicolato. Più che il contenuto delle mail, infatti, é il veicolo Wikileaks a distruggere la reputazione della sicurezza statunitense nelle comunicazioni interne.
Insomma, quello che Wikileaks ha messo a nudo è la capacità di utilizzare gli strumenti tecnologici per definizione “made in Usa” contro gli stessi Usa e che le risorse infinite possono subire scacco matto da un gruppo di abili redattori. Eccetto questo, nell’occasione ha diffuso tutto ciò che già si sapeva o che era facile immaginare.
Quello che invece non era da tutti conosciuto - e ora lo é - è che il sistema di sicurezza delle comunicazioni è un colabrodo e che la diplomazia statunitense é ridotta davvero male, al punto d’inviare report sulla situazione politica non a seguito di analisi di contesto argomentate ed approfondite, ma dopo aver letto i settimanali di gossip e i quotidiani generalisti, per i quali, parafrasando Von Clausewitz, il gossip è la continuazione della politica con altri mezzi.
E’ proprio la diplomazia Usa, quindi, la seconda vittima di quanto rivelato. Una diplomazia che si rivela superficiale persino quando pare discettare su cose serie, tra le quali la pressione dei regimi arabi filo-statunitensi affinché si colpisca l’Iran o le lamentele cinesi sull’ottusità dei cugini nordcoreani, sopportati solo per esigenze di controllo dell’area e del relativo parallelo. Ovviamente, se si volesse aggiungere altro sale sulla ferita, basterebbe ricordare le continue dimostrazioni d’incapacità politica e analisi del quadro socio-economico e politico dei funzionari del Dipartimento di Stato sparsi in ogni ovunque dell’America latina.
Ma se si ritiene che le mail intercettate e i giudizi ivi contenuti possano mettere in imbarazzo la diplomazia statunitense, s’incorre in errore. Mail come quelle pubblicate si possono riscontrare da e verso ogni ambasciata e cancelleria del mondo. Contengono giudizi, opinioni, non analisi. Queste, infatti, viaggiano su altri canali, criptati e orali. E sulla qualità dei report delle ambasciate indirizzate ai dirigenti della politica estera non c’è da meravigliarsi in ordine a quanto venuto alla luce.
Ogni Stato ha nei suoi diplomatici estensori di rapporti scarsamente interessanti e, tranne rari casi (quasi tutti europei, scuola di diplomazia antica ed efficiente e i paesi socialisti, di eguale tradizione) difficilmente le ambasciate occidentali e arabe raccolgono il meglio del personale politico cresciuto nelle scuole quadri delle rispettive cancellerie. Per gli Usa, poi, il problema è ancora più serio: personaggi di quarta fila, inviati scopo carriera dovuta, parentele da ossequiare e finanziatori elettorali da risarcire, sono la norma negli uffici delle rappresentanza diplomatiche a stelle e strisce. E a leggere le rivelazioni di Wikileaks, si è autorizzati a pensare che anche sul fronte dell’intelligence le cose, apparentemente, non vadano meglio, dal momento che l’attività di controllo spionistico nei confronti del Segretario Generale delle Nazioni Unite (per fare un esempio) è cosa risaputa e dimostrata come il teorema di Pitagora.
Alla fine, le rivelazioni di Wikileaks sono poco più che la diffusione di mail inutili. Indicative, é vero, ma inutili. Certo, l'offerta di esibizione fotografica e televisiva del proprio Presidente a colloquio con un premier qualunque in cambio dell'accettazione di 2 prigionieri a Guantanamo, non aiuta ad elevare la considerazione per la Casa Bianca e per il suo inquilino.
Ci piacerebbe invece leggere i messaggi cifrati, quelli che sotto la dicitura "Top Secret" vengono inviati dai capistazione Cia a Langley. Lì, ci si può scommettere, ben altre sono le informazioni contenute e ben altro interesse avrebbe leggerle. Per scoprire che gli Usa spiano, manipolano, finanziano, corrompono, minacciano e colpiscono tutto ciò e tutti coloro che a Washington si ritiene siano una minaccia non alla sicurezza nazionale, ma ai loro interessi politici, finanziari, commerciali e militari.
Le “Covert action” della Cia e del Pentagono, però, difficilmente verranno scoperte dal sito di Assange, che per pubblicare ha bisogno di ricevere, cioé ha bisogno di una “talpa” che raccolga e consegni documentazione quanto più pubblica, proprio per evitare che l’individuazione della fonte diventi operazione semplice.
A squadernare le "covert action" della Cia, a smascherare le provocazioni ed i piani che a Washington e Langley studiano per mantenere ad ogni costo la capacità di dominio unipolare, furono giornalisti come i premi Pulitzer Bob Woodward e Carl Bernstein, che pubblicarono sul Washington Post l’inchiesta sul Watergate, obbligando Nixon a dimettersi.
Ancor di più, se davvero si volesse sapere ciò che non è permesso sapere, se davvero si volesse denudare il Re, servirebbero martiri della libera informazione come Gary Webb, anch’egli due volte Premio Pulitzer grazie alle inchieste sul coinvolgimento della Cia nell’introduzione del crack nei sobborghi di Los Angeles e di New York per finanziare la guerra illegale contro il Nicaragua sandinista negli anni '80. La Cia, infatti, vendette centinaia di tonnellate di cocaina e crack negli stessi Usa, al fine di ricavare fondi con i quali finanziare i contras antisandinisti.
Un piccolo giornale, il San José Mercury News e un libro, “The dark alliance”, fecero danni incommensurabili ai criminali che sedevano nel Pentagono, nella Cia e alla Casa Bianca. Oggi per Assange si muove l’Interpol, mentre per Gary Webb si misero i sicari di Langley. A Gary Webb non provarono a fermarlo con il discredito. Lo fermarono con due colpi di fucile e affermarono poi che era morto suicida. Evidentemente sparandosi il primo colpo ancora vivo e il secondo colpo dopo che era momentaneamente risorto. Certamente allo scopo di non lasciare il lavoro a metà.
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di Mario Braconi
Un documentaro del giornalista canadese Neil MacDonald, trasmesso dalla CBC (Canadian Broadcasting Corporation) la scorsa domenica, mette in fibrillazione il Medio Oriente: un reportage approfondito sull’omicidio dell’ex premier libanese Hariri, che fornisce elementi concreti a sostegno del coinvolgimento del braccio armato del Partito di Dio (Hezbollah) nell’attentato.
In realtà il pezzo di MacDonald non fa che aggiungere elementi alla ricostruzione più ovvia del contesto in cui maturò l’omicidio Hariri: quella tonnellata di TNT che il giorno di San Valentino del 2005 lo cancellò dalla faccia della terra (uccidendo anche altre 22 persone) indubbiamente non poteva dispiacere più di tanto alla Siria, visto che obiettivo dichiarato di Hariri è sempre stato quello di allentare la morsa di Damasco sul suo Paese, trasformatosi nel tempo in un protettorato siriano di fatto.
Se la pista siriana si dimostrasse valida e provata, non sarebbe scandaloso attribuire l’attentato al braccio armato di Hezbollah, un’organizzazione, che, con tutta la benevolenza e la cautela, non può essere certamente definita pacifista e né estranea al brodo di coltura del terrorismo islamico (specie se si pensa che i suoi principali finanziatori sono Iran e Siria).
E’ d’altra parte innegabile che le sue conclusioni risultino urticanti e potenzialmente esplosive per il fragilissimo equilibrio in cui si barcamena il Paese dei Cedri, specialmente perché esse vengono lette dai commentatori locali come un’anticipazione del verdetto del Tribunale Speciale per il Libano de L’Aja, l’organismo che è succeduto alla Commissione di Investigazione Indipendente delle Nazioni Unite sull’omicidio Hariri, assorbendone le competenze. Il pezzo di MacDonald, oltretutto, per la prima volta identifica tra i possibili sospetti niente meno che il Colonnello Wissam Hassan, ovvero l’ex capo della sicurezza del defunto Hariri ed attuale capo dell’intelligence libanese.
In effetti, è per lo meno curioso che la proprio la persona incaricata di proteggere Rafik Hariri sia miracolosamente sfuggito all’attentato che lo ha ucciso, specie se si considerano le modalità con cui tale “miracolo” si è realizzato. Sin dall’inizio, le giustificazioni fornite da Hassan alla Commissione non sono parse particolarmente solide.
La sera prima dell’attentato, racconta Hassan, lo avrebbe chiamato un professore universitario, per comunicargli che l’indomani avrebbe dovuto sostenere un esame. E infatti, risulta che Hariri lo autorizzò a prendersi la giornata successiva per dedicarsi allo studio e all’esame; così Hassan, nel pomeriggio del 14 febbraio 2005, più o meno nel momento in cui Hariri saltava in aria con la sua scorta, entrò negli edifici dell’Università, spegnendo il telefonino.
Sfortunatamente, i tabulati telefonici acquisiti dalla polizia e poi anche dalla Commissione raccontano una storia piuttosto diversa: non solo fu lui a chiamare il professore, e non viceversa, ma a quanto pare lo fece dopo, e non prima, di aver parlato con Hariri; inoltre passò l’intera mattina del 14 al telefono effettuando ben 24 telefonate, un comportamento curioso per uno “studente” che sta per sostenere una prova; il tutto senza contare che normalmente (e comprensibilmente) in Libano gli alti ufficiali dei Servizi non fanno esami all’università. Per stessa ammissione della Commissione, “l’alibi di Hassan non è stato mai verificato in modo indipendente”.
I tabulati telefonici giocano un ruolo essenziale in questa storia: è grazie alla certosina analisi delle mappe che identificano quali telefonini sono agganciati ad una data cella che un giovane e brillante ufficiale della polizia libanese, Wissam Eid, fece progressi decisivi nell’indagine sulla morte di Hariri, che purtroppo, come vedremo, non vennero sfruttati nel modo dovuto. Eid identificò 8 cellulari che si trovavano nell’area dell’attentato il giorno in cui Hariri venne eliminato.
Si trattava di una specie di rete virtuale, gestita dagli utilizzatori con grande disciplina, al punto che le chiamate in entrata e in uscita provenivano da o raggiungevano esclusivamente numeri del gruppo: vennero chiamati i numeri “rossi” e coincidevano con le utenze presumibilmente usate dal gruppo di fuoco terrorista, visto che si trovavano sempre agganciate a celle vicine a quelle su cui era collegato Hariri e i suoi. Eid si accorse anche di un certo numero di altri telefoni costantemente agganciati sulle stesse celle su cui erano agganciati quelli della rete “rossa”: si trattava di altri telefonini che gli utenti della rete rossa impiegavano per comunicazioni dirette ad una platea di contatti più ampia (“rete blu”).
I cellulari della rete rossa sparirono dai radar delle compagnie telefoniche dopo il 14 febbraio 2005, mentre dello “smaltimento” di quelli della rete azzurra venne incaricato Abd al Majid al Ghamloush, al quale un investigatore ONU affibbiò il poco commendevole epiteto di “idiota”. Come in ogni storia di detective che si rispetti c’è di mezzo una donna: Ghamloush, infatti, sarà anche stato un idiota, ma era innamorato e forse a corto di quattrini: scoprendo che su almeno uno dei numeri “blu” c’era ancora credito, ha creduto bene di chiamare la sua fidanzata Sawan, un comportamento che ha fatto “uscire” allo scoperto il numero, fino ad un minuto primo operante solo su reti “amiche”. Tanto è bastato per consentire l’identificazione dell’improvvido “smaltitore” e a dare la stura ad una messe infinita di altre SIM, tutte in qualche modo connesse all’Ospedale del Grande Profeta a Beirut Sud, un probabile quartier generale della milizia islamica di Hezbollah.
Eid arrivò così alla cosiddetta Rete Rosa, che conteneva quattro numeri facenti capo al Governo libanese ed ufficialmente assegnati ad esponenti del Partito di Dio. A quel punto, secondo la ricostruzione di MacDonald, Eid ricevette una telefonata da una persona dell’intelligence di Hezbollah che lo invitò cortesemente a tenere a freno la sua curiosità, dato che quei numeri erano in uso ad operativi del Partito di Dio impegnati in una (poteva essere diversamente?) azione di controspionaggio contro il Mossad.
Che il lavoro di Eid stesse dando fastidio a qualcuno si capisce dal fatto che, a settembre del 2006, il suo capo, il tenente-colonnello Shehadeh, sfugge per puro caso ad un attentato dinamitardo, e, molto malconcio, è costretto a riparare in Canada (si noti la coincidenza forse non casuale con la nazionalità del giornalista che ha rivelato i retroscena) per sottoporsi ad un delicato intervento e ad una successiva riabilitazione.
In ogni caso, Eid stese un dettagliato rapporto e lo consegnò alla Commissione, la quale non riuscì a fare niente di meglio che smarrirlo. Quando finalmente, ad inizio 2008, il documento di Eid venne riesumato, perfino i non acutissimi e non sempre obiettivi investigatori ONU si accorsero di aver avuto sottomano una possibile chiave di volta per le indagini e di non essere stati in grado di sfruttarla finché forniva tracce “fresche”. Ma i nemici di Eid non devono aver gradito questo rinnovato sodalizio tra l’informatico della polizia libanese e la Commissione: il 25 gennaio 2008 Eid, a soli 30 anni, viene assassinato con un’autobomba che uccide anche la sua guardia del corpo e tre passanti innocenti.
Le informazioni provenienti dal dossier di MacDonald contengono indizi che puntano dritto verso Hezbollah, al punto che, come segnala un commentatore libanese del fronte anti-sirirano sul suo blog, perfino nel lontano Canada si sono fatti un’idea di come devono essere andate le cose quel maledetto giorno del 2005 (e dopo). E’ possibile che la Commissione (almeno prima di diventare un monumento all’ignavia orientale ed occidentale) sia stata uno strumento nelle mani della CIA e degli USA; seppure Hezbollah sia molto attiva nel sociale e si ammanti di principi vagamente socialisti, è lecito porsi qualche seria domanda sulla digeribilità morale delle sue azioni “militari” in generale, ma anche sulla sua reale autorevolezza politica (spiccano in questo senso la totale chiusura della organizzazione nei confronti di un verdetto che colleghi suoi operativi all’assassinio di Hariri, o alle farneticazioni su possibili coinvolgimenti del Mossad nel delitto).
Ma sarebbe intellettualmente disonesto accogliere con una scrollata di spalle il lavoro (serio e documentato) di un giornalista che peraltro nel suo Paese è considerato (come del resto anche la Rete per cui lavora) fin troppo liberal, e che oltretutto ha passato anni in Medio Oriente come corrispondente. Anche perché la gente del Libano, e in particolare tutti i morti innocenti finiti sotto le bombe dei terroristi e i loro parenti e amici, meritano un briciolo di verità; quella che un governo debole e ricattato, infiltrato da personaggi contigui al terrorismo, forse non può proprio permettersi di rivelare.
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di Michele Paris
A pochi giorni dallo scontro a fuoco tra Seoul e Pyongyang, la tensione tra le due Coree non sembra essere scesa di molto. L’appoggio incondizionato offerto all’alleato meridionale da parte di Washington ha contribuito anzi ad inasprire un’escalation fatta di minacce e dichiarazioni incendiarie da entrambi i lati del trentottesimo parallelo. L’invito degli Stati Uniti alla Cina per intercedere sul regime nordcoreano, assieme all’invio di navi da guerra nella regione, appare poi l’ennesima provocazione all’interno di una ormai consolidata strategia dell’amministrazione Obama per contrastare il peso sempre crescente esercitato da Pechino in Asia e altrove.
L’ennesima disputa tra la Corea del Nord e quella del Sud, com’è noto, era andato in scena martedì scorso, quando un bombardamento delle forze di Pyongyang aveva colpito l’isola di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, causando la morte di quattro sudcoreani (due militari e due civili). Secondo fonti nordcoreane, il fuoco sarebbe giunto in risposta a colpi sparati dal sud e caduti a poca distanza dalle coste settentrionali. L’episodio ha subito scatenato il panico tra la popolazione sudcoreana e profonde divisioni all’interno del gabinetto del presidente conservatore Lee Myung-bak.
Ad alimentare le preoccupazioni per una situazione che sembra a molti la più delicata dalla fine della guerra tra le due Coree, suggellata dall’armistizio del 1953, ci si è messa anche l’immediata presa di posizione americana. Per tutta risposta, gli Stati Uniti hanno inviato nel Mar Giallo la nave da guerra George Washington, che trasporta velivoli equipaggiati con ordigni nucleari, per dare inizio ad esercitazioni congiunte con la marina sudcoreana. Washington continua ad avere quasi trentamila soldati sul suolo sudcoreano e considera Seoul un alleato fondamentale nel continente asiatico.
All’iniziativa americana, da Pyongyang si è risposto con sdegno, avvertendo che “la situazione nella penisola coreana si sta avviando verso un nuovo conflitto”. Contemporaneamente, a Seoul il ministro della Difesa sudcoreano ha finito per dimettersi in seguito alle critiche dei falchi del proprio partito per l’impreparazione all’attacco nordcoreano e la risposta troppo debole. Sull’isola di Yeonpyeong sono poi giunti rinforzi e armamenti pesanti, pronti ad una durissima reazione contro eventuali nuove incursioni dei vicini settentrionali.
Lo stesso presidente Lee Myung-bak, eletto nel 2008 grazie anche alla linea dura promessa verso la Corea del Nord, è finito sotto accusa per essersi mostrato fin troppo tenero con il regime di Kim Jong-il. In realtà, il taglio drastico agli aiuti verso il nord e la fine della politica di riconciliazione promossa dal suo predecessore, Roh Moo-hyun, hanno contribuito in questi anni a riaccendere le tensioni nella penisola coreana. A ciò va aggiunto il fatto che Pyongyang non ha mai riconosciuto la linea di demarcazione nelle acque del Mar Giallo stabilita dagli USA nel 1953.
La Corea del Nord, anzi, fissò il proprio spartiacque nel 1999, in seguito al quale si verificarono una serie di scontri. Nel 2002 una scaramuccia tra le due marine costò la vita a quattro militari sudcoreani e a trenta nordcoreani. Più recentemente, nel novembre 2009, una nave di Seoul entrò in contatto con un’imbarcazione del Nord proprio alla vigilia della visita di Obama in Asia. L’apice della tensione è stato poi raggiunto a marzo di quest’anno in seguito all’affondamento della nave da guerra sudcoreana Cheonan proprio nel Mar Giallo, nella quale morirono 46 marinai. Per l’affondamento, USA e Corea del Sud hanno accusato Pyongyang, da dove si è negata invece ogni responsabilità.
Le ostilità nella penisola coreana sono dunque state subito sfruttate da Washington per intensificare le pressioni sulla Cina, di fatto il più importante alleato – anzi, l’unico - della Corea di Kim Jong-il. In una serie di dichiarazioni, i vertici dell’amministrazione Obama hanno chiesto a Pechino di intercedere nei confronti di Pyongyang per desistere da ulteriori provocazioni. Lo stesso presidente americano pare abbia parlato direttamente con il suo omologo cinese, Hu Jintao, mentre un inviato di Pechino ha incontrato il presidente sudcoreano, in attesa della visita di un alto esponente della Corea del Nord.
L’invio della nave da guerra George Washington nel Mar Giallo, per stessa ammissione statunitense, è rivolta proprio a persuadere la Cina. Le esercitazioni congiunte americano-sudcoreane nelle acque al largo della Cina, secondo quanto dichiarato da anonimi membri dell’amministrazione Obama alla stampa d’oltreoceano, servirebbero a mettere di fronte Pechino alla realtà di una maggiore presenza americana nella regione nell’eventualità di un aumento dell’aggressività della Corea del Nord.
Ciò che nell’ottica di Washington la Cina dovrebbe fare nei confronti di Pyongyang è verosimilmente minacciare la fine dei massicci aiuti che garantisce ad un paese che soffre di una estrema povertà, anche a causa di decenni di dure sanzioni imposte dagli USA e dall’Occidente. I cinesi, da parte loro, se da un lato desidererebbero aprire la Corea del Nord alle proprie aziende alla ricerca di manodopera a bassissimo costo, dall’altro dispongono di limitati mezzi di persuasione nei confronti di un regime che si sente continuamente sotto assedio. La destabilizzazione della Nord Corea potrebbe provocare, infatti, non solo un massiccio afflusso di disperati verso la Cina ma significherebbe per quest’ultima ritrovarsi appunto una maggiore presenza americana alle porte.
La dimostrazione della potenza militare americana a due passi dalla Cina rappresenta solo la più recente offensiva di Washington in estremo Oriente. Negli ultimi mesi, gli Stati Uniti hanno ad esempio sostenuto fermamente le ragioni dei paesi dell’Asia sud-orientale nelle loro dispute territoriali con la Cina. Agli stessi governi, inoltre, l’amministrazione Obama si sta riavvicinando costruendo partnership strategiche sempre in funzione anti-cinese. Un rilancio della propria presenza in Asia quello americano che accresce il pericolo di una nuova guerra tra le due Coree e che l’inevitabile coinvolgimento cinese renderebbe ancora più rovinosa per l’intero pianeta.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Trent’anni fa erano un partito di minoranza radicale e di dubbia prospettiva, oggi i Verdi tedeschi hanno tutte le carte in regola per diventare il nuovo partito del popolo e fanno paura tanto alle forze di Governo quanto alle maggiori forze di opposizione. Questo il quadro che si presenta in Germania alle porte del 2011, l’anno delle elezioni per i Landestag (o parlamenti regionali) di sei regioni federali, il primo banco di prova in attesa delle legislative del 2013. E tuttavia rimane da chiarire la natura dell’uragano verde: i Verdi sono un fenomeno politico concretamente sostenibile dalla realtà delle cose?
“I Verdi? Non sono un partito, sono degli idioti ambientalisti destinati a scomparire presto”. Così li presentava il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt nel 1990.Ma non è stata né la prima, nè l’ultima delle valutazioni dell’ex-Cancelliere diverse da quelle dei suoi cittadini. Secondo i più recenti sondaggi, infatti, i Verdi riscuotono la fiducia degli elettori soprattutto grazie agli argomenti in materia energetica, poiché danno l’idea di poter rimanere fedeli ai propri principi anche in caso di effettiva elezione. E la questione energetica, assieme a quella ecologica, costituisce uno dei temi centrali del ventunesimo secolo: sia essa rinnovabile o nucleare, l’energia è il nodo principale di qualsiasi programma elettorale.
Una recente analisi dell’autorevole settimanale di sinistra Der Spiegel ha dimostrato che i Verdi tedeschi trasmettono ai loro sostenitori la sensazione di stare dalla parte del giusto: un voto a favore dei Verdi è una voce contro tutte le forze politiche, di destra o di sinistra poco importa, che si sono palleggiate il potere negli ultimi anni. Chi li vota si sente a posto con la propria coscienza e non ha bisogno di giustificazioni: il cambiamento climatico e le centrali nucleari, così come la parità dei sessi, sono al centro dell’attenzione mediatica e individuale da diversi anni.
Per i Verdi, tuttavia, il rischio maggiore è quello di essere poco realisti e di non offrire soluzioni tangibili: le loro proposte sarebbero tanto “politically correct” quanto finanziariamente insostenibili, accusano i rivali. Ma potrebbero rivelarsi appunti superabili, perché a quanto pare, anche i maggiori esponenti dei Verdi stessi hanno imparato a riconoscere i propri limiti: “Dobbiamo fare attenzione e promettere solo ciò che è realizzabile”, ha sottolineato lo stesso segretario Cem Oezdemir durante il congresso di partito, conclusosi in questi giorni a Friburgo, nel Baden- Wuerttemberg. E, si sa, riconoscere i propri errori non è solo un grande segno di maturità, ma è il primo, fondamentale passo per la risoluzione dei problemi stessi.
Tanto per cominciare, il recente congresso dei Verdi tedeschi ha mostrato un partito più terra terra che mai. Il partito di Caludia Roth e Oezdemir non si è limitato a ribadire un secco no a Stoccarda 21, la mega infrastruttura che dovrebbe andare a sostituire la vecchia stazione di Stoccarda, e al prolungamento dell’attività delle centrali nucleari, le questioni di grande attualità per cui la Germania è scesa in piazza negli ultimi mesi. Anche i più critici hanno notato una nuova motivazione a offrire soluzioni concrete anche a problemi di minor risonanza mediatica, soprattutto in ambito economico e sociale.
All’ordine del giorno c‘è stata innanzitutto l’imposta comunale sull'industria e sul commercio. La maggioranza degli esponenti del partito ha votato per l’estensione della tassa a una più ampia fetta di liberi professionisti e aziende, così da aumentare gli introiti dei singoli comuni. Al momento, solo un terzo delle aziende con partita Iva paga la tassa: i Verdi hanno lamentato una grave mancanza cui vogliono porre rimedio con ogni mezzo.
I Verdi si sono inoltre espressi a favore dell’aumento percentuale della tassa sulla ricchezza, un’imposta che la Germania ha inventato per i più benestanti. Per ogni euro guadagnato oltre i 52’152 euro annuali, i cittadini tedeschi sono tenuti a pagare allo Stato federale una tassa di 42 centesimi. Ora, i Verdi hanno intenzione di aumentare questo contributo a 45 centesimi per ogni singolo euro. Per quel che riguarda la sanità, invece, i Verdi hanno proposto di alzare il margine di reddito sotto cui non vengono detratti i contributi per l'assicurazione sanitaria obbligatoria. Il messaggio, in sostanza, è chiaro: per i Verdi, i tagli alla spesa pubblica non sono la via di uscita alla crisi finanziaria globale.
Rimane ora da chiarire fino a che punto i Verdi potranno effettivamente prestare fede alle loro promesse in campagna elettorale: a misurare il fenomeno, come sempre, saranno (in caso di vittoria) i fatti concreti. Per ora, i presupposti concreti sono tra i migliori. In questo momento, i Verdi partecipano al Governo regionale in Nord Reno Vestfalia, nelle città-regione di Amburgo e Brema e in Saarland, mentre siedono in Parlamento con quote superiori al 10% in Schleswig-Holstein, la regione più settentrionale della Germania, in Assia, a Berlino e in Baden Wuerttemberg.
In quest’ultima regione, da sempre considerata la roccaforte del partito, i Verdi hanno la chance effettiva di vincere le regionali del 2011: alle ultime elezioni hanno ottenuto l’11.7% dei voti e sono entrati a far parte del parlamento regionale come terza forza politica dopo CDU e SPD, schiacciando di qualche punto i liberali. Gli ultimi sondaggi li danno a oltre 20%, un punteggio che supera notevolmente quello dei socialdemocratici.
E, alle porte delle regionali del 2011, anche il trend generale dei Verdi è in continua crescita: su tutto il territorio tedesco, gli ultimi sondaggi li danno in aumento di ben 12 punti percentuali rispetto alle legislative del 2009. La forza dei Verdi è la capacità di conquistare nuovi ceti di elettori, hanno rilevato i più attenti, cosa che riesce ormai difficile agli altri partiti tedeschi e alle loro politiche lobbistiche e ammuffite.
Inoltre, non sono solo gli elettori a percepire la nuova forza dei Verdi: durante il Congresso di partito di settimana scorsa, la Cancelliera Angela Merkel, più aggressiva che mai, ha inveito più contro i Verdi che contro i socialdemocratici di Sigmar Gabriel, quasi a sancirne il rilievo. Come a dimostrare che i veri rivali delle CDU sono i Verdi di Claudia Roth e non l’SPD. E, in effetti, la discussione politica, negli ultimi tempi, sembra essere stata polarizzata dai Verdi: l’SPD fa fatica a trovare la sua identità perché i Verdi non lasciano spazio. In attesa che socialdemocratici, Verdi e Linke costruiscano una piattaforma di governo comune, la CDU sembra ancora poterla fare da padrona.
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di mazzetta
In attesa della prossima bordata di documenti di Wikileaks, si possono già trarre o confermare alcune osservazioni offerte dal dipanarsi del confronto tra il sito e gli Stati Uniti. Questa volta si tratterebbe delle comunicazioni più o meno diplomatiche di funzionari americani all'estero verso la casa madre. Che si tratti di materiale scottante è fuor di dubbio, non fosse che gli americani coinvolti stavano comunicando ad altri americani le loro impressioni su questioni e persone di altri paesi e che, quindi, ci saranno parecchie dichiarazioni di una sincerità troppo brutale per non risultare offensiva.
Poi ovviamente c'è il contenuto politico delle comunicazioni, in grado di rivelare attività imbarazzanti, doppi e tripli giochi degli statunitensi come degli alleati e responsabilità di vario grado nel sostenere questo o combattere quello, nell'ingerire qua o là, nel corrompere o distruggere i nemici, nel premiare gli amici e chissà che altro. Basta fare due conti sulla quantità di persone coinvolte e sulla mole di documenti in arrivo, per rendersi conto che sarà un metaforico bagno di sangue per gli Stati Uniti e i partner internazionali.
A prescindere dal dettaglio delle rivelazioni che emergeranno, per quanto esplosive, c'è da dire che quasi sicuramente susciteranno molti meno disastri di quanti sarebbe lecito attendersi. Si è già visto in precedenza che nemmeno l'autocertificazione di crimini di guerra ha mosso gli Stati Uniti di Obama a mettersi in discussione o gli altri paesi a chiamarli di fronte alle evidenti responsabilità. Per questo non si andrà al di là di qualche scaramuccia retorica internazionale, anche se le informazioni pubblicate passeranno comunque alla storia e nell'esperienza degli addetti ai lavori, lasciando nuda la propaganda e fornendo armi formidabili contro i feroci cantori delle superiori civiltà.
Sul tema della guerra e di eventuali responsabilità, Obama ha detto che “l'amministrazione vuole guardare avanti e non indietro”, che significa l'indisponibilità a contestare o discutere la legittimità delle politiche dell'amministrazione Bush. Un atteggiamento francamente insostenibile che ha contribuito, insieme a decisioni simili, a far perdere al suo partito democratico il supporto di quanti si erano mobilitati per mettere fine al delirio repubblicano. Lo slogan di Obama non ha senso, applicato ad altre istanze di giustizia significherebbe l'impossibilità di discutere qualsiasi crimine passato e di punire qualsiasi criminale.
Applicato al diritto costituzionale americano, significa per lo meno una dichiarazione d'impunità per le amministrazioni, anche quando diano fondo a una lista di crimini impressionanti. In proposito l'amministrazione Bush non si è fatta mancare niente, dal temibile spergiuro (caso Clinton-Lewinsky) fino al tradimento, tutte accuse che fior di giuristi americani ammettono avere una sufficiente consistenza per dare vita a commissioni d'inchiesta e alla messa in stato d'accusa di parecchi ufficiali. Ma l'assetto costituzionale statunitense non è messo in pericolo da Wikileaks; da tempo è stato minato e l'amministrazione Bush è stata sicuramente quella che lo ha sovvertito più di altre.
Il problema più concreto e sensibile provocato dall'incessante pubblicazione all'ingrosso di una massa di comunicazioni riservate statunitensi, è la dimostrazione che la prima potenza al mondo non è in grado di garantire la sicurezza delle sue comunicazioni più sensibili e che tutti, dal presidente all'ultimo dei fantaccini, in futuro faranno bene a pensare a quello che dicono e a dirlo sapendo che nel giro di qualche mese al massimo potrebbe finire su Internet.
L'attacco a Wikileaks da parte dell'amministrazione americana è una reazione scontata e anche i media continuano a mettere la faccenda come un confronto tra il sito e Washington, ma i problemi sono tutti di Washington, anche se Wikileaks dovesse sparire stanotte. Quello che fa Wikileaks lo potrebbero fare in molti; lo potrebbe fare qualsiasi paese, ostile o meno, per acquisire dati d'importanza strategica e giocare con gli Stati Uniti sapendo già che carte si hanno in mano.
L'attività di Wikileaks dice agli statunitensi che tutti i loro sistemi di comunicazione, da quelli del Pentagono a quelli usati dalle ambasciate, sono praticamente trasparenti. Gli archivi che conservano queste comunicazioni possono essere violati da personale infedele o attraverso espedienti tecnici e gli autori degli attacchi possono rubare dati sensibili all'ingrosso. Considerazioni che dovrebbero rimbombare anche nella testa del comune cittadino della modernità elettronica: un archivio magnetico, collegato o meno online, è molto più facile da rubare di un archivio cartaceo composti di faldoni custoditi negli archivi di un tempo.
Il problema per gli Stati Uniti, come per tutti i paesi e tutti gli utenti, è che se contractor governativi e consulenti hanno promesso al governo la sicurezza dei sistemi informatici d'archiviazione, questi mentivano sapendo di mentire e il seguito della storia lo dimostra con abbondanza di prove. Il segreto va poco d'accordo con le barriere elettroniche e ancora meno con la fedeltà di chi ha i requisiti per accedere ai dati sensibili, tanto più che negli Stati Uniti si parla di più di un milione di persone abilitate all'accesso a informazioni riservate, che possono prelevare e duplicare senza nessuna fatica una mole enorme di dati.
Impossibile considerare sicuro un sistema del genere e, figuracce a parte, è chiaro che a ogni exploit di Wikileaks gli incaricati della sicurezza dei sistemi di comunicazione e gli alti papaveri del Pentagono si trovano nudi di fronte a questa ovvietà. Un problema, quello della sicurezza degli archivi informatici, che nel caso dell'unica superpotenza mondiale assume un'importanza strategica e politica ancora più rilevante di quella che potrebbe avere per paesi meno esposti nell'arena internazionale.
Non è colpa di Wikileaks se gli americani hanno commesso crimini di guerra o se i loro leader hanno mentito e tramato per scatenare guerre o ingerire in altri paesi. Così come non è colpa di Wikileaks se l'elefantiaco apparato militare americano, quello che ha meritato la definizione di imperiale alla politica statunitense, fornisce con le sue mani munizioni a chi lo accusa di usare la democrazia e i diritti umani come pretesti, al riparo dei quali operare nella totale impunità. E non è nemmeno colpa di Wikileaks se tutta la nostra comunicazione, dalle lettere d'amore alle transazioni finanziarie, è conservata su supporti e viaggia su sistemi concepiti per rendere più facile e veloce la circolazione e la condivisione dei dati.
Si tratta di un dato di fatto con il quale è bene fare i conti, gli Stati Uniti e i loro alleati faranno e pagheranno i loro, mentre chi non ha ancora sofferto questo genere di fastidiosi incidenti ha l'occasione di riflettere su come prevenirli.