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di Mariavittoria Orsolato
“Un nuovo terremoto” così il leader dei contadini haitiani Chavannes Jean-Baptiste ha definito il dono che la Monsanto - l’arcinota multinazionale agrochimica specializzata in OGM - ha destinato alle popolazioni colpite dal disastro dello scorso 12 gennaio. Sessantamila sacchi, 475 tonnellate circa di semi ibridi, per un valore complessivo di 4 milioni di dollari, che però i contadini sono caldamente invitati a boicottare.
Quella dei paysans haitiani è infatti una vera e propria protesta, maturata dall’idea che, con il pretesto dei soccorsi e della ricostruzione post-sisma, grandi multinazionali, come appunto la Monsanto, si vogliano inserire forzosamente nell’economia locale, un’economia prevalentemente a carattere di sussistenza che sarebbe irrimediabilmente 0000stravolta.
Secondo Chavannes, infatti, “le sementi rappresentano una sorta di diritto alla vita. Ecco perché oggi abbiamo un problema con la Monsanto e con tutte le multinazionali che vendono semi: semi e acqua sono patrimonio comune dell'umanità”.
Molti avranno sentito parlare della Monsanto a causa delle controversie che il suo metodo operativo ha aperto nello scenario degli OGM, scatenando le ire dei gruppi ambientalisti: essendo geneticamente modificati, i semi prodotti dalla multinazionale di St. Louis hanno sì grosse rendite in termini di dimensioni del raccolto o della resistenza a malattie e siccità, ma al contempo sono semi sterili, incapaci cioè di trasmettere le proprie caratteristiche agli esemplari figli; perciò chi decide di usare questo tipo di semenze è costretto, ad ogni semina, a comprare nuovi esemplari anch’essi sterili.
C’è però un altro problema ed è da questo che i contadini haitiani hanno mosso la loro protesta: per la naturale azione dei venti, le propaggini delle colture geneticamente modificate arrivano ad intaccare anche i prodotti di chi invece ha scelto di continuare a coltivare con il metodo biologico.
L’ MPP (il movimento dei paysans haitiani) si batte infatti per la sovranità alimentare - ossia per il diritto di ciascun Paese di definire in modo autonomo la propria politica agricola, il diritto delle comunità di decidere cosa produrre, e quello dei consumatori di poter consumare prodotti sani - e lo scorso 23 giugno un gruppo di agricoltori di Hince ha bruciato pubblicamente alcune sementi di mais ibrido donate del colosso dell’agrotecnologia, invitando i colleghi ad emularli.
Secondo il portavoce della società, Darren Wallis, è tutta una questione di buona fede: “Monsanto ha fatto questa donazione, in poche parole, perché era la cosa giusta da fare. Le necessità di Haiti sono significative e noi abbiamo i semi che potrebbero aiutare gli agricoltori a far crescere il cibo non solo per se stessi ma, con un raccolto abbondante, anche per i bisogni alimentari di altri cittadini haitiani”.
L'azienda ha poi sottolineato in un comunicato stampa che le sementi non sono geneticamente modificate, come sostengono Chavannes e i suoi paysans, ma ha ammesso che i semi sono stati in parte trattati con fungicidi e pesticidi, tra cui Maxim XO e tiramina (sostanze note per i loro effetti collaterali sulla salute umana).
“L’associazione che è stata fatta tra organismi geneticamente modificati e quello che stiamo facendo è completamente errata - dice Christopher Abrams della Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che sta contribuendo a distribuire le sementi - ma da allora, si sono generate opinioni tra la popolazione sul significato presunto di questa operazione”. E il significato presunto è, secondo Chavannes ma anche secondo il più semplice dei sillogismi, che “i nostri agricoltori smetteranno di essere autonomi e dovranno dipendere da una multinazionale come la Monsanto o altre multinazionali che vendono semi” e così dicendo il eader dell’MPP accusa anche il presidente haitiano René Préval di “collusione con l’imperialismo”, nell’intento di svendere il patrimonio agricolo nazionale.
Non è, infatti, sviluppo sostenibile quello che pretende di legare a doppio filo una realtà rurale come quella di Haiti con le teste di serie dell’universo multinazionale: costretti a pagare ciclicamente per delle sementi altrimenti gratuite, i contadini sarebbero comunque coattati ad attrezzarsi per il nuovo tipo di coltura e ad approvvigionarsi perciò all’azienda madre, la Monsanto appunto.
Ma c’è di più: nel momento in cui un agricoltore decide di servirsi dei semi prodigiosi della Monsanto, deve firmare una sorta di contratto in cui si impegna a non tenere da parte i semi e a non venderli a terzi: una semplice formalità, secondo molti, che cela però uno stretto controllo, espletato, secondo svariati testimoni, da un vero e proprio esercito di investigatori privati che segretamente acquisiscono immagini e video dei contadini.
La paura dei paysans haitiani è infatti quella di finire come i colleghi americani cui la Monsanto ha indirizzato ben 112 querele per un totale di 21,5 milioni di dollari di risarcimento: in breve, la multinazionale ha citato in giudizio tutti quei contadini che, dopo aver adottato il loro sistema, hanno contaminato i raccolti circostanti per effetto della naturalissima impollinazione che, da che mondo è mondo, permette di riprodurre le piante.
La multinazionale di St.Louis è a un passo dal monopolizzare il mercato delle sementi ed il pericolo più tangibile è che con l’adozione sempre più massiccia di tale tipo di coltivazione la semina convenzionale scompaia, rendendo la Monsanto di fatto padrona dell’approvvigionamento agricolo. Haiti è già una terra abbastanza martoriata ed è normale che questo dono, apparentemente disinteressato, venga considerato un cavallo di Troia.
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di mazzetta
La messa all'indice dell'Iran, ben oltre ogni ragionevole misura, soddisfa numerose esigenze di propaganda: l'Iran è diventato in pochi anni la principale minaccia all'Occidente, sostituendo al Qaeda che si è rivelata poco credibile e l'Iraq, che si scoperto che non era una minaccia per nessuno solo dopo averlo devastato. La minaccia iraniana è incredibilmente amplificata, essendo l'Iran un paese del tutto sprovvisto di aviazione militare; manca infatti di qualsiasi capacità di proiezione e di attacco al di fuori dei propri confini, nella guerra moderna senza il dominio dello spazio aereo non si va da nessuna parte.
Dicono quelli che sostengono l'esistenza della minaccia, che l'Iran ha un sacco di missili. Missili di origine negli anni '60, poi passati attraverso mani cinesi, nord-coreane, pachistane e, infine, iraniane. Niente di troppo moderno, ma sufficienti a trasportare una testata più o meno nei pressi dell'obbiettivo. I missili iraniani sono una copia di quelli pachistani, poiché è dal Pakistan che l'Iran ha avuto accesso alla tecnologia missilistica e nucleare, anche se i primi a fornire know-how nucleare al paese persiano sono stati proprio gli Stati Uniti; negli anni '70 la General Electric usava l'immagine di Reza Pahlevi, lo Scià di Persia, come testimonial.
Pochi giorni fa Robert Gates, il Segretario della Difesa statunitense, ha detto che l'Iran potrebbe innaffiare l'Europa di missili, anche centinaia. Non ha elaborato oltre e nessuno gli ha chiesto che motivo avrebbe l'Iran di provocare danni insulsi e attirarsi l'ira di cinquecento milioni di europei armatissimi, che le atomiche ce le hanno davvero, insieme all'aviazione e a un sacco di altri apparati mortiferi. I media hanno raccolto senza alcuna critica, così come quando, due giorni dopo, il capo della CIA ha detto che l'Iran ha abbastanza uranio per fare due bombe.
Nessuno ha fatto notare che si tratta di una notizia vecchia e di uranio arricchito pochissimo, inutile per le bombe, e che pure l'Iran si è già impegnato a far arricchire all'estero. Vero è che gli Stati Uniti vorrebbero vendere all'Europa quella doppia patacca che è lo scudo antimissile. doppia perché oltre a non aver mai funzionato si tratta di una difesa contro una minaccia inesistente, tanto che si deve far finta che l'Iran minacci l'Europa anche se i suoi quattro missili a lungo raggio arrivano a malapena alla Grecia e all'Italia del Sud e non si capisce bene a cosa dovrebbe servire un attacco del genere.
Unendo tutti i puntini, si può osservare come la pressione americana sull'Iran miri principalmente a evitare che l'Iran arricchisca in proprio il suo uranio. Una posizione giustificata ufficialmente dal timore che l'Iran costruisca ordigni nucleari con quell'uranio, ma in realtà una determinazione che porta dritta a un evidente tentativo di costruire ed espandere un mercato dell'energia nucleare nel quale si producano meccanismi di controllo e di cartello su questa fonte d'energia.
La situazione è curiosa, perché l'Occidente ha, di fatto, abbandonato il nucleare, tranne le eccezioni di Francia e Giappone che comunque non mettono in cantiere centrali da parecchio. Tuttavia è l'Occidente a detenere la miglior tecnologia sul mercato con le centrali di penultima generazione, che hanno parecchi difetti ma sono meglio dei reattori russi e non sono una sfida ancora da vincere come quelli francesi di “ultima generazione”. Niente di meglio dell'opportunità di spacciare tecnologia obsoleta e costosissima ai principali concorrenti commerciali si penserebbe, ma è qui lo sbaglio; o meglio, qui è solo una parte del guadagno.
Oltre a questa opportunità, il governo degli Stati Uniti sta lavorando alacremente per costituire un vero e proprio cartello dell'uranio arricchito e per fare in modo che questo cartello possa avere un mercato sicuro di riferimento, rappresentato dai paesi che vorrebbero ricorrere al nucleare nel prossimo futuro, ma che l'Occidente dice che non possono arricchire l'uranio perché con le stesse centrifughe ci si può anche arricchire l'uranio per fare le bombe.
Un vero e proprio uovo di Colombo: se poi il “contratto” prevede anche che le scorie saranno processate dal fornitore di uranio arricchito e infine accollate al paese contraente, si comincia a intravvedere un business di proporzioni ciclopiche. I paesi che volessero ridurre la loro dipendenza dal petrolio si troverebbero a dipendere da questo cartello di paesi terzi che s'incarica (a pagamento) di costruire le centrali, arricchire l'uranio e processare le scorie, lasciando le centrali e le stesse scorie processate nei paesi contraenti. Un business infallibile, almeno a prima vista, e clienti più che fidelizzati, in balia dei prezzi che i gentili fornitori vorranno stabilire, visto che dopo aver speso miliardi di dollari per la costruzione di una centrale è impensabile lasciarla spenta perché costa troppo alimentarla.
Una vera e propria schiavitù commerciale, per istituzionalizzare la quale mancano solo alcuni dettagli, il più importante dei quali è sicuramente l'adeguamento del Trattato di Non Proliferazione alle esigenze degli Stati Uniti e degli alleati. Con il TNP vigente qualsiasi paese firmatario ha diritto a usare l'energia atomica per scopi civili e a dotarsi di tutto quel che serve, compresi gli impianti per l'arricchimento. Il TNP proibisce inoltre ai paesi firmatari di fornire tecnologia nucleare ai paesi non firmatari, ostacolando così il recente mega-accordo tra Stati Uniti e India.
Il prezzo da pagare per mettere mano al TNP è la discussione della posizione di Israele, sempre in prima linea a segnalare l'Iran come stato-canaglia, ma che non aderisce al TNP e non consente alcun controllo sul proprio programma atomico, pur essendo a tutti gli effetti considerato un paese dotato di molte armi nucleari e della capacità di recapitarle a lungo raggio, anche fino al Nord Europa, a proposito di minacce atomiche.
L'altro prezzo da pagare è riuscire a travisare la logica apparente di un'operazione del genere e fare in modo che gli altri paesi accettino, per minaccia o convenienza, la narrativa fantastica proposta dal Dipartimento di Stato, che in questo caso si muove nel ruolo dei picciotti di un plausibile racket dell'uranio.
Uno degli ostacoli più duri da superare resta la resistenza del Giappone, che fino a poco tempo fa non ci pensava proprio di fare affari con paesi estranei al TNP, ma che adesso ci sta pensando. Anzi, ci deve pensare, perché americani e francesi premono perché il governo del Sol Levante cambi la sua politica, almeno nei confronti dell'India, che non aderisce al TNP e che vi aderirà in una forma light offerta appositamente dagli Stati Uniti al governo indiano come corollario all'accordo per la cooperazione atomica.
GE Hitachi e Toshiba-Westinghouse sono però aziende controllate da Tokyo che hanno bisogno della luce verde del governo prima di assumere qualsiasi impegno. Senza questo consenso il gioco si complica enormemente, ma il grande business sembra solleticare il neo-premier giapponese e in tempi di crisi è difficile resistere a opportunità del genere.
Dall'altra parte di questo futuro mercato è invece molto difficile spiegare a un paese come la Giordania che deve accettare lo stesso servizio chiavi in mano già scelto da Arabia Saudita, Emirati e altri (e tra questi potenzialmente anche l'Italia), perché la Giordania ha uranio proprio e il re, ottimo alleato, non riesce proprio a capire perché dovrebbe lasciare ad altri paesi la determinazione del suo prezzo una volta arricchito.
La Giordania è un paese poverissimo e l'idea che la magra risorsa uranifera vada ad alimentare un business altrui è davvero difficile da digerire, esattamente com'è difficile da digerire per l'Iran che già con il petrolio è stato preso in questo infernale meccanismo, visto che gran parte dei suoi guadagni dalla vendita di petrolio grezzo è spesa per l'acquisto di prodotti raffinati altrove e ben più costosi.
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di Fabrizio Casari
Non aver obbedito agli Usa gli è costato una condanna a quaranta anni di carcere, dopo essere stato deposto dal governo di Washington con un’invasione militare. Lo afferma, da un’aula di Tribunale a Parigi, dove è stato estradato per reati minori, l’ex Generale e Presidente panamense, Manuel Noriega, che degli Usa è stato agente fedele prima e nemico giurato poi. L’ex uomo forte di Panama, che a Parigi ha subìto una nuova condanna a sette anni per riciclaggio di narcodollari, riapre così, a venticinque anni di distanza, una delle pagine più nere della storia dell’intelligence e della politica statunitense.
Va anche detto che Noriega non è stato l’unico - e non sarà probabilmente l’ultimo - a passare dalle stelle alle stalle nella considerazione statunitense: basti pensare sia a Saddam Hussein che, soprattutto, a Osama bin Ladin, oggi il numero uno dei ricercati Usa, ma ieri collaboratore fedele della Cia e del Pentagono (che diede, tra l’altro, alla famiglia bin Ladin, una delle più importanti commesse militari).
Dall’organizzazione dei Mujaheddin afgani contro i sovietici, fino all’invio dei combattenti islamici in Bosnia contro i serbi, Osama bin Ladin ebbe un ruolo anche nello scandalo Iran-Contras, lo scambio di armi, droga e denaro tra l’Amministrazione Reagan e l’Iran di Khomeini, attraverso il quale la CIA finanziò la guerra contro il legittimo governo sandinista in Nicaragua, costata 50.000 morti al piccolo paese centroamericano.
Ma se lo sceicco ha preferito tacere sugli ambigui rapporti con l’intelligence militare statunitense, Manuel Noriega ha invece scelto di raccontare come divenne un nemico giurato degli Usa dopo esserne stato un alleato.
Ma chi era Manuel Noriega? In patria lo soprannominavano cara de pina (faccia d’ananas). Per via del volto butterato, certo, ma anche a causa di una buona dose di cinismo e ipocrisia, doti che lo aiutarono non poco ad arrivare al vertice del Paese.
Il Generale panamense, divenuto poi Presidente, era partito da molto lontano; diplomato alla scuola militare di Fort Benning, in Georgia, divenne presto un interlocutore affidabile degli statunitensi: scarsamente incline alle teorie militari, sviluppò però una spiccata passione per le teorie anti-insurrezionali. Ma, soprattutto, una notevole disposizione all'arricchimento a qualunque costo.
E’ per questo che diventò un riferimento modello per chi, a Panama, gestiva la Escuela de Las Americas, il centro d’addestramento militare statunitense dove i peggiori delinquenti latinoamericani, golpisti a tempo indeterminato e torturatori in servizio permanente effettivo agli ordini del gigante del Nord, vennero formati alla guerra contro il comunismo e la sovversione. Che sono, in sostanza, di due modi diversi di chiamare il virus dell’indipendenza latinoamericana che metteva in discussione il dominio della Casa Bianca sul continente.
Imperava la teoria Monroe (l’America agli americani) e al Pentagono e alla CIA non si lesinavano sforzi per compiacere Reagan e Bush, quest’ultimo direttore generale della CIA prima di diventare vicepresidente con Reagan e Presidente successivamente. In fondo, la carriera di Bush padre, come quella di Reagan (che spiava per conto del FBI), sembrano indicare significative coincidenze nel legame tra intelligence e governo nordamericano, quando quest'ultimo é di marca repubblicana.
E’ in quel contesto che Noriega diventa un alleato prezioso. Arruolato dalla CIA nei primi anni ’70, come ammesso dall’ex direttore generale di Langley, l’Ammiraglio Stanfield Turner, Noriega - stipendiato con 100.000 dollari all'anno - rimase vincolato all’agenzia fino al febbraio del 1988, quando la DEA spiccò un mandato di cattura internazionale per traffico di droga.
E’ utile ricordare che nel 1981, l'allora Presidente panamense, Omar Torrijos, venne fatto saltare in aria mentre si trovava a bordo di un elicottero: la United Fruit Company non aveva certo gradito la riforma agraria del generale divenuto presidente. E che gli Stati Uniti abbiano avuto molto a che fare con l'attentato, é stato rivelato ampiamente da documenti declassificati.
E Noriega? Beh, guarda caso, subito dopo la morte di Torrijos, divenne Capo di Stato Maggiore delle Forze armate panamensi. Non più, quindi, un affiliato alla CIA tra i tanti, ma un interlocutore privilegiato importante per Langley. Ma che Noriega fosse implicato nel traffico di droga non vi sono dubbi, come non ve ne sono sul fatto che lo realizzasse in nome e per conto suo personale e della CIA.
Noriega divenne un uomo fondamentale per gli Usa, perché straordinariamente importante era l’istmo di Panama, il cui omonimo canale era - ed è - l’unica via marittima di collegamento tra Oceano Pacifico e Oceano Atlantico ed è passaggio obbligato nel collegamento tra nord e sud del continente americano. Se si pensa a cosa questo significhi sotto il profilo del controllo commerciale e militare, si capisce come mai gli Usa abbiano avuto nel controllo di Panama una delle loro (tante) ossessioni dominanti. E il generale panamense divenne l’uomo giusto al momento giusto.
Noriega diede un notevole aiuto alle operazioni più sporche dell’Amministrazione Reagan, ma “la madre di tutte le operazioni” era certamente quella che la Casa Bianca mise in piedi per finanziare i contras nicaraguensi, impegnati nell’aggressione al governo sandinista in Nicaragua. Nel 1984, il Congresso Usa approvò l’emendamento Boland, limitando così la strategia di Reagan di aggressione al Nicaragua. Reagan decise quindi che la sua guerra poteva esser fatta per procura proprio dai contras.
Dopo il 1984, con il Congresso che limitava i movimenti e i sandinisti che vincevano sul terreno militare, l’ansia di guerra in Centroamerica espose ogni giorno di più la Casa Bianca nelle covert action illegali. Panama assunse un'importanza enorme per le operazioni militari statunitensi, soprattutto per quelle che non potevano essere realizzate in basi statunitensi, dentro o fuori gli Usa che si fossero trovate. Sia perché, appunto, in violazioni delle disposizioni del Congresso, sia perché la Casa Bianca e la CIA negavano ogni coinvolgimento nell’aggressione al Nicaragua. Per questo ci fu bisogno di operare fuori e tramite amici fedeli.
Ma questo non fermò certo la crociata reaganiana: nel corso dei due anni seguenti i funzionari del governo Usa, violando pienamente la legge americana e le leggi internazionali, continuarono a finanziare i contras. Il denaro arrivava dal traffico di droga organizzato con i narcos colombiani e le armi venivano acquistate con i proventi della droga. Venne alla luce il ruolo dell’aviazione militare salvadoregna, vera e propria agenzia di viaggi della coca proveniente dalla Colombia.
Dalla base aerea di Ilopango, in El Salvador, fino in Texas, la coca viaggiava ben custodita e non sorvegliata. Destinazione Los Angeles, dove operava Freeway Rick, spacciatore nicaraguense che diffuse crack in tutti gli states. La Commissione Kerry del Senato americano, appurò poi che anche l’aereoporto militare della Florida era una delle destinazioni previste di questi viaggi a basso rischio ed alto profitto.
E che il traffico di droga, dentro e fuori gli states, servì per finanziare i contras, venne dimostrato dalle inchieste giornalistiche realizzate da Gary Webb, pubblicate dal San Jose Mercury News e successivamente raccolte nel libro "The dark alliance". Gli articoli gli valsero per due volte il Premio Pulitzer di giornalismo, ma non gli salvarono la vita. Gary Webb venne “suicidato” nel 2005. Dissero che si era ucciso, ma i colpi sul volto erano due: strano modo, per non dire impossibile, di suicidarsi…
I contras, definiti da Reagan “combattenti per la libertà”, erano autentici macellai, gestiti da alcuni personaggi principalmente legati agli esuli anticastristi della Florida al comando di Felix Rodriguez e Luis Posada Carriles, agli ex appartenenti alla Guardia Nazionale di Somoza guidati dal maggiore Enrique Bermudez e a mercenari di varia nazionalità, arruolati in ogni dove del mondo. Erano addestrati da uomini dell’intelligence israeliana, argentina e cilena.
La supervisione del tutto era affidata alla CIA e il collegamento tra questa santa alleanza e la Casa Bianca era rappresentato dal colonnello Oliver North e dal maggiore Pointexder, mentre il garante della copertura presidenziale era il Vice presidente George Bush, ex capo della Cia. North, che agiva di concerto con Eliott Abrams e la struttura del direttorato per l’America latina del Dipartimento di Stato Usa, era il coordinatore di tutte le covert action statunitensi e fu proprio lui ad organizzare il tutto.
E se dell’addestramento dei contras si occuparono, appunto, cileni, israeliani ed argentini, nessuno dei tre paesi risultò utile sotto il profilo della logistica. Noriega venne quindi coinvolto e Panama - insieme a Honduras e Costa Rica - entrò a pieno titolo nell’operazione di sostegno ai terroristi contras. L’Honduras e il Costa Rica offrivano basi nel loro territorio, ma l’attenzione internazionale cominciava a diventare difficile da gestire e i sandinisti, poi, riuscivano a colpire le basi della contra in teritorio honduregno e costaricense. Proprio per diversificare le fonti d’accesso, quindi, Panama divenne quindi uno dei canali per i soldi e per le armi statunitensi.
Succede perciò che le pressioni della CIA verso cara de pina aumentano. Non chiedono più solo un ruolo di logistica e di sostegno diplomatico, ma vogliono che Panama divenga la base fondamentale per la guerra contro il Nicaragua e contro l’FMLN in El Salvador. Ma Noriega non ci sta, non vuole coinvolgere Panama in un ruolo attivo contro il Nicaragua e Cuba.
Dapprima respinge le richieste dell'esponente della destra salvadoregna, Roberto D'Abuisson, capo degli squadroni della morte e mandante dell’assassinio di Monsignor Romero, di limitare i movimenti dei capi del FMLN a Panama; successivamente, cosa molto più determinante per la sua fine, respinge le richieste del tenente colonnello statunitense Oliver North, che chiede di fornire assistenza militare ai contras del Nicaragua.
Noriega insiste oggi - ma non da oggi - nel dire che il suo rifiuto di andare incontro alle richieste di North sta alla base della campagna statunitense per estrometterlo. E sostiene che siano proprio gli Usa ad averlo incastrato. Il rifiuto di prestare Panama alla pianificazione dell’aggressione militare al Nicaragua divenne motivo di scontro aperto con i suoi vecchi capi. Noriega non era più né fedele, né fidato. Era di nuovo, soltanto, cara de pina.
Fin quando Noriega collabora e si arricchisce, alla CIA va bene. Ma diventa inutile e pericoloso quando, il 18 marzo del 1988, decide di rifiutare l’offerta che due funzionari statunitensi gli portano a Panama. Dal momento che cara de pina si tira fuori dal grande gioco, non serve più. Washington vuole sostituirlo e gli offre di ritirarsi in Spagna con alcuni milioni di dollari e lui, in cambio, dovà tacere per sempre. Noriega rifiuta, è convinto di avere ancora carte da giocare.
Ma ci sono anche altre versioni dell’accaduto, come quella che vede Noriega chiedere a North un aiuto per ripulire la sua immagine dopo la pubblicazione sul New York Times di un articolo di Seymour Hersh, offrendo la sua disponibilità al tenente-colonnello della Marina Usa ad aiutare i Contras. Secondo questa versione, North e Noriega si incontrarono il 22 settembre del 1986 a Londra per perfezionare l’accordo ma, purtroppo per entrambi, tre settimane dopo fu abbattuto dall’esercito sandinista un aereo pieno di documentazioni compromettenti che fece esplodere lo scandalo Contras. North non riesce nemmeno a difendere se stesso, meno che mai potrebbe aiutare il socio panamense. E a questo punto, Noriega si tira indietro definitivamente.
Il rifiuto del generale darà così il via all’operazione mediatica, politica e infine militare destinata a destituirlo. Il 20 Dicembre del 1989, Washington invade l’isola con 27.000 marines e rangers. Dopo cinque giorni di combattimenti contro i “battaglioni della dignità nazionale”, gli Usa prendono il controllo dell’istmo e Noriega, che si era rifugiato nella Nunziatura apostolica, si arrende il 3 Gennaio del 1990. Washington mette al suo posto Guillermo Endara, che presta giuramento - simbolicamente, si potrebbe dire - nella base militare USA a Panama.
Nel processo tenutosi a Miami, notoriamente luogo dei peggiori scandali giudiziari statunitensi, per via dell’estrema politicizzazione della Procura locale, vengono fuori le colossali balle con cui si sostiene l’impianto accusatorio. Impianto che venne rivisto completamente diverse volte, man mano che si sviluppavano problemi con i testimoni, le cui storie si contraddicevano l'una con l'altra. Il procuratore statunitense trattò con 26 diversi trafficanti, tra cui Carlos Lehderr, che ottennero riduzioni di pena, pagamenti in contanti e il permesso di tenersi i proventi della droga in cambio della testimonianza contro Noriega.
Peccato che diversi di questi testimoni erano stati arrestati dallo stesso Noriega per traffico di droga a Panama. Alcuni testimoni, in seguito, ritrattarono le loro deposizioni e numerosi agenti di CIA, DEA, DIA, e del Mossad israeliano, che erano a conoscenza del traffico di droga in Centro America, hanno dichiarato pubblicamente che il processo era una messinscena.
Ma non era giudiziaria l’accusa che pendeva sull’ex-generale: era politica, e politica doveva essere la sentenza. Noriega venne così dichiarato colpevole e condannato - il 16 settembre 1992 - a 40 anni di prigione per traffico di droga e estorsione, pena poi ridotta a trent’anni da un successivo giudizio. Il messaggio che arriva da Washington è chiaro: chi disobbedisce agli Usa, la paga.
Ma il Nicaragua, divenuto la croce di Noriega per l'ossessione di Reagan, é tornato sandinista. Daniel Ortega, vent'anni dopo l'invasione di Panama, governa di nuovo. Il messaggio che arriva da Managua é quindi altrettanto chiaro: chi disobbedisce agli Usa una volta, magari la paga; ma chi disobbedisce ogni giorno, per tutta la vita, vince.
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di Michele Paris
Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Polonia, nello scorso fine settimana, ha decretato la vittoria del candidato favorito, il presidente del Parlamento Bronislaw Komorowski, del partito di centro-destra Piattaforma Civica (PO). Il suo successo è stato accolto positivamente dai mercati finanziari internazionali e dai grandi interessi economici polacchi, confortati dall’avere finalmente due politici sulla stessa lunghezza d’onda ai vertici del paese - il primo ministro Donald Tusk fa parte dello stesso partito - in grado ora di dare l’assalto al settore pubblico con nuovi tagli alla spesa.
L’ottimo risultato ottenuto dal rivale del neo-presidente, l’ex primo ministro ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski, produrrà però forse qualche scrupolo nel partito di governo, perché le misure impopolari che si appresta a varare potrebbero costare la vittoria nelle elezioni politiche del prossimo anno.
Il fratello gemello dell’ex presidente Lech Kaczynski, deceduto in un incidente aereo in Russia lo scorso aprile, aveva visto crescere rapidamente i propri consensi nel paese alla vigilia del voto, finendo addirittura per sfiorare una clamorosa affermazione. Rivolgendosi ad una base elettorale identificabile principalmente nelle aree rurali, duramente colpite dalla crisi economica e dalle politiche neo-liberiste degli ultimi anni, Jaroslaw Kaczynski e il suo partito Diritto e Giustizia (PiS) hanno condotto una campagna elettorale all’insegna del populismo e della demagogia, attenuando i toni fortemente nazionalistici ed anti-europei e promettendo misure a favore delle classi più disagiate.
Quest’ultima svolta aveva peraltro caratterizzato anche la fase finale del mandato del fratello Lech, il quale era stato protagonista di più di uno scontro con il primo ministro Tusk ed aveva posto il veto su varie leggi introdotte dal suo governo per ridimensionare drasticamente i programmi sociali sopravvissuti negli ultimi due decenni.
Se all’interno della Piattaforma Civica potrebbero farsi sentire le voci di quanti auspicano un approccio più moderato alle “riforme” economiche promesse, per timore di un’ulteriore erosione di consensi a favore del partito di Kaczynski, le dichiarazioni del nuovo presidente all’indomani della vittoria alle urne non hanno lasciato tuttavia molto spazio ai dubbi sulle iniziative future.
Significativamente, il primo pensiero di Komorowski è andato alla necessità di maggiore disciplina per quanto riguarda il bilancio dello Stato. Una preoccupazione condivisa dallo stesso governo, ben deciso a tagliare il debito pubblico dal 6,9 per cento attuale, al 3 percento entro il 2013, così da soddisfare i criteri di ammissione all’Eurozona.
Come il governo polacco intenda raggiungere quest’obiettivo è superfluo dirlo. Gli attacchi ai programmi sociali, al sistema sanitario e scolastico pubblico, le privatizzazioni delle aziende statali, il giro di vite nei confronti dei dipendenti pubblici, la liberalizzazione del mercato del lavoro sono d’altra parte all’ordine del giorno del gabinetto guidato da Donald Tusk dal 2007. L’aver promosso a capo dello stato un compagno di partito del premier dovrebbe spianare ora la strada a nuovi e più duri provvedimenti senza la minaccia del veto presidenziale.
Komorowski, da parte sua, ha alle spalle sufficiente esperienza in ambito di disciplina di bilancio. Nei primi anni Novanta fece parte dei governi succeduti alla caduta del regime comunista in Polonia e che implementarono la terapia d’urto della transizione all’economia di mercato, producendo più che altro disoccupazione di massa e povertà diffusa tra la popolazione.
Al di là dei proclami opportunistici, in ogni caso, un eventuale successo di Jaroslaw Kaczynski non avrebbe prospettato alcun percorso sostanzialmente alternativo. Durante gli anni da primo ministro, tra il 2006 e il 2007, Kaczynski aveva infatti perseguito uguali misure anti-sociali, in un governo oltretutto pervaso da spinte omofobe e antisemite.
Al ballottaggio di domenica scorsa ha partecipato circa il 55 per cento degli elettori polacchi, un’affluenza leggermente superiore a quella delle elezioni del 2005 ma che in definitiva ha determinato la vittoria di Komorowski grazie alle preferenze espresse per lui da appena un quarto degli aventi diritto. Un successo, insomma, che è apparso come il risultato della mancanza di reali alternative in una sfida a due che vedeva di fronte un candidato conservatore ed uno reazionario.
Una situazione che è in gran parte il risultato della condotta della principale forza della sinistra, l’Alleanza della Sinistra Democratica (SLD), erede del partito unico durante il regime stalinista e il cui candidato alle presidenziali, il deputato Grzegorz Napieralski, al primo turno è stato capace di raccogliere solo il 14 per cento dei consensi.
I socialdemocratici polacchi continuano a pagare le conseguenze del profondo malcontento popolare nei loro confronti provocato dai numerosi scandali e dalle politiche neo-liberiste che hanno segnato il periodo di governo tra il 2001 e il 2005.
Un’evoluzione quella del panorama politico polacco riscontrabile anche in molti altri paesi dell’Europa orientale e non solo, sfociata nel dominio pressoché incontrastato delle forze conservatrici e di governi e capi di stato che rappresentano unicamente i grandi interessi economici e finanziari.
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di Eugenio Roscini Vitali
Mahmoud Al-Mabhouh, funzionario di Hamas conosciuto con il nome di battaglia di Abu al-Abd e tra i fondatori delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato del Movimento islamico di resistenza palestinese, non doveva morire: questa è l’ultima conclusione cui sarebbero arrivati gli uomini dell’intelligence americano. Che puntano piuttosto sull’ipotesi del rapimento e sulla possibilità che l’ostaggio sarebbe poi entrato a far parte di una trattativa di scambio per ottenete la liberazione del caporale Gilead Shalit, il soldato israeliano catturato il 25 giugno 2006 da un commando palestinese nei pressi di Kerem Shalom, kibbutz non lontano dall’omonimo varco al confine con la Striscia di Gaza.
La valutazione dell’intelligence, riportata sul web da alcuni organi di stampa israeliani, parte dal presupposto che i servizi segreti dello Stato ebraico sono stati sempre certi del ruolo svolto da Mabhouh all’interno dell’organizzazione che gestisce l’approvvigionamento di armi iraniane verso Gaza e che, per la sua liberazione, Hamas sarebbe stato pronto ad accettare qualsiasi richiesta.
Secondo il piano, gli uomini del commando, arrivati negli Emirati con voli provenienti da Parigi, Francoforte, Roma e Zurigo, avrebbero dovuto intercettare Mabhouh all’interno dell’hotel Al-Bustan Rutana di Dubai prima che lo stesso ripartisse per Bandar Abbas, in Iran, dove lo stava attendendo una spedizione di armi da inviare a Gaza. All’interno della camera, Mabhouh sarebbe stato messo fuori combattimento con una quantità di droga tale da poterlo scortare fuori dalla hall sulle sue gambe e senza destare sospetti. Raggiunto il porto, sarebbe stato imbarcato su uno yacht, con il quale avrebbe raggiunto il Mar Rosso.
Una volta superato il Golfo di Aden, sarebbe stato consegnato ad una nave militare israeliana e scortato fino al porto di Eliat, in Israele. Secondo i servizi segreti americani la seconda parte del piano non sarebbe però andata a buon fine e Mabhouh sarebbe morto a causa dell’eccessiva dose di farmaci somministratagli e al suo stato di salute. Di fronte al tragico “incidente”, il capo della cellula che aveva il compito di portare il leader palestinese al di fuori dell’albergo avrebbe deciso di annullare l’operazione, ordinando agli agenti di ripiegare e lasciare il Paese in tutta fretta.
Per alcune ore i servizi di sicurezza di Dubai hanno pensato che la morte del palestinese, arrivato da Damasco con il volo EK912, fosse dovuta a cause naturali e, quando hanno iniziato ad analizzare le immagini del capillare sistema di telecamere a circuito chiuso, era ormai troppo tardi: il team si era dileguato e quelle che rimanevano erano solo una serie di false identità contenute in undici passaporti (sei britannici, tre irlandesi, uno tedesco ed uno francese) che hanno fatto arrabbiare i governi occidentali e hanno messo in grave imbarazzo Israele, che comunque continua a negare ogni coinvolgimento.
Ma per il capo della polizia di Dubai, Dahi Khalfan Tamim, non ci sono dubbi: dietro la morte di Mabhouh c’è il Mossad e, a confermare tale ipotesi, ci sono gli undici ordini d’arresto emessi contro i presunti sicari e il fermo di altre cinque o sei persone, compresi un’ex funzionario dell’entourage del presidente Abu Mazen e Nehru Massud, uno dei fedelissimi del numero uno di Hamas che si sospetta abbia aiutato gli israeliani ad identificare la vittima e che la mattina del 20 gennaio sarebbe stato visto a Damasco in compagnia di Mabhouh.
Se l’operazione fosse andata in porto, sarebbe però passata alla storia come un’impresa eccezionale, un tentativo che, alla luce dei fatti, ha solo prodotto una crisi diplomatica e costretto il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, a riprendere in considerazione la proposta del mediatore tedesco Gerhard Konrad. La morte di Mabhouh ha inoltre fatto un’altra vittima illustre, il capo del Mossad, Meir Dagan, affondato da quella serie di passi falsi, veri o presunti, che negli ultimi anni hanno minato un’immagine di uomo invincibile costruita in oltre quarant’anni di carriera.
A volerlo a capo dell’Istituto per l'intelligence e servizi speciali era stato Ariel Sharon, che nel 2002 lo aveva nominato direttore al posto di Ephraim Halevy. Fiducia confermata nel 2006 dal primo ministro Ehud Olmert, che gli aveva affidato il delicato compito di scoprire i segreti della struttura di comando e controllo degli Hezbollah, per altro fallito, e poi da Benjamin Netanyahu, che lo autorizzò a progettare ed eseguire il sequestro di Mahmoud Al-Mabhouh, miseramente conclusosi con la morte del membro di Hamas.
Sotto la guida di Dagan il Mossad ha sicuramente aumentato la sua attività e, a differenza del periodo in cui dirigeva Halevy (1998-2002), ha rilanciato le micidiali operazioni sotto copertura che negli anni Settanta l’hanno reso famoso. Preoccupato per la minaccia rappresentata dai legami tra Iran, Siria, Hamas ed Hezbollah, nel febbraio del 2008 avrebbe autorizzato l’attacco contro Imad Fayez Mughniyeh, esponente di spicco del movimento sciita libanese ucciso a Damasco dall’esplosione della sua auto, saltata in aria nei pressi del quartier generale dell’intelligence siriana.
Sei mesi più tardi, nell’agosto dello stesso anno, una cellula operativa del Mossad avrebbe inoltre partecipato all’assassinio del Generale siriano Mohammed Suleiman: il consulente per la sicurezza del presidente Bashar Al-Assad, venne assassinato a Tartus con una pallottola in testa sparata da un cecchino mentre passeggiava nel giardino della sua villa.
Fallita l’operazione “Al-Mabhouh”, la liberazione di Gilad Shalit ha ripreso la strada della trattativa diplomatica, quella dello scambio di prigionieri proposto lo scorso anno dal mediatore tedesco Gerhard Konrad. Secondo quanto riportato dalla Tv araba Al Jazeera, il premier Benjamin Netanyahu avrebbe dato il suo assenso al rilascio di mille detenuti palestinesi, che potrebbero rientrare nei territori subito dopo l'assenso di Hamas al rilascio del caporale israeliano.
Ricordando il prezzo pagato dal fratello Jonathan, ucciso nel 1976 ad Entebbe, durante l’operazione che portò alla liberazione dei passeggeri del volo Air France dirottato in Uganda da un commando di terroristi palestinesi e tedeschi, Netanyahu ha però precisato che i detenuti più pericolosi non potranno tornare in Cisgiordania e che, nella lista dei mille prigionieri, non potranno essere inseriti i nomi di quelli ritenuti più pericolosi: «Tutti vogliamo il ritorno di Shalit, ma come Primo Ministro devo prendere in considerazione tutto ciò che possa evitare il ripetersi degli errori del passato e che possa causarci nuove tragedie».
Un discorso liquidato da Hamas come mero tentativo di manipolare l’opinione pubblica e che in Israele ha raffreddato gli entusiasmi di quella parte del Paese che sostiene la campagna pro-Shalit e preme sul governo in favore della trattativa.