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di Eugenio Roscini Vitali
Iron Dome, il sistema di difesa aerea sviluppato ad Haifa dalla società israeliana Rafael Advanced Defense Systems, ha completato con successo i test di simulazione reale ed è stato dichiarato pienamente operativo. La notizia, diffusa con un comunicato ufficiale dal ministero della Difesa israeliano, precisa inoltre che il programma sta per passare alla fase di installazione delle prime batterie di lancio e che inizialmente la copertura riguarderà le città più vicine al confine libanese e alla Striscia di Gaza.
Nato nel 2003, il sistema antimissili Iron Dome é stato il primo vero progetto pensato e realizzato per difendere il sud di Israele dalla minaccia dei Qassam palestinesi. Nel 2006, dopo la guerra contro Hezbollah e i 4.000 razzi Katyusha caduti sulla Galilea, Tel Aviv ha deciso di imprimere una notevole accelerazione allo sviluppo del sofisticato sistema d’arma, ma la svolta decisiva è arrivata nel maggio scorso, quando su input dello stesso presidente Barak Obama, il programma ha ricevuto una iniezione straordinaria di fondi americani: 25 milioni di dollari che il Congresso ha concesso allo Stato ebraico per portare a termine i test di valutazione del programma Iron Dome.
Collaudato contro il lancio simultaneo di numerosi vettori, il sistema sarebbe in grado di neutralizzare i proiettili di artiglieria da 155 millimetri e i razzi di diverso calibro sparati in un range compreso tra i 5 e i 70 chilometri. Secondo i tecnici della Rafael, Iron Dome può intercettare vettori provenienti da diverse direzione e selezionare la minaccia, abbattendo i soli razzi destinati a centrare gli obbiettivi sensibili e le aree abitate; un’opzione che riduce notevolmente le spese di gestione e smorza il già pesante il rapporto sui costi con i Katyusha e i Qassam.
Se Iron Dome dovesse abbattere tutti i razzi sparati da Hamas ed Hezbollah, che hanno una capacità di lancio di circa 500 missili al giorno, Israele dovrebbe spendere non meno di 280 miliardi di dollari alla settimana, un costo sproporzionato anche in termini di sicurezza.
Anche se i vertici della difesa aerea israeliana sono certi che Iron Dome rappresenta per ora l’unica soluzione valida contro i razzi a corta gittata, in Israele il nuovo sistema d’arma ha già sollevato non poche critiche. Oltre che sui costi, c’è chi punta il dito contro l’incapacità del sistema di difesa di garantire la totale impermeabilità del territorio (Rafael prevede un successo non superire all’80%) e di intercettare i vecchi Qassam-1, vettori che hanno un range di 3-4,5 chilometri e che arrivano sull’obbiettivo in un tempo inferiore ai 20 secondi necessari al loro rilevamento e distruzione.
In una conferenza organizzata dai detrattori del progetto, l’analista militare Reuven Pedatzur, docente all’Università di Tel Aviv, ha definito Iron Dome costoso e poco efficiente, un inganno che colpisce solo il portafoglio degli israeliani. Pedatzur ha spiegato che “il tempo di volo di un Qassam lanciato contro Sderot è di 14 secondi, mentre per identificare il target e lanciare le contromisure, Iron Dome spende almeno 15 secondi. Questo significa che tutto ciò che viene sparato in un range di 5 chilometri non può essere distrutto e probabilmente non c’è nessuna difesa neanche contro tutto quello che arriva da una distanza inferiore ai 15 chilometri”.
Nonostante i proclami del ministero della Difesa, i più ottimisti pensano che per produrre ed installare le prime 16 batterie saranno necessari almeno dieci mesi e 1,25 miliardi di dollari, una cifra ragguardevole se si pensa che per assemblare un Qassam servono poche ore di lavoro e non più di 150 dollari di materiale. Inoltre, Iron Dome non è mai stato provato in condizioni reali e contro missili sparati da rampe di lancio in rapido movimento o sotto l’effetto di disturbi elettronici e di tecniche di guerra elettronica.
C’è poi il problema riguardante la selezione dei missili da abbattere, perché diretti contro obiettivi militari o aree densamente popolate: una questione difficile da risolvere, perché prevede l’assegnazione di una scala di priorità che in molte circostanze non sarebbe possibile, come nel caso di attacco simultaneo a più zone abitate e basi militari di rilevanza strategica (quale salvare e quale no).
Fonti militari israeliane affermano che ci vorranno anni prima che tutte le città israeliane vengano protette dalla minacce dei razzi a corta gittata, ma una volta dislocate in quantità sufficiente, le batterie dovrebbero difendere sia i grandi centri urbani che i kibbutz del nord e del sud del paese. Dal prossimo novembre, Iron Dome potrebbe affiancare un altro sistema di difesa aerea, l’Arrow ABM, missile antibalistico di teatro (TMD) ad alta accelerazione che, grazie alla ricezione di un supplemento di informazioni sul lancio iniziale del nemico (early warning), riesce ad intercettare e distruggere i vettori a lunga gittata con una efficacia stimata attorno all'80-90%.
Nel 2012 dovrebbero inoltre diventare operative le batterie Magic Wand, sistemi di difesa antimissili che potrebbero operare contro i vettori con un range che varia tra i 40 e i 200 chilometri. Ma per monitorare il cielo da possibili attacchi missilistici Israele avrà presto a disposizione un’ulteriore contromisura: l’Active Layered Theatre Ballistic Missile Defense System (ALTBMD), la rete stratificata di protezione della NATO che gli Stati Uniti hanno deciso di fornire allo Stato ebraico e grazie alla quale sarà possibile monitorare in tempo reale il punto di lancio, la traiettoria di avvicinamento e la destinazione d’impatto di qualsiasi missile balistico sparato in un raggio 3.000 chilometri.
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di Ilvio Pannullo
Il Cardinale di Santiago del Cile, Francisco Erraruriz, e il Presidente della Conferenza Episcopale cilena, Alejandro Goic, devono avere un’idea davvero molto particolare dell’indipendenza. Perché proprio in occasione dei festeggiamenti per il bicentenario dell’indipendenza del Cile, hanno ritenuto appropriato esibirsi in una proposta indecente. Ritengono, gli alti prelati, che sarebbe opportuno un indulto per i militari pinochettisti condannati per violazione dei diritti umani.
Nel documento di cinque pagine, intitolato "Cile, un tavolo per tutti nel Bicentenario", inviato al nuovo presidente cileno, Sebastian Piñera (che di Pinochet fu ammiratore) il duo dei perdonatori a discrezione assoluta chiede, “per migliorare la convivenza e per il bene comune”, un “provvedimento d’indulto per persone private della loro libertà”, intendendo con esse anche i militari condannati per le loro malefatte in nome della “guerra al comunismo”. Ovviamente, chiedono “una riflessione che sappia distinguere il grado di responsabilità e di autonomia decisionale con i quali hanno agito”, nonché “il pentimento dimostrato”.
Possibile che l’esaltazione per il ritorno alla destra della guida del paese gli abbia preso la mano, ma davvero l’iniziativa dei due prelati appare come un pessimo esempio di esercizio pastorale oltre che si senso dell’opportunità e del tempismo. In un paese dove decine di migliaia di famiglie patiscono ancora nelle loro carni la tragedia del colpo di Stato dell’11 settembre 1973 e dei diciassette anni di regime ignominioso che ne sono seguiti, sono semmai molti a non aver pagato per quanto fecero o scelsero di non fare in adesione - aperta o tacita - a quanto la dittatura militare fece.
Quella dei prelati cileni (che, va detto, come gli argentini, rappresentano una gerarchia ecclesiale che non si oppose mai ai golpisti ma anzi, offrì loro ogni supporto) sembra ispirarsi a quanto avvenne in Argentina, con le due immonde leggi definite “Obediencia debida” e “Punto final”. In pratica due gigantesche operazioni di amnistìa per i militari autori della morte di trentamila persone, con l’assunto giuridico della non responsabilità oggettiva per chi obbedisce ad ordini e delinque nell’esercizio del suo dovere. Ci volle il Presidente Kirchner per azzerarle e rimettere la verità seduta al fianco della giustizia.
Il fatto significativo è che persino una parte della stessa detra cilena, l’UDI, ha rigettato la proposta indecente. “Se la chiesa vuole aiutare i detenuti malati o anziani - si legge in una nota del partito - esistono i benefici carcerari cui riferirsi”. Benefici di cui pare godano sin troppo i macellai del defunto Pinochet. A detta di molti dei militanti dei diversi gruppi per la difesa dei diritti umani che operano in Cile, infatti, proprio le condizioni della prigionia di molti dei gerarchi e dei torturatori del regime destano scandalo, dal momento che la loro detenzione la si può definire piuttosto blanda.
Risposta ancora più netta, naturalmente, da parte della Concertacìòn, la coalizione del centrosinistra oggi all’opposizione. La Democrazia Cristiana ha ricordato che il tema non può nemmeno essere messo all’ordine del giorno, vista la firma del Cile sui Trattati Internazionali: “sfortunatamente per i vescovi - ha detto il capogruppo DC al Parlamento - le violazioni dei diritti umani non sono soggette a prescrizione e non possono essere oggetto d’indulto, dunque la discussione non può nemmeno aprirsi”.
In attesa comunque di capire come il Governo di Piñera intenda sostenere la richiesta degli alti prelati, la portavoce del governo, Ena Von Baer, ha spiegato che “il presidente rifletterà su questa proposta e prenderà una decisione in base agli impegni presi dal governo nei confronti della verità, della giustizia, dell'unità nazionale, della sicurezza dei cittadini e delle considerazioni di carattere umanitario”.
Dichiarazione ambigua, come si capisce, che fa pensare ad una sorta di gioco di sponda tra Chiesa e governo per rimettere in libertà i fedeli funzionari del terrore pinochettista. A tale proposito, infatti, va registrato quanto detto dal Ministro della Giustizia Felipe Bulnes, per il quale “il perdono non fa parte del programma di governo e che Piñera, con questo gesto, risponderà solo a una richiesta avanzata dai vescovi”.
Mente il ministro e a smentirlo arriva proprio un suo collega, il Ministro della Difesa Jaime Ravinet: “Circa un mese fa, abbiamo inviato un rapporto confidenziale al presidente, che è colui che ha l’autorità legale per proporre o emanare indulti”.
Piñera per ora tace, ma l’Esecutivo ha reso pubblici i criteri in base ai quali verrà concessa la grazia: “i valori di unità nazionale, la sicurezza pubblica e la misericordia” tanto per non abbondare in fantasia, sono gli stessi termini contenuti nel documento dei prelati. Se non si sono messi d’accordo, l’alternativa è che la lunghezza d’onda sia la medesima. Non si sa quale ipotesi sia la più inquietante, ma è certo che non si tratterebbe di una novità.
Ma non è detto che il giochino risulti semplice. Perché va registrato comunque un parere sostanzialmente uniforme tra le forze politiche di centrosinistra (maggioranza in Parlamento) e gli organismi della società civile che della dittatura militare di Pinochet sono state le prime vittime.
Manifestazioni si sono tenute davanti a palazzo della Moneda, residenza del presidente della Repubblica cileno che Pinochet ordinò di bombardare per uccidere Salvador Allende, che mai del resto, si sarebbe arreso ai golpisti. Migliaia i partecipanti che, agitando le bandiere cilene e gli striscioni accusatori, hanno avvertito circa le possibili conseguenze cui andrebbe incontro la convivenza civile nel caso il delirio dei prelati trovasse udienza presso il Governo.
Mireya Garcia, vice presidente del Gruppo delle famiglie dei prigionieri e dei dispersi, ha affermato che i detenuti condannati per crimini durante la "sporca guerra" che potrebbero essere liberati sono circa 35, aggiungendo però, con parole che più chiare non potrebbero essere, che "la giustizia non ha nulla a che vedere con la clemenza, ma solo con ciò che è giusto".
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di Michele Paris
Con la recente approvazione della riforma delle norme che regolano Wall Street, Barack Obama sembrerebbe aver brillantemente mandato in porto un’altra delle ambiziose promesse lanciate due anni fa in campagna elettorale. Nonostante a quest’ultimo presunto successo vadano aggiunti almeno quelli della riforma sanitaria e del pacchetto di stimolo all’economia, che pare abbia creato o salvato tre milioni di posti di lavoro, il livello di gradimento del presidente tra gli elettori a meno di quattro mesi dalle elezioni di medio termine appare comunque in caduta libera.
Nell’ultima settimana, sui media liberal d’oltreoceano si sono moltiplicati gli interventi dei commentatori progressisti, i quali si interrogano sul mistero dei pessimi numeri evidenziati dai sondaggi di opinione per l’inquilino della Casa Bianca. E le spiegazioni fornite quasi mai centrano il problema. La colpa sarebbe da attribuire alla stampa che non ama Obama e il suo entourage o, al più, a una fallimentare strategia di comunicazione da parte di questi ultimi.
Ciò che manca è invece la vera natura della questione e cioè la crisi irreversibile in cui versa il sistema rappresentativo statunitense, all’interno del quale il presidente democratico ha completamente disatteso quel desiderio diffuso di cambiamento che gli aveva permesso di conquistare un clamoroso successo elettorale nelle elezioni del 2008.
L’allarme più recente per l’amministrazione Obama è suonato con la pubblicazione del sondaggio periodico condotto da Washington Post e ABC News lo scorso 13 luglio. Secondo questa consultazione, Obama sarebbe sceso a circa il 50 per cento nel livello complessivo di approvazione tra gli elettori, un record negativo dall’inizio del suo mandato. Sul fronte dell’economia le cose vanno anche peggio, con il 43 per cento che apprezza la sua gestione e il 54 per cento che la disapprova. Addirittura un terzo dei sostenitori del Partito Democratico assegna ora un voto negativo al presidente nel rispondere alla crisi economica. A conferma della delegittimazione del sistema politico di Washington, poi, c’è un significativo 36 per cento di intervistati che dichiara di non nutrire alcuna fiducia sia in Obama che nei membri del Congresso, siano essi democratici o repubblicani.
Le ragioni dello sconforto di buona parte degli americani, a ben vedere, si possono facilmente comprendere da una rapida analisi dei principali provvedimenti o “riforme” che hanno segnato i primi diciotto mesi dell’attuale amministrazione democratica. Un esame che parallelamente rivela anche quali siano le vere forze e gli interessi che muovono gli ingranaggi di Washington, ai quali i rappresentanti di entrambi i partiti rispondono pressoché esclusivamente. Una dinamica a tratti inquietante che la maggioranza degli elettori sembra aver compreso perfettamente.
La storica presidenza Obama era iniziata nei primi mesi del 2009 con l’approvazione di un piano di spesa da 787 miliardi di dollari per rianimare un’economia sull’orlo del baratro dopo il tracollo finanziario dell’autunno precedente. Se il discusso pacchetto ha contribuito in minima parte ad alleviare le conseguenze della crisi, molti economisti si sono trovati concordi nel ritenerlo insufficiente, tanto da non essere stato in grado di ridurre sensibilmente il livello di disoccupazione che oscilla infatti attorno al dieci per cento da oltre un anno a questa parte.
La gran parte del primo anno di Obama alla Casa Bianca è stata però monopolizzata dalla discussione attorno alla riforma sanitaria, obiettivo al centro dei programmi di tutti i candidati democratici fin dal fallito tentativo dell’amministrazione Clinton nei primi anni Novanta. Approvata finalmente lo scorso marzo, la nuova legge nulla ha fatto per implementare un sistema pubblico e universale che avrebbe potuto garantire la copertura sanitaria a tutti i cittadini americani. Il provvedimento si è risolto piuttosto in un colossale trasferimento di denaro pubblico alle compagnie di assicurazione private sotto forma di contributi ai redditi più bassi per l’acquisto di nuove polizze, che non sempre risulteranno accessibili né garantiranno la qualità dei servizi erogati.
La vittoria dei giganti delle assicurazioni private in ambito sanitario, inevitabilmente, ha fatto il paio con quella dei colossi di Wall Street dopo la recentissima firma posta da Obama sulla travagliata normativa che avrebbe dovuto fissare regole rigorose per i principali responsabili del disastro economico e finanziario del 2008. Anche in questo caso, ciò che i media hanno propagandato come la più comprensiva riforma del sistema finanziario dai tempi del New Deal, si è risolta in centinaia di regolamenti sostanzialmente dettati dai lobbisti di Wall Street che verranno puntualmente elusi in fase di attuazione della legge stessa.
Con le grandi banche che finanziano in larga misura i membri del Congresso, così come la conquista della presidenza da parte di Obama, non è sorprendente il fatto che gli autori della cosiddetta riforma abbiano cercato in tutti i modi di consentire loro di continuare ad operare in totale libertà, indebolendo quei provvedimenti che avrebbero potuto mettere al sicuro i cittadini dai comportamenti più rischiosi.
Perciò, ad esempio, il testo finale non prevede la possibilità di smembrare le mega-banche a rischio di fallimento che minacciano la tenuta del sistema, così come non è stata ristabilita la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento - un caposaldo della legislazione degli anni Trenta, smantellato durante la presidenza Clinton - né è stato fissato un tetto ai compensi dei dirigenti delle istituzioni finanziarie e, nemmeno, limiti significativi al mercato dei derivati.
Per quanto queste iniziative, così come molte altre, abbiano di fatto favorito i grandi interessi economici e finanziari, l’amministrazione Obama si è vista recapitare da subito accuse di pseudo-socialismo, d’irresponsabilità nel gonfiare il deficit pubblico e di essere irriducibilmente anti-business. Critiche assurde, com’è ovvio, vista l’influenza smisurata dei poteri forti anche sull’establishment democratico, ma che hanno permesso ai repubblicani di plasmare il dibattito politico negli Stati Uniti. In questo modo, ogni provvedimento della maggioranza e della Casa Bianca è stato dipinto come una pericolosa espansione dei poteri del governo federale o una dispendiosa nuova voce di bilancio volta ad allargare pericolosamente i cordoni della spesa pubblica.
Se a tutto ciò si aggiunge il crescente malcontento per una guerra in Afghanistan senza prospettive e le ripercussioni causate dagli effetti della marea nera nel Golfo del Messico (i vertici della BP, tra l’altro, hanno contribuito massicciamente al finanziamento della campagna elettorale di Obama nel 2008), gli scarsi indici di gradimento del presidente non rappresentano una sorpresa. Una situazione che con ogni probabilità produrrà una sonora sconfitta per il suo partito nelle elezioni per la Camera e una parte del Senato il prossimo novembre e, di conseguenza, un’ulteriore svolta a destra per poter attuare il resto del programma con il consenso di un rinvigorito Partito Repubblicano.
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di mazzetta
Mai come ora il mondo osserva con il fiato sospeso Israele, paese che sembra chiamato ad affrontare uno dei periodi più duri della sua breve e travagliata storia. La sfida è ancora più pericolosa perché proviene dall'interno, non sono i vicini (e meno vicini) arabi o islamici a promettere un futuro fosco, ma le dinamiche interne. Dall'avvento del governo Bush e dei neo-conservatori, Israele ha avuto mano libera e partecipato con entusiasmo alla War On Terror.
I premier israeliani, tutti ex-generali dell'esercito, hanno trovato in Washington l'alleato ideale per infierire sui vicini. Nessuna delle numerose aggressioni o attacchi israeliani ai paesi confinanti ha mai ricevuto una sanzione dal Dipartimento di Stato e nemmeno le due vere e proprie guerre-lampo scatenate contro il Libano e Gaza hanno sollevato critiche sostanziali o anche solo rumorose.
Nonostante questo, nessuno può fare a meno di notare che è almeno dagli anni '70 che nessun paese dell'area aggredisce Israele e che, da allora, il divario tra la potenza militare israeliana e alleata e i vicini potenzialmente ostili è aumentato in progressione geometrica. Sono ormai un paio di decenni che nessun paese dell'area può coltivare velleità militari anti-israeliane, che sono anche fuori anche della portata di paesi come l'Iran, molto più grandi e popolosi di Israele, che però hanno spese militari non paragonabili, quasi sempre dedicate in gran parte al mantenimento del controllo interno e dei confini.
L'arroganza con la quale il governo israeliano affronta le critiche internazionali non aiuta, come non aiuta vedere Netanyahu raccontare sciocchezze smentite nel giro di qualche settimana dalla realtà e l'ossessivo ricorso alla forza militare come strumento per la soluzione dei problemi più diversi, fino a scatenare guerre per guadagnare voti.
La depressione universale delle sinistre negli stessi anni, non ha risparmiato Israele, dove l'opposizione a queste politiche avventuristiche e all'evidente spinta alla colonizzazione della West Bank a creare un “fatto compiuto”. Che é inaccettabile per chiunque non sia perso nel viaggio di quel nazionalismo a sfondo religioso che in Israele ha preso in ostaggio le fragili istituzioni democratiche, di fatto esautorate dal mantenimento di uno stato di guerra artificiale quanto eterno.
Da decenni Israele potrebbe evitare qualsiasi conflitto armato ed è evidente che i più recenti sono stati smaccatamente scatenati per basse ragioni di politica interna, perché alla popolazione in stato di guerra permanente devi dimostrare che sei disposto a fargliela pagare, a tutti quelli là fuori che ci vogliono distruggere. Il problema per Israele è che a questa paranoia collettiva non si accompagnano solo le conseguenze già tradizionalmente preoccupanti degli unanimismi nazionalisti, ma che oggi i partiti d'ispirazione religiosa hanno decisamente preso il controllo di pezzi fondamentali delle istituzioni e stanno cercando di adeguare l'assetto istituzionale del paese alla loro visione dell'ebraismo e della sua interpretazione fondamentalista.
In un paese con sette milioni e mezzo di abitanti, due milioni di ortodossi pesano molto; a maggior ragione se poi il governo deve essere formato necessariamente da coalizioni di partiti, il più “pesante dei quali ha raccolto settecentocinquantamila voti e ventotto seggi sui centoventi disponibili. Partiti che raccolgono la metà di questi voti sono decisivi e ce ne sono almeno due che rivaleggiano nello spingere Israele vero il medioevo.
Sono arrivati al governo in massa con Netanyahu, che si è accollato una bella compagnia di fuori di testa insieme a “Terror” Lieberman, ministro degli esteri. Alla Knesset, il Parlamento, vola di tutto e attualmente c'è in discussione il tentativo da parte degli ortodossi di attribuire l'autorità sulle conversioni proprio al rabbinato ortodosso. Un'idea folle che consegnerebbe agli ortodossi il potere di stabilire chi sia ebreo, almeno ai fini dell'acquisizione della cittadinanza israeliana. Un'azione che unita al tentativo di sopprimere la legge, che prevede la cittadinanza automatica ai discendenti di ebrei consegna un potere enorme agli ortodossi.
Come possa il governo Netanyahu svendere parte dello storico impianto ideologico-istituzionale e una peculiarità come la concessione della cittadinanza a una fazione religiosa, attiene sicuramente alla miseria degli scambi politici più bassi; ma questo genere di azioni si moltiplicano di mese in mese senza una significativa opposizione della popolazione non-ortodossa. Sul fronte interno l'unanimismo patriottico è marmoreo, chi non è d'accordo con il governo è contro Israele, un traditore.
La cosa non è piaciuta agli ebrei della diaspora, che hanno il loro peso, ma che all'interno della Knesset non ci sono e che pensano con sgomento all'idea di una Israele come casa degli ortodossi, che non sono d'accordo nemmeno sull'ebraicità di molte fazioni concorrenti che ritengono semplicemente impuri e contagiosi i laici.
Solo poche centinaia di persone partecipano ormai a manifestazioni per i diritti civili o contro la politica di colonizzazione o contro le ultime guerre e, spesso, sono soggetti ad aggressioni a sfondo politico o, più semplicemente, ad una rude repressione. Sembra che l'intero paese fatichi a rendersi conto di queste evoluzioni, sia perché ostaggio della paranoia, sia perché non è per niente facile fare opposizione o mostrarsi diversi quando ti definiscono traditore o ti sputano per strada.
Sono state proposte leggi che puniscono severamente chi simpatizzi per la campagna di boicottaggio ad Israele o per quei professori che condividano l'opinione dei loro colleghi internazionali sull'occupazione e si battono per contrastarla e, dove non arriva la censura militare, le cattive notizie s'infrangono su un'opinione pubblica a prima vista impermeabile a qualsiasi disfattismo.
In Israele oggi non ti sputano solo se dissenti, ti sputano anche se non sei abbastanza “modesto” e ti molestano in ogni maniera se non hai rispetto delle molteplici prescrizioni e credenze religiose dell'ortodossia. Ci sono quartieri nei quali le donne devono sedere sul fondo degli autobus e nei quali non è bene per le signore avventurarsi esponendo le proprie grazie, pena insulti e aggressioni. Il potere e l'influenza degli ortodossi dilaga, manifestano in massa ogni volta che sentono odor di sacrilegio e dove non ottengono il privilegio per vie legali, forzano la mano senza temere punizioni, che tanto non arrivano.
La loro ossessiva tendenza a regolamentare ogni aspetto della vita secondo le prescrizioni della Torah, tira dritto verso il medioevo, in direzione opposta alla storia della “unica democrazia”dell'area, verso una repubblica teocratica retta dal rabbinato ortodosso. Il fatto che Israele non abbia ancora una Costituzione, induce ulteriori preoccupazioni per l'ulteriore istituzionalizzazione dell'ingerenza religiosa nello stato.
Al nazionalismo si somma quindi il fanatismo religioso, con effetti perversi, ancora di più nelle colonie, dove spesso gli ortodossi costituiscono il nerbo degli insediamenti e il fertilizzante della loro crescita, visto che molti di loro non possono lavorare per precetto religioso e che apprezzano le famiglie numerose. Alimentati dalle casse dello Stato come massa colonizzante al servizio dei generali, sono diventati forza di riferimento nell'imponente (per i numeri israeliani) trasferimento di popolazione oltre i confini riconosciuti, in quei territori che nessun paese o istituzione internazionale al mondo riconosce come israeliani. Dice il rappresentante di Nordkin, una colonia vicino a Betlemme che ospita ortodossi e non, di origine russa, che l'insediamento ha rifiutato a grande maggioranza l'arrivo di famiglie non sufficientemente osservanti. A Nordkin, Lieberman ci ha preso casa e i non-ortodossi sembrano non aver voce in politica.
Così il rappresentante ufficiale della colonia, che vive e prospera grazie alla protezione e ai fondi di un paese che in teoria ripudia il razzismo, può dire senza timore di sanzioni o di sollevare scandalo che: “Il problema più grande é che, se accetti dieci famiglie nelle quali la madre non è ebrea, presto ci saranno trenta bambini e domani tuo figlio potrebbe innamorarsi della bella ragazza della porta accanto: è un vero problema. È già abbastanza difficile con le dozzine di terroristi che entrano ogni mattina”. (leggasi i palestinesi che lavorano per i coloni ndr). E prosegue: “Dobbiamo separarci dai gentili nel commercio e in tutto il resto, soprattutto nel vivere con loro. Potrebbe portare all'assimilazione o all'idolatria. Apre la porta a ogni genere di problemi. Potrebbero spingerci a commettere peccati che gli ebrei normalmente non commettono, come l'idolatria, l'incesto e tutte le altre perversioni di ogni genere. Per questo qui non c'è posto per loro.” Questo delirante discorsetto è tradotto da Haaretz.com.
È appena il caso di far notare che le stesse parole pronunciate in un contesto occidentale sarebbero considerate razzismo puro, ancora di più se l'oggetto dell'ostracismo fossero famiglie respinte perché ebree. Questo è il contesto culturale e sociale prodotto dagli estremisti religiosi nella sua brutale pochezza.
Purtroppo gli ortodossi non si limitano ad auto-segregarsi, ma hanno la tendenza a considerare le loro regole come le uniche appropriate per Israele e si applicano moltissimo allo scopo, nelle più lontane colonie come nel centro della metropoli, Gerusalemme. Per questo anche Anat Hofman, rappresentante di un gruppo di preghiera femminile, Le Donne del Muro, è stata prima aggredita e sputacchiata e poi arrestata per aver trasgredito una sentenza dell'Alta Corte che le vietava di leggere la Torah al Muro del Pianto, infrangendo un divieto stabilito ancora una volta dagli ortodossi che, da tempo, operano per a trasformare un monumento nazionale accessibile a tutti gli ebrei in un tempio all'interno del quale valgono le regole dell'ortodossia più stretta.
Una tale deriva spinge lontano dalle soluzioni auspicate internazionalmente o lontanamente accettabili per i palestinesi. Il sogno degli ortodossi è infatti un solo Stato dal quale siano possibilmente espulsi o emarginati tutti quelli non abbastanza ebrei, trasformando il paese in senso teocratico e provocando una frattura da antiche guerre di religione all'interno dell'ebraismo.
Una brutta aria per gli arabi israeliani, ma anche per gli altri israeliani, che al danno aggiungono la beffa di dover finanziare con le loro tasse lo stile di vita degli ortodossi, in gran parte a carico dello stato sociale. Di tutti i molteplici divieti uno solo è stato sollevato dal clero ortodosso, quello di arruolamento volontario nell'esercito per gli uomini, che al pari delle donne sono esentati dal servizio militare per motivi religiosi.
Le uniche forze in grado di contrastare questa inarrestabile avanzata sembrano gli Stati Uniti e quella, minore e comunque rilevante, della diaspora. Gli Usa garantiscono un ombrello legale con diritto di veto esercitato in automatico all'ONU e la protezione, l'assistenza militare e i finanziamenti dell'unica superpotenza mondiale.
C'è molto che gli Stati Uniti possono mettere sul piatto per far capire a Netanyahu e a Israele che la situazione si sta deteriorando oltre il tollerabile e che Israele nel medioevo non lo vuole nessuno. L'Unione Europea si è già incamminata in quella direzione, ma l'amministrazione Obama ancora arranca, esita, intimorita dalla sfacciata doppiezza di Netanyahu e distratta altre questioni. Nemmeno il Segretario di Stato H. Clinton sembra avere lo spunto giusto. Forse a qualcuno Israele piace proprio così.
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di Carlo Musilli
Se per quella sul campo ci sarà ancora da lavorare non poco, sembra proprio che nella guerra della corruzione non ci sia storia. Americani e europei vincono per distacco. Fra il 2002 e il 2009 gli aiuti internazionali giunti in Afghanistan ammontano a circa 40 miliardi di dollari. Di questi, una cifra compresa tra i 24 e i 27 miliardi non è mai arrivata a chi ne aveva bisogno, gli afgani. E’ questa la denuncia di Pino Arlacchi, eurodeputato Idv, membro della commissione Affari esteri e autore del rapporto “La nuova strategia dell’Unione Europea per l’Afghanistan”.
Durante una missione svoltasi nel marzo scorso fra Kabul e Herat, Arlacchi ha incontrato il ministro delle finanze afgano, Omar Zakhilawal. E si è accorto che i conti non tornano proprio. Di quei famosi 40 miliardi, soltanto 6 sono arrivati al governo di Karzai. Gli altri 34 sono passati per le varie “agenzie di assistenza umanitaria e di sviluppo del sistema internazionale: dagli uffici per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi Ue e degli Usa all’Unpd (United Nations Procurement Division, ndr), dall’Unopos (United Nations Office of Project Services, ndr) alla Banca Mondiale, fino alle grandi Ong che operano in Afghanistan”, come si legge nel rapporto.
Attraverso questi canali apparentemente così sicuri, il 70 / 80 % di quei 34 miliardi si è dissolto nel nulla. Gli afgani non ne hanno più sentito parlare. Secondo Arlacchi i fondi si perdono lungo la catena di distribuzione e alla fine tornano da dove sono partiti, nella maggior parte dei casi attraverso percorsi di corruzione legalizzata, costi di intermediazione eccessivi e sovrafatturazioni. Come esempio della cattiva gestione e dello spreco di soldi pubblici, l’europarlamentare cita i 27 milioni di euro pagati ad una compagnia di sicurezza privata della Gran Bretagna per la protezione della rappresentanza diplomatica europea a Kabul. Lo stesso servizio “poteva essere fornito da qualsiasi forza di polizia europea - sostiene Arlacchi - con una qualità molto superiore e con costi pari a un terzo di questa somma, che basterebbe a gestire 20 ospedali”.
Ancora più inquietante è l’esempio della scuola. In Afghanistan per costruire un istituto di due piani e con venti classi non servono più di centomila euro. Ebbene, se dell’opera s’incarica un’organizzazione internazionale, i costi possono lievitare dalle tre alle dieci volte. Ciò è tanto più grave se si considera che in Afghanistan l’alfabetismo continua a calare e che di scuole bisognerebbe costruirne almeno seimila. A fare le cose in modo corretto, i soldi necessari equivarrebbero a quelli che normalmente vengono usati per finanziare una settimana di guerra.
Tutto questo, a detta di Arlacchi confermato tanto da membri del governo afgano quanto da analisti indipendenti, sembrerebbe gettare una nuova luce sulla decisione di Nita Lowey, la sovrintendente americana allo stanziamento di fondi per l’Afghanistan che un paio di settimane fa ha tagliato circa 4 miliardi di aiuti per il 2011. Ufficialmente, il provvedimento è stato causato dalle rivelazioni sulle ruberie di alcuni funzionari corrotti del governo di Karzai, che in due anni avrebbero sottratto circa 3 miliardi di dollari di aiuti internazionali portandoli fuori dal Paese. Ufficiosamente, questo ormai sembra più un pretesto, o quantomeno una giustificazione molto parziale e perciò poco convincente, a fronte di una situazione che gli americani dovrebbero chiarire prima di tutto in casa propria.
Se infatti è indiscutibile che il potere afgano sia contaminato ad ogni livello dal morbo della corruzione cronica, bisogna comunque cercare di non ripararsi troppo facilmente dietro questo comodo capro espiatorio. “Dal Governo di Kabul passa solo il 15% degli aiuti totali - spiega ancora Arlacchi nel suo rapporto - anche attribuendo alla corruzione locale un’incidenza del 50%, non si supera il 7,5% del volume complessivo della spesa finora effettuata in Afghanistan”. Gli Stati Uniti, da soli, gestiscono la maggior parte degli aiuti diretti in Afghanistan, causando il maggior spreco di denaro in assoluto. Nemmeno paragonabile a quello prodotto dai più furbetti tra i funzionari di Karzai.
Alla fine, però, il governo Usa si è convinto della necessità di istituire un Ispettorato Generale sulla ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar) “che inizia a fare ora ciò che bisognava fare 9 anni fa: misurare l’impatto dei fondi stanziati per lo sviluppo del Paese, ricostruirne la mappa, identificare e prevenire gli abusi”. L’auspicio di Arlacchi è che anche per i fondi europei si crei un sistema di monitoraggio di questo tipo e che alla fine la gestione degli aiuti umanitari sia affidata alle autorità locali afgane. Sembra che siano molto più efficaci delle organizzazioni internazionali.