di Emanuela Pessina

BERLINO. L’autorità statunitense U.S. Geological Survey ha confermato di recente che il sottosuolo afghano custodisce materie prime per un valore complessivo di 1000 miliardi di dollari. Tra queste ricchezze sono presenti soprattutto rame, litio, ferro, oro, cobalto e terre rare: elementi talmente preziosi per la società contemporanea da trasformare l’Afghanistan in una vera e propria lampada di Aladino per ogni Paese industriale del mondo. Ma le sorprese non sono finite: gli ultimi sviluppi mostrano che in Afghanistan la quantità di petrolio è 18 volte superiore a quanto stimato nel 2001.

Secondo i geologi, l’Afghanistan ha le tutte le carte in regola per diventare “l’Arabia Saudita del litio”: un ruolo no da poco, se si considera che il litio è il materiale utilizzato per le batterie ricaricabili di cellulari, portatili e auto elettriche. Tra le terre rare nascoste nel Paese mediorientale, inoltre, ci sarebbe il gallio, elemento necessario alla produzione delle celle solari negli impianti fotovoltaici. In sostanza, nonostante la sua attuale povertà, l’Afghanistan sembra essere destinato a diventare uno dei più importanti giacimenti del futuro, poiché la quantità di materie prime è tanto elevata da poterlo rendere una delle nazioni esportatrici più potenti.

I depositi sono stati scoperti grazie al materiale cartografico raccolto dagli esperti minerari dell’ex-Unione Sovietica durante l’occupazione dell’Afghanistan degli anni ’80. Dopo il ritiro delle truppe russe, i geologi indigeni hanno conservato il materiale in via del tutto personale e l’hanno depositato negli archivi statali solo nel 2001, dopo la caduta del regime talebano. Secondo le notizie ufficiali, i dati sul sottosuolo afghano sarebbero stati trovati soltanto nel 2004 dagli studiosi nordamericani e divulgati, poi, nel 2007. L’interesse pubblico, tuttavia, sembra essersi rivolto alle ricchezze dell’Afghanistan solo oggi, dopo che il quotidiano statunitense New York Times ha scritto un articolo al riguardo.

Il presidente afghano Hamid Karsai, da parte sua, considera la scoperta una buona notizia: un suo portavoce l’ha definita addirittura “la migliore notizia degli ultimi anni per l’Afghanistan”. Gli esperti, tuttavia, dubitano che lo sfruttamento di queste risorse possa avvenire in maniera liscia, corretta e indolore. La posta in gioco è alta e le esperienze passate e presenti insegnano a diffidare di ogni buon proposito in certe situazioni: è una storia vecchia come il mondo che, purtroppo, non sembra interrompere mai il suo ciclo diabolico.

Per estrarre le materie prime servono investimenti enormi: l’Afghanistan è politicamente instabile e non ha infrastrutture statali qualificate per le operazioni. Inoltre, il rischio corruzione è alto: nel 2009 il Ministro per le risorse minerarie afghano si è dovuto dimettere proprio a causa di una tangente di 30 milioni di dollari ricevuta da un’azienda cinese per l’esclusiva dell’estrazione del rame, privilegio tuttora in vigore.

L’amministrazione statunitense ha già predisposto una commissione di esperti internazionali in attività minerarie per la consulenza del Governo afghano in materia. Che l’intromissione si sviluppi positivamente, purtroppo, è discutibile: gli Stati Uniti, così come i Paesi del mondo tutti, hanno i loro interessi economici da difendere. Inoltre, le esperienze in Congo e Nigeria mostrano come dalle grandi ricchezze del sottosuolo e dall’intervento degli europei non si siano sviluppati che conflitti etnici e grossolana corruzione. Risultato immancabile è l’inasprimento delle disuguaglianze fra i pochi ricchissimi e la massa di poverissimi, tipico quadro delle società africane che - purtroppo - da parecchio tempo non fa più notizia.

Da non dimenticare, in tutto questo, la caratteristica principale per cui è conosciuto l’Afghanistan, e cioè la cosiddetta Enduring Freedom (OEF), la “missione di pace” con cui Nato e Usa vogliono liberare la nazione (e il mondo) dai malefici talebani. La notizia delle ricchezze del sottosuolo afghano ha offerto ai numerosi critici dell’OEF un’ulteriore chance per ribadire le loro accuse di sporco doppio gioco nei confronti delle forze armate che occupano Kabul: le truppe Nato sarebbero in Afghanistan per difendere le materie prime e i loro interessi economici, più che la democrazia e il popolo semplice.

Per i più maliziosi, tuttavia, le prospettive di ricchezza dell’Afghanistan sono servite semplicemente da specchietto per le allodole mediatico. La settimana scorsa, infatti, l’allora comandante generale delle truppe Nato in Afghanistan, Stanley McChrystal, aveva accennato a un’interruzione dell’offensiva nella provincia di Helmand (Sud-Est dell’Afghanistan) e a un rinvio - a chissà quando - dell’avanzata nella provincia di Kandahar (Sud). Affermazioni che, come scrive il quotidiano berlinese Tagesspiegel, suonano come una “dichiarazione di bancarotta”: la notizia ricchezze dell’Afghanistan avrebbe cercato di nascondere prepotentemente l’insicurezza umana di un momento, un’esitazione che gli Stati Uniti non si possono permettere.

Se queste voci siano solo malignità, è tutto da dimostrare. Di certezze, invece, ve sono almeno due: in Afghanistan stazionano attualmente 100mila soldati Nato, di cui 3150 italiani e 4300 tedeschi, e l’onnipotente generale McChrystal è stato “licenziato”. E, mentre i grandi sono impegnati a Toronto per cambiare le regole di gioco dell’economia e i piccoli si commuovono per i mondiali in Sudafrica, in altri angoli di mondo la quotidianità sembra continuare il suo corso, paradossalmente offuscata dai media stessi.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Tutti se lo chiedono: cosa c'è dietro l'assurda sparata del generale americano contro Obama, che gli è costata il posto di comandante in capo della missione internazionale in Afghanistan? Non sarà che lo scaltro ex-comandante stia per scendere in campo contro il Presidente stesso nel 2012? Nel frattempo, McChrystal appende l'uniforme al chiodo. L'intervista del generale McChrystal a Rolling Stone è caduta come un fulmine a ciel sereno sulla Casa Bianca e sulle centomila truppe americane in Afghanistan. Anche se le avvisaglie non erano mancate: nei mesi scorsi il generale non ha perso occasione per mettersi in mostra e tirare il Presidente per la giacca. Il più clamoroso episodio riguarda la discussione sull'escalation di soldati alla fine dello scorso anno.

Poco dopo essere stato dichiarato comandante della missione afghana, in un chiaro tentativo di forzare la mano al Presidente, il generale aveva fatto trapelare alla stampa un suo rapporto riservato in cui chiedeva 40.000 soldati in più. Prima che Obama prendesse la decisione sull'aumento di truppe, McChrystal si presentava alla NATO per chiedere più truppe agli alleati, senza mandato del Presidente.

Ma con la sua esilarante intervista a Rolling Stone, il generale ha passato il segno. Non resta da chiedersi come mai abbia deciso di farsi licenziare di punto in bianco. Perché non c'è alcun dubbio che il generale abbia riflettuto a lungo prima di farsi sentire e permettere ai suoi collaboratori di parlare a ruota libera. Il direttore di Rolling Stone ha infatti confermato in diretta tv che il testo integrale è stato preventivamente approvato dal generale. Dunque non si tratta di interviste estorte a notte fonda dopo la quinta birra.

Non resta che una spiegazione: Stanley McChrystal aveva deciso di farsi licenziare. Se avesse abbandonato il posto di comando avrebbe rischiato la gogna mediatica e il disonore; ha perciò scelto l'antica tecnica dell'insubordinazione, insultare il Presidente e non lasciargli altra scelta. “Adoro i piani ben riusciti”, direbbe il generale se fosse Hannibal dell'A-Team. Ma qual è il movente?

Un particolare ci porta sulla buona strada: il nuovo comandante in capo in Afghanistan, nominato seduta stante dal Presidente, è il celebre David Petraeus, artefice della stabilizzazione irachena grazie alla strategia della controinsurrezione. I rumori di Washington davano Petraeus in pole position per le primarie repubblicane nel 2012. Solo un vero e proprio eroe di guerra potrebbe insidiare la rielezione di Obama. Ma ora il generale è fuori gioco, ci mancherebbe solo che lasci il posto anche lui: forse gli Stati Uniti ritirerebbero finalmente le truppe per manifesta incapacità.

Dunque non resta che McChrystal: curriculum da eroe di guerra, adorato dalle truppe, sempre pronto a scendere tra le prime linee, fine stratega. Mancava solo un ultimo dettaglio per fare presa sull'elettorato di destra: lo scontro con il Presidente. Da cui, nell'immaginario di Fox News e dei Tea Parties, McChrystal esce a testa alta.

Lunedì il generale ha annunciato l'intenzione di andare in pensione, ma a cinquantacinque anni non gli resta che aspettare qualche mese per mettere a frutto l'enorme popolarità di cui gode in patria e scendere in campo, questa volta in borghese. Magari scegliendo come vicepresidente ancora una volta Sarah Palin, per il ticket perfetto: eroe di guerra per l'elettorato moderato e celebrità svitata per l'estrema destra religiosa.

 

di Michele Paris

Il primo dei due summit annuali del G-20, andato in scena nel fine settimana a Toronto, ha messo in luce in maniera drammatica le profonde divisioni che attraversano i paesi più industrializzati all’indomani della gravissima crisi economica planetaria. Alla ricerca di un impossibile compromesso tra maggiore spesa pubblica per stimolare l’economia e misure di austerity per ridurre il deficit, i leader di governo riuniti in Canada hanno finito per accordarsi su una dichiarazione finale inconsistente e contraddittoria. Allo stesso tempo, i sia pur deboli provvedimenti previsti per regolare il sistema bancario internazionale, sono stati ancora una volta messi da parte.

Ad anticipare il principale conflitto che ha messo di fronte la Germania e i paesi europei agli Stati Uniti, era stata una lettera indirizzata alla vigilia del vertice dal presidente Obama agli altri membri del G-20. Nella missiva, Washington metteva in guardia dagli effetti negativi sulla ripresa economica prodotti dalle misure di riduzione del debito, adottate da fin troppi governi da questa parte dell’oceano. Per incoraggiare le esportazioni americane, la casa Bianca invitava in particolare Germania e Cina - i due maggiori paesi esportatori - ad incrementare la propria domanda interna.

Con lo spettro della Grecia e il diktat delle grandi banche e dei mercati finanziari, in Europa si è però ormai scelta la strada dei tagli alla spesa pubblica e del “consolidamento” del debito sovrano. Con Berlino e Londra a guidare la febbre del deficit - entrambi i governi conservatori hanno recentemente introdotto tagli indiscriminati alla loro spesa - la maggioranza dei venti paesi più avanzati ha finito allora per convergere sostanzialmente sulla proposta del primo ministro canadese, Stephen Harper. Il comunicato ufficiale ha così sancito il ritorno alle misure di austerità dopo il breve periodo di “deficit spending” seguito all’esplosione della bolla finanziaria dell’autunno del 2008.

Gli obiettivi ufficialmente fissati dal G-20 sono il dimezzamento del passivo di bilancio dei paesi membri entro il 2013 e la stabilizzazione del loro rapporto tra debito e PIL entro il 2016. Di fronte alle perplessità di Stati Uniti, Brasile, India, Giappone e altri paesi, tali obiettivi non saranno però vincolanti ed ogni governo sarà libero di intraprendere provvedimenti su misura per ridurre i rispettivi deficit. Ogni governo, in definitiva, sceglierà autonomamente il proprio percorso per uscire dalla crisi, con buona pace della necessità di stabilire regole in maniera condivisa per scongiurare nuovi rovesci dell’economia mondiale.

Ancora a sottolineare le divisioni e il tentativo di conciliare due visioni opposte, nel documento finale del summit, su richiesta americana, è stato inserito un passaggio che evidenzia come ci sia “il rischio che una serie di aggiustamenti finanziari [tagli] sincronizzati messi in atto dalle maggiori economie possano mettere a repentaglio la ripresa”. Ciò riflette l’ammonimento del Segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, il quale aveva chiesto un approccio misurato alla riduzione del debito, così da non ostacolare la ripresa e gettare l’economia mondiale in una nuova fase di recessione. Nonostante i proclami, tuttavia, gli scrupoli di Washington sono rivolti agli altri paesi, dal momento che proprio la scorsa settimana al Congresso è stato bocciato un nuovo pacchetto di stimolo all’economia e di sostegno alla disoccupazione.

Se il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha elogiato l’esito del G-20, rassicurando che i tagli che stanno per abbattersi sui lavoratori e la classe media in Europa e negli Stati Uniti non provocheranno una nuova recessione, sembra essere precisamente quest’ultimo scenario ad attenderci nel prossimo futuro. Il taglio della spesa pubblica in un periodo di crisi non fa altro che indebolire ulteriormente un’economia già fragile, comprimere gli investimenti e ridurre le entrate fiscali dei vari paesi.

Oggi, insomma, si stanno ripetendo i medesimi errori che portarono ad un aggravamento della crisi economica nei primi anni successivi al crollo del 1929, come ha ricordato il premio Nobel Joseph Stiglitz in un’intervista al giornale inglese The Independent. Ma si stanno ripercorrendo anche le orme del FMI quando, tra gli anni Ottanta e Novanta, impose pesanti politiche restrittive all’Argentina, all’Indonesia e a molti altri paesi in via di sviluppo causando più danni che benefici. Una politica dettata principalmente dal rigore ideologico di un’élite dirigente incapace di vedere le conseguenze devastanti prodotte dalla compressione della spesa, dal taglio dei servizi e dal ridimensionamento dell’intervento pubblico nell’economia su decine di milioni di persone.

I fantasmi della Grande Depressione sono stati rievocati sul New York Times anche da un altro Nobel per l’economia, Paul Krugman, il quale, dopo aver criticato l’esito “profondamente scoraggiante” del G-20 canadese, ha preannunciato una imminente terza depressione, dopo quelle del cosiddetto “Panico del 1873” e appunto quella degli anni Trenta del secolo scorso. L’ossessione per un inesistente pericolo inflazione e per misure di contenimento del deficit, quando il vero problema è in realtà un livello inadeguato di spesa pubblica, non potranno che condurre ad un prolungato periodo di stagnazione, disoccupazione di massa e gravi sofferenze per i redditi più bassi.

Sul fronte della regolamentazione del sistema bancario, infine, tutto è stato rinviato al prossimo summit che si terrà a Seoul, in Corea del Sud, a novembre. I temi all’ordine del giorno comprendevano in particolare una nuova tassa da applicare alle transazioni finanziarie per ripagare i costi dei programmi di salvataggio delle banche degli ultimi anni e, allo stesso tempo, l’aumento del capitale che queste ultime dovrebbero garantirsi per fronteggiare eventuali perdite in periodi di crisi. Anche in questo caso, l’esito dei negoziati ha smascherato le spaccature all’interno del G-20.

Da un lato gli USA spingevano per un’implementazione relativamente rapida delle nuove norme; dall’altro in Europa si chiedeva di rimandarne l’entrata in vigore in attesa di una piena ripresa economica. In realtà, queste divergenze nascondono un’aspra competizione tra gli istituti bancari europei ed americani. Infatti, mentre le banche americane sono state stabilizzate grazie ad una serie di fusioni e soprattutto agli ingenti fondi pubblici stanziati dopo il crollo del settembre 2008, quelle europee appaiono tuttora in condizioni estremamente precarie. Se le nuove regole dovessero essere applicate a breve, la debolezza delle banche europee consentirebbe a quelle americane di conquistare nuove quote di mercato nel vecchio continente.

di Marco Montemurro

Il Nepal, la più giovane repubblica del mondo, sta attraversando una crisi che minaccia la legittimità del governo nazionale. Il processo di pace, avviato nel 2006 dopo l’abrogazione della monarchia, rischia ora di arrestarsi poiché la Costituzione, fondamenta del nuovo Nepal democratico, appare ancora lontana. Il mese scorso il paese ha rischiato di cadere in un limbo istituzionale. Dopo settimane di fallimentari trattative tra le forze politiche, il termine per varare la nuova costituzione, imposto il 28 maggio, era prossimo a scadere. Solamente l’ultimo giorno, venti minuti prima della mezzanotte, l’Assemblea Costituente è giunta a un fragile accordo per di prolungare i lavori di un ulteriore anno. È una tregua che, per il momento, non lascia intravedere alcuna soluzione definitiva.

In Nepal da mesi il governo mostra segni di debolezza, una congiuntura pericolosa perché potrebbe essere la premessa di un ritorno alla guerra civile. La situazione è anomala, in quanto il partito maggiormente rappresentato in Parlamento, l’Unified Communist Party of Nepal (Maoist), è fuori dal governo e, di conseguenza, in conflitto con le altre due importati formazioni politiche, il Nepali Congress e il Communist Party of Nepal (Unified Marxist-Leninist).

Indubbiamente, i maoisti sono i protagonisti della scena politica, come dimostra la storia nazionale degli ultimi anni. Reduci da un decennio di aspri combattimenti contro la monarchia - una lotta armata che ha provocato oltre 13.000 vittime - nel 2006 i maoisti assaporarono la vittoria, assistendo alla deposizione di re Gyanendra. Raggiunto tale primo traguardo, dopo aver stretto accordi con le altre forze politiche, accettarono di deporre le armi, iniziando a collaborare per la fondazione di un nuovo Nepal, repubblicano e democratico.

I maoisti, volendo continuare il processo rivoluzionario anche tramite gli organismi politici, nel 2008 parteciparono alle prime elezioni e, forti di un ampio sostegno popolare, ottennero il risultato più elevato grazie al 30% dei voti. Il successo sancì l’ingresso dei maoisti nella costituente e il loro leader, Pushpa Kamal Dahal (detto Prachanda) fu nominato primo ministro.

Sembrava che un vento di rinnovamento soffiasse sul paese, tuttavia la crisi era alle porte. Dopo soli dieci mesi di governo, nel maggio dello scorso anno, Prachanda decise di dimettersi e, assieme a lui, il partito maoista uscì dal governo. Entrò in contrasto con il presidente, Ram Baran Yadav, accusandolo di non aver accettato la sua richiesta di rimuovere il capo delle forze armate, Rookmangud Katawal, reo di aver negato l’integrazione degli ex guerriglieri maoisti nell’esercito nazionale.

La questione è importante, perché la riforma delle forze armate fu un’inderogabile richiesta che imposero i maoisti nel 2006, condizione necessaria per l’avvio degli accordi. Acconsentirono infatti al processo di pace poiché in esso non venne previsto lo smantellamento dell’Esercito di Liberazione Nazionale, bensì una sua assimilazione nell’esercito del Nepal. La delusione di questa promessa ha inevitabilmente incrinato il dialogo politico e, da allora, il cammino verso la pacificazione ha iniziato a entrare in crisi.

Da un anno ormai, dal giorno delle dimissioni del primo ministro Prachanda, il Nepal repubblicano stenta a trovare un equilibrio. Nel corso dei mesi, infatti, si susseguono proteste contro il presidente Yadav e il nuovo governo di unità nazionale. Il conflitto non sembra calare, anzi, le dimostrazioni più intense sono avvenute proprio nelle scorse settimane. In occasione delle celebrazioni del Primo Maggio, è stato organizzato uno sciopero generale che, per sei giorni, ha bloccato la capitale, paralizzando scuole, uffici, fabbriche e trasporti. Circa 100.000 persone si sono riversate nelle strade, deluse nei confronti dell’attuale governo.

L’Assemblea Costituente, dunque, si trova in una situazione di stallo, in scacco dei maoisti, risoluti nel far valere il loro peso politico. Per essere varata, la nuova Costituzione necessita dell’approvazione dei due terzi dell’assemblea; pertanto i maoisti, dato che detengono il 38% dell’aula, inevitabilmente devono partecipare al voto. Si prospettano quindi due ipotesi: o parte delle loro richieste saranno soddisfatte, oppure l’intero processo di pace rischia di crollare, un’eventualità che potrebbe significare il ritorno alla lotta di migliaia di ex guerriglieri.

La collaborazione tra le principali forze politiche, quindi, è una condizione fondamentale, ma anche un fattore che pone in vantaggio i maoisti. Rimanendo all’opposizione, hanno già ottenuto un primo obiettivo il 28 maggio, quando è stato posticipato il termine dei lavori della Costituente. Il documento redatto, infatti, include un’importante clausola, ossia viene assicurato che l’attuale primo ministro “è pronto a rassegnare le proprie dimissioni”. I maoisti, possedendo forze sia nelle strade sia dentro il Parlamento, difficilmente potranno essere esclusi nel futuro del Nepal.

di Michele Paris

Una recente, importantissima sentenza della Corte Suprema americana, ha messo ancora una volta in evidenza il pericoloso restringimento delle libertà individuali negli Stati Uniti in nome della lotta al terrorismo. Con una netta maggioranza, il tribunale costituzionale a stelle e strisce ha fissato una pesante limitazione alla libertà di parola dei cittadini, sancita dal Primo Emendamento della Costituzione, subordinandola alle necessità della sicurezza nazionale e al dettato delle leggi federali in materia di anti-terrorismo.

La disputa finita di fronte alla Corte Suprema (“Humanitarian Law Project contro Holder”) riguardava una serie di associazioni a difesa dei diritti umani, gruppi no-profit e singoli cittadini americani che, nel 2007, erano stati al centro di una sentenza della Corte d’Appello di San Francisco, con la quale veniva stabilita la non perseguibilità delle loro attività pacifiche a favore di organizzazioni bollate come terroristiche dal governo americano.

Tali attività riguardavano, in particolare, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) attivo clandestinamente in Turchia, e il gruppo nazionalista delle Tigri Tamil (LTTE) dello Sri Lanka, entrambi ufficialmente dichiarati organizzazioni terroristiche nel 1997 dall’allora Segretario di Stato di Bill Clinton, Madeleine Albright. Il lavoro svolto dagli attivisti americani a favore del PKK e delle LTTE consisteva esclusivamente in aiuti umanitari, consulenze legali per risolvere pacificamente i conflitti con le autorità governative e consigli per promuovere le rispettive cause presso organismi internazionali come le Nazioni Unite.

Secondo il governo, appellatosi alla sentenza dei giudici federali, queste attività pacifiche violano la legge sul terrorismo del 1996 (“Antiterrorism and Effective Death Penalty Act”), traducendosi in “supporto materiale” ad organizzazioni terroristiche straniere che possono mettere a rischio la sicurezza nazionale. Un punto di vista alquanto discutibile, fatto proprio dalla Corte Suprema, che ha così deciso che la legge in questione deve vietare non solo contributi in denaro, armi ed altri beni tangibili, ma anche la fornitura di “servizi”, “addestramento” e “consulenza legale” a scopi interamente pacifici.

Secondo il presidente del supremo tribunale americano, John G. Roberts, un supporto di questo genere “libererebbe altre risorse” all’interno delle organizzazioni terroristiche, favorendo il perseguimento di azioni violente, e “legittimerebbe gli stessi gruppi, mettendo a repentaglio le relazioni degli Stati Uniti con i paesi alleati”. Oltre al presidente, con la maggioranza hanno votato i tre giudici di estrema destra (Antonin Scalia, Clarence Thomas e Samuel Alito), il conservatore più moderato Anthony Kennedy e il progressista John Paul Stevens. Contrari si sono dichiarati invece gli altri tre giudici liberal, Ruth Bader Ginsburg, Sonia Sotomayor e Stephen Breyer.

A riassumere l’assurdità della sentenza è stato proprio il giudice Breyer, il quale, con una mossa insolita per la Corte Suprema, ha voluto leggere una parte dell’opinione della minoranza. Secondo Breyer, la maggioranza ha erroneamente messo sullo stesso piano il supporto “materiale” e quello “morale” o “umanitario”. Una collaborazione di quest’ultimo genere, infatti, rientra precisamente nelle protezioni garantite dal Primo Emendamento. La decisione della Corte Suprema, al contrario, rischia pericolosamente di limitare o punire la libertà di espressione se valutata pericolosa per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Ciò risulta tanto più grave se si pensa che la classificazione dei gruppi terroristici, o presunti tali, da parte di Washington risponde pressoché esclusivamente alle esigenze della politica estera americana. Solo per citare un paio di esempi, negli anni Ottanta, l’African National Congress che si batteva contro il regime di apartheid in Sudafrica rientrava nella categoria delle organizzazioni terroristiche, mentre al contrario i guerriglieri islamici che combattevano le truppe sovietiche in Afghanistan, da cui sarebbe nato il fondamentalismo legato ad Al-Qaeda, trovavano ampio sostegno negli USA.

Lo stesso giudice Breyer ha offerto poi un altro confronto che rivela la pericolosa deriva sulla questione dei diritti civili degli ultimi anni. In passato, la Corte Suprema aveva cioè garantito le protezioni del Primo Emendamento anche ai cittadini americani aderenti al Partito Comunista, nonostante esso propagandasse il rovesciamento del governo statunitense.

Come previsto, le reazioni da parte delle organizzazioni umanitarie sono state molto dure. Con questa sentenza si rischiano fino a 15 anni carcere anche solo discutendo o parlando pubblicamente a favore di una delle organizzazioni sulla lista nera del Dipartimento di Stato americano. Secondo un avvocato difensore, la decisione della Corte in sostanza “rende un crimine il lavoro di quanti si battono per la pace e per il rispetto dei diritti umani”.

Il principio che l’interesse del governo nel combattere il terrorismo sia sufficiente per calpestare la libertà di parola prevista dal Primo Emendamento ha così ottenuto la suprema ratifica negli Stati Uniti. Ben poco rassicurante per le prospettive future sarà poi la prossima composizione della Corte Suprema, dal momento che la candidata a sostituire a breve il giudice John Paul Stevens è proprio il procuratore generale (“solicitor general”) Elena Kagan, la quale aveva appunto sostenuto le ragioni del governo in difesa della legge anti-terrorismo nel corso del dibattimento che ha preceduto la sentenza.

Il caso in questione, in definitiva, ha dimostrato come la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, non fa altro che assecondare il progressivo attacco ai diritti democratici in corso negli Stati Uniti ormai da quasi un decennio. Un assalto iniziato dall’amministrazione Bush e portato avanti, senza distinzioni, anche dal presidente Obama.


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