- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Alessandro Iacuelli
Dopo un breve periodo di tregua, coincidente con i giorni dei mondiali di calcio in Sudafrica, torna alle stelle la tensione tra la Corea del Sud e quella del Nord, riportando ancora una volta un clima da guerra fredda in tutta l'area regionale dell'estremo oriente. A partire dal 25 luglio, infatti, è iniziata la fase esecutiva delle esercitazioni militari congiunte, soprattutto navali, tra USA e Corea del Sud.
Un atto visto come una provocazione da parte del governo nordcoreano, che vede nello specchio di mare antistante il proprio territorio una portaerei americana, cacciatorpedinieri di entrambe le marine e oltre 200 caccia, in pieno mar del Giappone. Le esercitazioni con 8 mila militari dureranno 5 giorni. E' previsto un lancio di un missile marittimo da parte dell'esercito di Seul, ed è proprio questo il punto sul quale si scatena la reazione di Pyongyang.
Il 3 agosto, il Quartiere Generale del Fronte occidentale dell'Esercito popolare nordcoreano ha pubblicato un comunicato secondo il quale l'esercito del Paese risponderà alle attività del lancio che effettuerà la Corea del Sud nelle acque occidentali con un "lancio corrispondente per la difesa". Lo stesso giorno, citando questo comunicato, l'Agenzia di Stampa centrale della Corea del Nord ha affermato che le attività del lancio marittimo che saranno effettuate dalla Corea del Sud nelle acque occidentali, sono "un'offensiva militare completamente evidente". Di fronte all'attuale situazione, la parte militare nordcoreana adotterà delle "misure concrete ed energiche" per rispondere alle attività sudcoreane.
Per farla breve, la Corea del Nord minaccia un "possente contrattacco fisico" in risposta alle imminenti esercitazioni militari della Corea del Sud. Queste sono in programma nelle acque del mar Giallo per 5 giorni. Non solo, infatti, Pyongyang sostiene di avere "preso una decisione risoluta" e di aver messo in guardia qualsiasi imbarcazione, anche civile, dal solcare le acque del Mar Giallo al confine marittimo tra le 2 Coree durante le esercitazioni, equiparate a un "atto d’invasione militare".
Una flotta di venti navi da guerra, tra cui la portaerei a propulsione nucleare "George Washington" e tre cacciatorpedinieri, 8.000 militari e 200 aerei da combattimento, sono i mezzi a disposizione per le esercitazioni. Tra questi, anche i caccia F-22 Raptor, che volano in missione di addestramento per la prima volta nello spazio aereo coreano.
Sembrano già lontani i giorni in cui, durante le giornate calcistiche africane, le due Coree sembravano guardarsi addirittura amichevolmente. La tensione nella Penisola Coreana è di nuovo alta, complice il fatto che quella sudcoreana è una manovra in grande stile, dal nome in codice "Invincible Spirit", nome scelto assieme da Washington e Seul per dare una dimostrazione di forza proprio alla Corea del Nord, ritenuta responsabile dell'affondamento della corvetta della Marina militare sud-coreana "Cheonàn" nel marzo scorso, costato la vita a 46 marinai.
Intanto, Pyongyang nega ogni accusa dopo che una commissione d’inchiesta ha stabilito la responsabilità dei nord-coreani per l’affondamento della nave. La Corea del Nord continua ad alzare il tono delle minacce contro le esercitazioni navali di Washington e Seul, dicendosi pronta ad usare la propria deterrenza nucleare per fermarle. Per gli Stati Uniti le esercitazioni navali rappresentano anche l’occasione per ribadire ai sud-coreani il proprio impegno a tutela della loro sicurezza.
Ovviamente non è solo il caso della corvetta affondata, ad esacerbare gli animi. Quella delle tensioni tra USA e Corea del Nord è una storia oramai cinquantennale, portata all'estremo dalla recente accelerazione del programma nucleare nordcoreano, con tanto di dotazione di missili in grado di arrivare in Giappone, il rifiuto da parte del regime di Kim Jong Il di firmare i trattati di non proliferazione nucleare, e la sua inclusione nell'elenco degli "Stati canaglia" tanto sbandierato dall'amministrazione Bush.
Tanti sono anche i cittadini nordcoreani inseriti nelle "black list" americane. Secondo le ultime indiscrezioni d'oltreoceano, c'è anche il presidente di una banca tra i nomi dei 3 funzionari nordcoreani che gli Stati Uniti sono pronti a inserire nella "black list" perchè sospettati di ricoprire un ruolo chiave nell'amministrazione di Pyongyang e nel finanziamento del programma nucleare. Citando fonti anonime, lo scrive l'agenzia sudcoreana Yonap che ricorda l'annuncio del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, di "sanzioni specifiche" contro la Corea del Nord. Stando all'agenzia di Seul, si tratterebbe di Kim Tong Myong, presidente della Tanchon Commercial Bank, che andrebbe ad aggiungersi ai nomi di 22 istituzioni e di 6 persone fisiche già compresi nella lista nera.
Chi viene incluso è soggetto al congelamento dei beni e al divieto di fare affari con le istituzioni finanziarie americane. Non è che in Corea del Nord gliene freghi molto della black list americana, poiché si preferisce in genere fare affari con le istituzioni cinesi, visto il vecchio rapporto di amicizia e quasi di "protettorato", soprattutto quando si parla di nucleare nordcoreano in consiglio di sicurezza dell'ONU, con Pechino. Certo, questa risposta americana colpisce i conti bancari esteri utilizzati da Pyongyang per la compravendita di armi e componenti nucleari, ma attraverso il grande fratello cinese il regime può facilmente arrivare ad altri mercati dell'atomo, asiatici ma anche europei.
Dopo le minacce di Pyongyang, gli Stati Uniti hanno risposto esortando la Corea del Nord a cessare il suo "linguaggio provocatorio". "Non siamo interessati a una guerra di parole con la Corea del Nord", ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato americano Phlip Crowley: "Ciò che chiediamo alla Corea é meno linguaggio provocatorio e più atti costruttivi".
Per la Corea, l'unica provocazione è l'avvicinamento delle navi americane alle proprie coste. Chiaramente, Pyongyang non adotterà in questi giorni alcuna risposta di tipo nucleare, poiché la ritorsione americana segnerebbe la fine definitiva del regime, ma in ogni caso l'intera regione risulta destabilizzata. A farne le spese per primo è proprio il Giappone, troppo vicino geograficamente per poter sperare di uscirne senza rimanerne coinvolto.
D'altra parte, non ci sarebbe nulla di cui stupirsi se questo innalzamento dei toni, già avvenuto in passato in molte occasioni, non fosse altro che clamore per non far focalizzare l'attenzione sulla situazione interna della Corea del Nord, situazione affatto chiara per molti versi. Infatti, fonti d'intelligence americana fanno trapelare con una discreta insistenza che Kim Jong Il, ormai anziano e malato, abbia dato inizio ad una difficile fase di transizione per passare la guida del Paese a Kim Jong Un, il suo terzogenito. Transizione difficile, perché in Corea del Nord non si fanno cambiamenti senza fare prima gli opportuni "regolamenti di conti".
E l'aria da regolamenti di conti si respira davvero per le strade di Pyongyang. Lo racconta la recente fucilazione a Pyongyang di tre alti funzionari, tra cui un responsabile dei negoziati con la Corea del Sud e due alti responsabili economici, che mette in evidenza quanto complesso e violento sia il regolamento di conti in corso. Probabilmente la successione sarebbe ostacolata da un gruppo di generali e funzionari di partito, poco disponibili ad accettare il volere di un erede semisconosciuto e non ancora trentenne.
Kim Jong Il, consapevole di non aver più molto tempo davanti, tenterebbe invece di utilizzare la minaccia statunitense per creare un clima d’emergenza nazionale e gestire con l’appoggio dei generali più fedeli la complessa e rischiosa transizione. Eliminando gli avversari interni, vecchi e nuovi, a colpi di fucilazioni.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
L’Iran continua a ripetere che il suo programma nucleare è del tutto pacifico, ma evidentemente il tono non è abbastanza rassicurante. L’esercito americano ha intenzione di attivare uno scudo antimissile in Europa meridionale come difesa contro un eventuale attacco di Teheran. L’obiettivo sarebbe di proteggere l’Europa, tutelare le forze statunitensi di stanza nella zona e scoraggiare gli iraniani a proseguire con lo sviluppo del programma missilistico.
Anonimi ufficiali del Pentagono citati dal Washington Post dicono di essere vicini all’accordo per istallare una stazione radar in Turchia o in Bulgaria, che renderebbe operativa la prima fase dello scudo dal prossimo anno.
“Se l’Iran lanciasse un missile - ha ipotizzato il Segretario alla Difesa Usa Robert Graves - non sarebbe uno solo. Più probabilmente sarebbero centinaia”. Tanto per andare sul sicuro. In ogni caso l’attuale arsenale iraniano non è in grado di raggiungere l’America, al massimo il sud dell’Europa, data la gittata dei missili inferiore ai 2.000 chilometri. Sulla lunga gittata gli iraniani stanno lavorando, ma sono piuttosto lenti. Secondo gli americani non raggiungeranno quel livello di tecnologia prima del 2015. In ogni caso, meglio iniziare a prepararsi.
L’ipotesi di uno scudo antimissile è nata nel 1983 con Reagan, quando gli Usa temevano di subire il bombardamento nucleare sovietico. L’amministrazione di Bush junior ha rispolverato l’idea come deterrente nei confronti delle possibili potenze nucleari del futuro, Iran e Corea del Nord. L’intenzione era di costruire dieci basi terrestri in Polonia e un’ampia stazione radar in Repubblica Ceca. Durante la campagna elettorale del 2008, Obama si è detto scettico sulla praticabilità del progetto di Bush, cosicché nel settembre 2009 ha annunciato di voler cambiare totalmente approccio: non sarà più solo uno scudo terrestre, ma qualcosa di più duttile.
Uno scudo in movimento sull’acqua, fatto di navi nella sua ossatura fondamentale. Non navi qualsiasi, ma incrociatori e caccia torpedinieri con sistema Aegis (che tradotto vale Egida, nome dello scudo di Atena), il radar più sofisticato al mondo, talmente complesso da esser definito ‘sistema nervoso’ delle navi da guerra, il cui braccio armato sarà invece un arsenale di ‘missili-antimissile’ SM3.
I vantaggi di questa soluzione sono notevoli: scivolare sull’acqua consente di spostarsi di volta in volta nelle zone ritenute più a rischio e soprattutto le navi potranno essere utilizzate anche per altre missioni. Non si può correre il rischio di spendere miliardi di dollari per un attacco che probabilmente non arriverà mai. Comandanti della marina Usa sostengono che al momento le navi Aegis nel Mediterraneo siano al massimo due, ma ufficiali del Pentagono specificano che, secondo la gravità del pericolo, il loro numero potrebbe addirittura triplicare.
Lo scudo sarà costruito entro il 2020, in più fasi. La prima inizierà l’anno prossimo: navi Aegis armate di dozzine di SM3 pattuglieranno in lungo e in largo il Mediterraneo e il Mar Nero. Nel 2015 entrerà in scena la Romania per la seconda fase: il governo di Bucarest ha autorizzato la costruzione sul suo territorio di una base per il sistema di controllo delle navi da guerra. Un’altra base sorgerà nel 2018, stavolta in Polonia. Il mastro ferraio statunitense finirà di forgiare lo scudo nei due anni successivi, con la produzione della nuova generazione di SM3. Oggi i supermissili americani sono in tutto 147: si progetta di triplicare anche questi.
Prima di realizzare tutto questo bisognerà però risolvere una difficoltà logistica. I comandi della marina americana di stanza in Medio Oriente e nel Pacifico richiedono a loro volta navi Aegis per tutelarsi dalla minaccia iraniana e nordcoreana. Sennonché solo la metà della flotta è sempre disponibile: alla fine di ogni missione le navi passano in porto lo stesso periodo che hanno trascorso in mare, tanto sono lunghi i preparativi per la missione successiva.
Ecco perché l’amministrazione Obama ha deciso di duplicare il numero di navi Aegis entro il 2015, portandolo a 38. Una soluzione un tantino più economica sarebbe quella suggerita dal vice ammiraglio Henry Harris, che propone di stanziare definitivamente le navi in porti europei invece di fargli fare continuamente la spola tra Mediterraneo e Stati Uniti. La flotta comandata da Harris ha base a Napoli.
Mentre lavorano per il Mediterraneo, gli americani si danno da fare anche per migliorare i sistemi di difesa antimissile di Israele - dove nel 2008 è stato istallato un radar - e dei paesi alleati del Golfo Persico, dove si progetta di istallarne un altro. L’obiettivo è accorgersi prima possibile di un eventuale missile lanciato dall’Iran, per avere il tempo di abbatterlo. I sistemi di difesa europei, israeliani e arabi sono distinti fra loro e a diversi stadi di evoluzione. Ma sono tutti progettati per essere gestiti da personale americano (come accade per il radar in Israele, che invia informazioni alle navi statunitensi nel Mediterraneo).
Chi pagherà tutto ciò? Gli europei rischiano di vedersi regalare il più raffinato sistema antimissilistico di tutti i tempi dai contribuenti americani. E’ possibile che i paesi sui cui territori si costruiranno le basi diano un aiuto economico, ma forse è solo una speranza del Pentagono. Ciò che dovrebbe seriamente preoccupare gli yankee è che nessuno sia ancora in grado di calcolare quanto “the shield” verrà a costare. L’unica certezza è che non sarà a buon mercato: un solo SM3 costa fra i 10 e 15 milioni di dollari.
Oltre al budget, esiste un altro problema, forse più grave. In virtù di un nuovo trattato fra Usa e Russia per la futura riduzione degli armamenti, Mosca si è fermamente opposta allo scudo europeo. I repubblicani hanno fatto notare al Presidente che questo potrebbe costituire un ostacolo. Lui ha dissentito.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Pessina
Un ennesimo scontro tra l'esercito israeliano e quello libanese ha causato martedì la morte di cinque uomini lungo la linea di confine tra i due Paesi mediorientali. L'incidente, uno dei più cruenti degli ultimi anni, ha risvegliato da subito la preoccupazione del mondo intero, poiché l'area costituisce una delle zone più volubili del vicino Oriente. Il conflitto tra Libano e Israele, sebbene ufficialmente concluso da una risoluzione del Consiglio delle Nazioni Unite (ONU) nell'agosto 2006, non è mai stato risolto veramente e, da quattro anni a questa parte, un'infinita serie di ostilità e manovre militari delinea una zona di grande instabilità politica e militare.
Nello scontro a fuoco sono morti un giornalista, tre soldati di Beirut e un alto ufficiale dell'Israel Defence Force (IDF), il gruppo delle forze militari unificate per la difesa d'Israele. All'origine del conflitto ci sarebbero dei colpi sparati dalle forze armate libanesi contro alcuni soldati israeliani che si trovavano in territorio a loro proibito, oltre cioè la linea blu, quella frontiera fissata dall'ONU in risoluzione dei decennali conflitti fra Libano e Israele.
Una linea, secondo la ricostruzione di Israele, poco chiara, che avrebbe indotto i militari di Beirut in errore: i militari dell'IDF stavano portando a termine delle semplici operazioni di routine, tra cui il taglio di alcuni alberi per migliorare la visuale, ha spiegato Israele. Secondo la ricostruzione libanese, tuttavia, i soldati avrebbero sparato solo pochi colpi di avvertimento, cui l'IDF avrebbe risposto con vere e proprie granate. Da qui sarebbero nati gli scontri, durati solo poche ore ma di grande gravità.
E ora il mondo intero ha paura. L'esercito israeliano considera il Libano "pienamente responsabile" dell'incidente occorso nel primo pomeriggio nella zona di confine tra i due Paesi. Non ha dubbi in proposito il quartier generale dell' IDF, secondo cui l'esercito libanese avrebbe aperto il fuoco contro una postazione dell'IDF in territorio israeliano. I soldati israeliani, ha sottolineato l'IDF, "stavano portando a termine operazioni di manutenzione coordinate con l'Unifil". L'Unifil, la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite, presidia la zona di confine tra i due Paesi già dal 2006 per garantire il rispetto delle risoluzioni ONU. Ma il Libano, come è ovvio, ha percepito una realtà completamente differente e parla di una chiara "aggressione" da parte dello stato israeliano. Il generale Said Eid, il numero uno del Consiglio di Difesa libanese, non si tira indietro: il Libano è pronto a rispondere "all'aggressione israeliana con tutti i mezzi possibili".
Se la situazione di tensione non si è mai risolta, le guerre vere e proprie tra Libano e Israele sono state due. La prima risale al 1982, l'anno in cui Israele è intervenuto nella guerra civile libanese a fianco delle milizie dell'Esercito del Libano del Sud (ELS) e delle forze cristiano-falangiste di Pierre e Bashir Gemayel. Sullo sfondo intricato di alleanze taciute e patti poco chiari, quella di Israele è stata forse l'unica mossa che non lascia spazio a interpretazioni di sorta. Israele ha compiuto una vera e propria invasione del Libano per impedire nel Paese il consolidamento di una base di operazioni dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il gruppo nato attorno alla figura di Yasser Arafat.
Questa guerra, in particolare, è passata alla storia per il tremendo massacro di Sabra e Shatila, a Beirut: per quasi 40 ore i membri della falange cristiano maronita hanno violentato donne e ucciso civili disarmati all’interno del campo circondato e sigillato dagli israeliani, parte attiva nell’operazione. Al termine del conflitto, le forze palestinesi sono state costrette a spostarsi in Tunisia e Israele ha occupato la zona sud del Libano, rimanendoci fino al 2005. Nel complesso, tuttavia, Israele non ha riportato una vittoria univoca.
Israele è tornato all'attacco nel luglio 2006. A giustificare l'aggressione, questa volta, sono gli attacchi missilistici degli Hezbollah, il partito politico libanese che combatte contro Israele in nome dell'indipendenza del Libano. Appoggiato dall'Iran, il partito degli Hezbollah si muove da sempre agli occhi dell'opinione pubblica nel limbo della controversia.
Se quasi tutti i Paesi del mondo ci vedono una legittima forza politica che combatte per la libertà del proprio Paese dalla pressione straniera (quella Israeliana), altri - tra cui Stati Uniti, Paesi Bassi, Canada e Israele - non mancano di evidenziarne un presunto lato oscuro legato a fazioni di matrice terroristica. Perché giustificarsi di fronte all'opinione pubblica, di questi tempi, è più importante di quanto non possa apparire. Resta il fatto che Israele invade il Libano ed Hezbollah si difende, non il contrario.
Il conflitto del 2006 è durato 34 giorni, fino al "cessate il fuoco" imposto dall'ONU e dalla famosa Risoluzione 1701. Oltre al disarmo degli Hezbollah e il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale, l'ONU ha previsto lo spiegamento dell'Unifil, la Forza di Interposizione delle Nazioni Unite nel Libano, costituita da 12 mila unità, e la ridefinizione della linea blu. Ed è proprio in questo senso che si è espresso ancor oggi l'ONU, richiedendo a Libano e Israele di rispettare scrupolosamente la risoluzione che ha permesso la fine del conflitto in quell'ormai lontana estate del 2006. Una fine, a quanto pare, più apparente che reale.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
Questa volta le vittime sono i familiari dei soldati morti in Iraq e in Afghanistan. I colpevoli, le compagnie di assicurazione che gestivano le polizze vita dei militari. La riforma finanziaria di Obama doveva colmare delle voragini legislative evidentemente troppo grandi. A neanche dieci giorni dalla firma del presidente sulla nuova legge, infatti, gli americani si sono accorti che delle truffe legalizzate ai loro danni sono ancora possibili, come dimostra un’inchiesta di David Evans pubblicata da Bloomberg.
Vere e proprie speculazioni sul dolore, sulla vulnerabilità di chi ha da poco seppellito una persona cara e non ha nessuna voglia di telefonare al commercialista. I meccanismi della truffa sono ben esemplificati dalla storia di Cindy Lohman, infermiera di Great Mills, Maryland. Due settimane dopo la morte del figlio, il sergente di 24 anni Ryan Baumann, Cindy riceve per posta un pacco. All’interno trova un libretto di assegni e una lettera della compagnia di assicurazioni Prudential. I 400 mila dollari della polizza sulla vita di Ryan sono stati versati su un convenientissimo retained-asset account, un conto soggetto a interessi. Cindy li può ritirare quando vuole.
Peccato che la donna abbia mancato di leggere la microscopica clausola in calce alla lettera. C’è da capirla: “Era come se mi pagassero perché mio figlio è stato ammazzato - ha detto - era un premio di consolazione che non volevo”. Straziante, ma prevedibile. Reagiscono quasi tutti così, le compagnie assicurative lo sanno. La povera Cindy fa passare sei mesi prima di cedere alla tentazione di staccare uno di quegli assegni. Voleva comprarsi un letto nuovo. Sorpresa: il commerciante rifiuta l’assegno.
Che fine ha fatto il premio di consolazione? In attesa che Cindy elaborasse il lutto, la Prudential non ha depositato i soldi alla J. P. Morgan (come pure aveva lasciato intendere, stampando a chiare lettere il nome della seconda banca commerciale americana sui famosi assegni): il gruzzolo è stato investito sul mercato. Per la precisione in titoli obbligazionari. Almeno stavolta non sono derivati, verrebbe da pensare. Sennonché la compagnia di assicurazioni guadagna dall’operazione il 4,8%, a fronte di un interesse pagato alla cliente pari a un misero 1%. Mica male come guadagno.
A fermarci qui saremmo già all’abiezione, ma c’è di peggio. Non essendo depositato presso una banca, il denaro di Cindy non è coperto dall’Fdic (Federal Deposit Insurance Corporation), l’ente federale che garantisce i depositi (bancari). Questo significa che se la Prudential disgraziatamente sbagliasse gli investimenti e perdesse i soldi, Cindy non vedrebbe più un dollaro. E questo, sul contratto di polizza, non c’era scritto. Ma non sono finiti qui i vantaggi che un’assicurazione può offrire: a luglio sia MetLife che Prudential, rispettivamente prima e seconda compagnia del Paese, hanno pagato ai loro clienti un interesse dello 0,5%. Meno della metà di quanto avrebbe pagato una normale banca commerciale con copertura Fdic. Un vero affare.
Non esistono dati ufficiali che rivelino a quanto ammonti il capitale gestito in questo modo dalle compagnie assicurative americane, ma stando all’American Council of Life Insurers le polizze sulla vita gestite sarebbero più di 300 milioni, per un totale di assets del valore di circa 4.600 miliardi di dollari. Secondo alcuni economisti, questo pseudo sistema bancario messo in piedi dalle assicurazioni violerebbe una legge del 1933 (è abbastanza significativo che si debba risalire a 77 anni fa) secondo cui solo banche e istituti di credito possono accettare depositi senza specifica autorizzazione statale o federale.
Sempre dall’ambiente accademico arriva il suggerimento a prevenire, almeno stavolta, il collasso: se infatti una sola compagnia non fosse in grado di rifondere il denaro investito, i clienti potrebbero capire il trucco, perdere fiducia nel sistema e, presi dal panico, richiedere in massa il rientro del denaro. Scenario apocalittico.
Non dobbiamo quindi sentirci troppo al sicuro. Quello dei retained-asset accounts è un settore ancora deregolamentato. La riforma obamiana non ha migliorato la situazione: è stato creato un Ufficio Federale per le assicurazioni, ma non avrà funzioni regolative. Perfino le assicurazioni che il Governo federale stipula per i suoi impiegati (tramite MetLife, naturalmente) non sono esattamente cristalline: ai dipendenti non militari viene inviato un manuale di 217 pagine in cui non si dicono bugie, ma si omette candidamente che i soldi non saranno garantiti dall’Fdic e resteranno a MetLife finché a qualcuno non verrà in mente di staccare un assegno. Solo allora passeranno in una vera banca. Tutto questo con buona pace della Sec (Security and Exchange Commission, la Consob americana), che richiede a qualsiasi compagnia, ma non alle assicurazioni, di informare i clienti in caso di mancata copertura Fdic e di consegnare un prospetto che specifichi il modo in cui i soldi vengono impiegati.
L’inchiesta di Evans ha spinto Andrew Cuomo, procuratore generale di New York e probabile candidato democratico alla carica di governatore della città, a citare in giudizio otto società assicurative. “Non stiamo violando nessuna legge”, ha dichiarato Joseph Madden, portavoce di MetLife. E a meno di ricorrere all’ottuagenaria legge di cui abbiamo parlato, probabilmente ha ragione.
Certo è che i livelli di trasparenza dimostrati oggi dalle compagnie assicurative non sembrano così lontani da quelli delle banche prima della crisi, quando ancora si faceva credere agli americani di poter usare la propria casa come un bancomat inesauribile. “Mi rattrista, come americana, che una compagnia possa ridursi al punto di trarre profitto dalla morte di un soldato. Si può cadere più in basso?”, domanda Cindy.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Eugenio Roscini Vitali
In un report pubblicato il 16 luglio scorso, Human Rights Watch (HRW) ha valutato e definito l’attuale regime siriano “un decennio sprecato”, un periodo di tempo nel quale le autorità hanno fatto troppo poco per cambiare le condizioni di una nazione che, sottoposta al riesame della storia, “mostra una costante politica di repressione del dissenso” e una cronica negazione di molte forme di libertà di pensiero ed espressione.
La prima a pagare questa endemica mancanza di democrazia è sicuramente la minoranza curda che, oltre ad essere sottoposta a forti forme di discriminazione, da alcuni anni si trova a fare i conti con un’azione militare sempre più violenta e massiccia. Damasco giustifica la sua politica con la presenza sul territorio di guerriglieri appartenenti al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) ma secondo l’intelligence israeliana alle operazioni parteciperebbero anche militari e mezzi delle forze speciali turche che il governo utilizza nella lotta al terrorismo.
Ad Ankara sono certi che per entrare in Turchia i guerriglieri utilizzino il confine siriano e che a farlo non sarebbero solo gli uomini del Pkk ma anche quelli del Partito per la Vita Libera del Kurdistan (Pjak), altra organizzazione clandestina che di solito opera in Iran e che secondo i servizi segreti turchi verrebbe aiutata da Israele. L’asse tra Ankara e Damasco va quindi vista anche da un altro punto di vista: negli ambienti politici turchi, il sostegno israeliano al Pjak è considerato come una vera e propria minaccia, un appoggio indiretto al Pkk che opererebbe in territorio turco attraverso un’organizzazione parallela.
E’ una teoria che trova il suo fondamento nell’attentato che lo scorso maggio ha colpito la base navale di Iskenderun, nella provincia di Hatay: un atto terroristico di cui sono stati accusati il Pjak e il Pkk, considerato l’organizzatore e la mente dell’operazione. Per debellare la guerriglia curda, Ankara e Teheran hanno più volte effettuato operazioni militari congiunte ed alcune indiscrezioni parlerebbero di elementi israeliani e statunitensi che starebbero addestrando ed aiutando logisticamente e finanziariamente il Pjak.
In Siria sono attualmente in corso tre operazioni militare su larga scala che hanno come obbiettivo i miliziani curdi che secondo le autorità aiuterebbero i guerriglieri del Pkk. Per congelare l’area di operazione ed impedire l’accesso a possibili rinforzi provenienti dall’Iraq, le truppe siriane hanno sigillato il confine orientale. Gli attacchi delle forze speciali stanno interessando sia le zone a cavallo del confine turco che le città nord orientali, dove la presenza curda è più nutrita: Qamishli, Al Asakah, Qaratshuk e Diwar. Numerosi conflitti a fuoco sono stati registrati anche nei pressi della frontiera libanese e a Beirut, dove Damasco può contare sull’appoggio dei miliziani Hezbollah.
Nelle quattro località della Siria settentrionale interessate dai combattimenti gli scontri avrebbero coinvolto anche presunti membri del Pkk e i bombardamenti avrebbero raso al suolo interi quartieri. Secondo fonti israeliane - quindi non certo neutrali - i curdi che hanno perso la vita in combattimento sono almeno 185 e 400 quelli catturati, molti dei quali gia consegnati alla Turchia, ma c’è chi parla di cifre ben più alte, con più di 300 morti e non meno di 1.000 feriti. Non tutte le vittime però sarebbero guerriglieri e numerosi civili, bloccati da una battaglia feroce, avrebbero perso la vita.
I curdi starebbero subendo un vero e proprio assedio e il massacro verrebbe compiuto soprattutto grazie all’utilizzo dei droni Heron (Eitan) che la Turchia ha recentemente acquistato da Israele e che Ankara ha deciso di mettere a disposizione delle operazioni anti-curde in Siria. Nel sofisticato sistema di sorveglianza Eitan, non sarebbero solo utilizzati per seguire le tracce dei guerriglieri, ma c’è chi parla di missioni di ricognizione destinate ad individuare i profughi che stanno cercando di superare la frontiere e che una volta intercettati diventerebbero bersaglio dell’artiglieria.
E’ grazie ad un accordo di 190 milioni di dollari che alla fine dello scorso anno la Turchia ha acquistato da Israele 10 droni Eitan, aerei senza pilota prodotti dalla Elbit Systems di Haifa e dall’Industria Aerospaziale Israeliana (IAI), la company che ha sede nei pressi dell’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. Sei velivoli sono stati già consegnati e più di venti ufficiali e i militari turchi hanno ricevuto un corso di addestramento di due settimane nel deserto del Neghev. Considerato il miglior UAV al mondo, l’Eitan fornisce capacità intelligence molto ampie, ha un range di 4.500 miglia e può raggiungere un’altitudine di 4.000 piedi e rimanere in volo più di 36 ore.
Mentre Damasco preferisce non parlare della campagna militare in atto, fonti vicine allo Stato maggiore turco giustificano l’intervento di Ankara con la presenza in Siria di circa 2.000 combattenti del Pkk. Nel campo della sicurezza la cooperazione tra Siria e Turchia non è nuova e ufficialmente è stata ratificata con un accordo bilaterale siglato nell’ottobre del 2009. Questa volta però l’utilizzo del drone Eitan sta generando un vero e proprio caso diplomatico. Fra Ankara e Tel Aviv i contratti di vendita dei sistemi di difesa e di tecnologia high-tech sono infatti regolati da norme rigidissime e nell’ambito degli accordi non è permessa la collaborazione militare con Stati o gruppi nemici.
Nonostante questo la Turchia ha comunque deciso di violare le regole e ha messo a disposizione dei siriani (e dei servizi segreti iraniani) uno dei più avanzati sistemi militari sviluppati da Israele; un vantaggio enorme per Hezbollah che potrebbe addirittura aver studiato il velivolo in condizioni reali di combattimento.